Il codice morale ufficiale e quello reale (familismo amorale)
Il divario tra il codice di condotta postulato dalla cultura ufficiale scritta, e il costume reale del paese, era grande.
Trovo sul rovescio della copertina di un vecchio quaderno di scuola usato un anno prima che nascessi io, un Decalogo Civile che comincia così:
1. Ama i compagni di scuola, che saranno i tuoi compagni di lavoro di tutta la vita.
2. Ama lo studio...
3. Santifica tutti i giorni con qualche azione utile e buona, con qualche atto gentile.
[...]
Trovo sul rovescio della copertina di un vecchio quaderno di scuola usato un anno prima che nascessi io, un Decalogo Civile che comincia così:
1. Ama i compagni di scuola, che saranno i tuoi compagni di lavoro di tutta la vita.
2. Ama lo studio...
3. Santifica tutti i giorni con qualche azione utile e buona, con qualche atto gentile.
[...]
Tutti sono ugualmente lontani dal codice reale di condotta che seguiva la gente, pur non trovandolo scritto in alcun luogo. Non dico che questo fosse l’opposto di quelli, che la gente vivesse in modo apertamente immorale e incivile: dico solo che la nostra condotta non si ispirava ai modelli che ci erano proposti.
La rettitudine contava relativamente poco. Parlo, s’intende, dei valori, non già dei fatti. Va da sé che la proporzione delle persone rette e di quelle non rette era press’a poco la stessa che ovunque. L’espressione “uomo retto” esiste anche in paese, ma l’ho sempre sentita con un’inflessione speciale, simile a quella che potrebbe avere altrove una frase come “ha una voce così gentile e delicata”. La rettitudine è una virtù, ma marginale.
Le virtù principali vigevano nella cerchia del mondo familiare, ed erano connesse colle necessità della vita, e col lavoro. La parola “dovere” in senso morale è sconosciuta al dialetto; c’è invece l’espressione “bisogna”, nel senso in cui si dice che morire bisogna. Anche lavorare bisogna, per sé, per la “dòna”, per “el me òmo”, per i figli, per i vecchi che non possono più lavorare. Bisogna lavorare non otto ore, o sette ore, o dieci ore, ma praticamente sempre, magari con pause, interruzioni e rallentamenti, però in continuazione e senza orario, più o meno da quando si alza il sole fino a notte; bisogna lavorare da quando si è appena finito di essere bambini (e le bambine nelle case anche prima) fino a quando si è già vecchi da un pezzo; bisogna lavorare quando si è così poveri che lavorando sempre si arriva appena a sopravvivere, e anche quando si è meno poveri, e si potrebbe lavorare meno. Anche qui, non descrivo principalmente fatti ma valori: naturalmente non tutti lavoravano così, c’erano gli scioperati, i fainéants, i voglia-di-far-bene. Ma il principio centrale riconosciuto da tutti era che bisogna lavorare per la famiglia con tutte le proprie forze, sopportare qualunque fatica e sacrificio.
Un Decalogo realistico in lingua sarebbe dovuto cominciare così:
1. Ricordati che bisogna lavorare per la tua famiglia, e che la tua famiglia viene prima di tutto.
Di gran lunga la maggior parte delle energie fisiche e spirituali della gente si riversava in questo lavoro. Per i più la vita era estremamente dura: duro il lavoro nei campi, nelle officine, nelle bottegucce degli artigiani, nelle filande, e durissimo per le donne nelle case e nelle famiglie. Ma anche i lavori ritenuti meno duri, dei bottegai, degli osti, dei commercianti, dei mediatori, erano pesanti a paragone dei criteri di oggi.
Le quattro filande erano l’industria massima del paese: tutte le donne del popolo o prima o poi andavano o erano andate in filanda, con orari, salari e condizioni di lavoro che riescono oggi quasi incredibili. Quando la filanda “andava”, c’era un fracasso alto e continuo di macchinari antiquati, e in mezzo come un lamento acuto il canto delle filandiere stordite:
Santa Madre, deh Voi fate
che le piaghe del Signore
siàno impresse nel mio cuore.
Polenta e cipolla, polenta e anguria. Le filandiere uscivano a mezzogiorno, rientravano alla “cuca” tra la mezza e un bòtto. Per questo breve lunch hour non tutte correvano a casa; quelle che venivano da lontano si sedevano lungo i due marciapiedi, di qua e di là della strada. Dai cartocci di carta gialla tiravano fuori la polenta e lo stupefacente companatico.
Oltre alle filiere vere e proprie sapevo che c’erano le scoattine e le ingroppine, nomi di sogno. Scoattine! Ingroppine! Non pareva credibile guardando queste donne e ragazze col colore dei bachi da seta sul viso.
Ristorate, dopo una mattina di lavoro, tornavano dentro a lavorare alle bacinelle di acqua bollente fino a sera, invocando in alte grida la Santa Madre del cielo, chiedendole piaghe.
Nelle case si allevavano i bachi da seta, i bizzarri “cavalieri” che si spargevano come un minuto seme nero (la “semenza”) e a mano a mano diventavano piccole miniature di bruchi, poi si vedevano crescere di giorno in giorno, si allargavano su ampi territori ombrosi e tiepidi di tralicci accatastati a ripiani, invadevano le stanze, brucando con forza sempre più grande la “foglia” di moraro.
La vita di queste creature colla pancia piena di seta somigliava a una febbre: il livello saliva di giorno in giorno, aggravando la fame dei malati. Già mangiavano dalle tre, poi dalle quattro; il piccolo brusio che in principio si avvertiva appena tendendo l'orecchio, diventava una vibrazione intensa, e infine un rombo. Gli uomini e i bambini arrampicati sui morari pelavano la foglia sempre più in fretta, arrivavano coi sacchi: frane di lucida foglia seppellivano i mostri deliranti che la sbranavano in pochi minuti.
Ora i cavalieri mangiavano di furia: qualcuno andava in vacca, una specie di Tisi dei cavalieri che spegneva la febbre. La seta marciva dentro e si liquefaceva, gonfiando la pelle traslucida: a pungerlo con uno spillo il mostro si sgonfiava spargendo uno zampillo di tabe. Gli altri paralizzati dalla febbre e da tutto quel mangiare, s’intorpidivano e venivano deposti nel “bosco” (le siepi di fascine in granaio) dove in pochi giorni, nello spazio abbuiato dagli schermi di carta sulle finestre, avveniva in segreto il miracolo; poi si trovavano nei rami secchi i giocattolini d’oro lustri e leggeri.
La cura dei bachi da seta era uno di quei lavori supplementari che s’affidavano principalmente alle donne, perché non restassero in ozio: avevano solo da partorire fino a una dozzina di figli, da allevarne mezza dozzina, da cucinare per tutti, lavare, stirare, spazzare, rifare i letti, vuotare i vasi, lavare i piatti, cucire, rattoppare, rammendare, badare alle galline, curare i malati, pregare per il marito, andare in chiesa e baruffare un po’ con le vicine. Come riuscissero ad andare anche in filanda non ho mai capito.
Alla sera facevano filò, in campagna nelle stalle, in paese nelle cucine: si divertivano, le pigrone, a far la calza o addirittura a giocare la tombola; oppure d’estate sedevano sulla porta con le mani in mano a vedere la gente che tornava dalle osterie.
Gli uomini per divertirsi alla sera andavano all’osteria a giocare alle carte; non erano venute ancora né televisione né luce al neon né bibite. C’erano decine di osterie in paese, tutte fornite di vino clinto dal sapore volpino e di negro vino nostrano. Se queste osterie, sociologicamente parlando, erano una piaga, erano però luoghi più attraenti dei caffè con la televisione di oggi (che secondo me sono anch’essi, sociologicamente parlando, una piaga): avevano pesanti tavole bislunghe, grosse sedie impagliate, il banco di legno, il focolare aperto. Nella medesima stanza, o in una adiacente anch’essa aperta agli avventori, c’era la cucina della famiglia dell’oste: andando in osteria si aveva la sensazione di andare anche in visita.
[...]
Il nostro Decalogo potrebbe dunque continuare così:
2. Preparati a tribolare: quasi tutti debbono tribolare.
3. Impara a essere bravo nel tuo lavoro. Non c’è nulla di più rispettabile di uno bravo nel suo lavoro.
Il quarto comandamento potrebbe riguardare le donne:
4. Sii pulita. La donna onta non merita stima.
Nella vecchia generazione quasi l’unica critica che si faceva alle donne era contro quelle che non erano “pulite”: non “nete” che vuol dire pulite nella persona ma “pulite” ossia brave a tenere la casa in ordine (“néta”), i bambini lavati, i vestiti ben rammendati e rattoppati con cura. “Onta” vuol dire insomma untidy; nei casi gravissimi si diceva, e mio padre dice tuttora, che una donna era “un luamàro” che vuol dire most untidy.
Poiché non voglio compilare io un Decalogo, ma esemplificare un discorso, mi fermerò qui con i comandamenti.
Nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intaresse, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano - nel modificare questo codice di condotta - la forza che aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione.
In ciò che concerne l’intaresse, lo Stato si considerava quasi universalmente un estraneo importuno che ognuno aveva il diritto e poco meno che il dovere di defraudare. Il rubare era riprovato dai più, ma nella sfera privata, furtiva, classica dei ladronecci notturni di galline, o dei furti dal cassetto d’un negozio o d’una credenza; invece l’“arrangiarsi” nei confronti di qualunque ente pubblico, o anche di enti impersonali, era molto diffuso; e piuttosto frequente anche l’arrangiarsi nei confronti di gruppi familiari estranei con cui si dividessero orti, cortili, magazzini, cantine, granai.
Della prima forma di arrangiamento si parlava apertamente come di cosa naturale e sottintesa, e molti se ne vantavano; della seconda invece non solo non si parlava in pubblico, ma si negava anche l’evidenza. Mentire in caso di bisogno era regola poco meno che generale: si mentiva, se necessario, con grandi segni di croce, e facce stravolte. Per le bugie, come per il rubare, l’astratto era condannato, il concreto spesso praticato. “Busiaro” come “ladro” erano insulti; ma mentire di fatto e (nei casi che ho detto) rubare di fatto non erano sentiti dalla gente come esempi di menzogna e di furto. “Onesto” si diceva delle persone eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori che potevano permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di “onesto” non è “disonesto”, ma “uno che tende i so intaressi”. L’equivalente paesano del “disonesto” della lingua sarebbe “un poco de bòn”, ossia uno che compie imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità. Il ladro di galline non è né onesto, né disonesto, è un ladro.
Questi esempi che mi paiono cruciali nella morale convenzionale, potranno bastare per ogni altro caso. In generale la bontà non si associava con questi, e gli altri analoghi, aspetti della condotta: era piuttosto una categoria psicologica che morale. “Bòn” vuol dire di indole gentile; “cattivo” vuol dire litigioso, incline a trovar da dire, a rimproverare i sottomessi, a menar le mani. Né si associava la bontà con la devozione religiosa, anzi le persone “di chiesa” erano spesso tenute in sospetto di una forma speciale di cattiveria secca. Però era proprio su questo terreno della bontà che il contenuto morale della religione riusciva ad acquistare un significato comprensibile a tutti attraverso la raccomandazione generica a essere buoni, che era come la traduzione in dialetto dell’invito evangelico alla gentilezza, alla tolleranza, alla generosità, e in breve ad amare il prossimo.
I vizi canonici, invidia, superbia, iracondia, avarizia, erano considerati tratti psicologici, non concetti morali. Da piccoli eravamo stati istruiti ad accusarcene in confessione, e ce ne accusavamo scrupolosamente; ma crescendo poi ci parevano irrelevant per un adulto, come il domandarsi se si fosse stati “disubbidienti”. Le corrispondenti qualità si riconoscevano bensì nella gente, ma parevano moralmente indifferenti, meri tratti naturali dell’individuo, come la corporatura o la guardatura stralocchiata.
Se è vero che nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese; avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti disinteressati.
Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, BUR, 2007, pp. 97-106.
2. Preparati a tribolare: quasi tutti debbono tribolare.
3. Impara a essere bravo nel tuo lavoro. Non c’è nulla di più rispettabile di uno bravo nel suo lavoro.
Il quarto comandamento potrebbe riguardare le donne:
4. Sii pulita. La donna onta non merita stima.
Nella vecchia generazione quasi l’unica critica che si faceva alle donne era contro quelle che non erano “pulite”: non “nete” che vuol dire pulite nella persona ma “pulite” ossia brave a tenere la casa in ordine (“néta”), i bambini lavati, i vestiti ben rammendati e rattoppati con cura. “Onta” vuol dire insomma untidy; nei casi gravissimi si diceva, e mio padre dice tuttora, che una donna era “un luamàro” che vuol dire most untidy.
Poiché non voglio compilare io un Decalogo, ma esemplificare un discorso, mi fermerò qui con i comandamenti.
Nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente nel determinare il costume ciò che si chiamava l’intaresse, naturalmente in funzione della solidarietà familiare. Né le leggi dello stato né i precetti morali della religione avevano - nel modificare questo codice di condotta - la forza che aveva invece il senso del decoro (“no sta ben”), di ciò che riscuote la sanzione della comunità, e che può differire profondamente non solo da quello che prescrive la legge, ma anche da quello che ingiunge la religione.
In ciò che concerne l’intaresse, lo Stato si considerava quasi universalmente un estraneo importuno che ognuno aveva il diritto e poco meno che il dovere di defraudare. Il rubare era riprovato dai più, ma nella sfera privata, furtiva, classica dei ladronecci notturni di galline, o dei furti dal cassetto d’un negozio o d’una credenza; invece l’“arrangiarsi” nei confronti di qualunque ente pubblico, o anche di enti impersonali, era molto diffuso; e piuttosto frequente anche l’arrangiarsi nei confronti di gruppi familiari estranei con cui si dividessero orti, cortili, magazzini, cantine, granai.
Della prima forma di arrangiamento si parlava apertamente come di cosa naturale e sottintesa, e molti se ne vantavano; della seconda invece non solo non si parlava in pubblico, ma si negava anche l’evidenza. Mentire in caso di bisogno era regola poco meno che generale: si mentiva, se necessario, con grandi segni di croce, e facce stravolte. Per le bugie, come per il rubare, l’astratto era condannato, il concreto spesso praticato. “Busiaro” come “ladro” erano insulti; ma mentire di fatto e (nei casi che ho detto) rubare di fatto non erano sentiti dalla gente come esempi di menzogna e di furto. “Onesto” si diceva delle persone eccezionalmente corrette negli affari: se ne parlava come di cosa ammirevole e poco saggia, un lusso e una finezza di persone eccentriche, per lo più signori che potevano permetterselo senza gravi conseguenze. L’opposto di “onesto” non è “disonesto”, ma “uno che tende i so intaressi”. L’equivalente paesano del “disonesto” della lingua sarebbe “un poco de bòn”, ossia uno che compie imbrogli nelle sfere non consentite, e anche senza vera necessità. Il ladro di galline non è né onesto, né disonesto, è un ladro.
Questi esempi che mi paiono cruciali nella morale convenzionale, potranno bastare per ogni altro caso. In generale la bontà non si associava con questi, e gli altri analoghi, aspetti della condotta: era piuttosto una categoria psicologica che morale. “Bòn” vuol dire di indole gentile; “cattivo” vuol dire litigioso, incline a trovar da dire, a rimproverare i sottomessi, a menar le mani. Né si associava la bontà con la devozione religiosa, anzi le persone “di chiesa” erano spesso tenute in sospetto di una forma speciale di cattiveria secca. Però era proprio su questo terreno della bontà che il contenuto morale della religione riusciva ad acquistare un significato comprensibile a tutti attraverso la raccomandazione generica a essere buoni, che era come la traduzione in dialetto dell’invito evangelico alla gentilezza, alla tolleranza, alla generosità, e in breve ad amare il prossimo.
I vizi canonici, invidia, superbia, iracondia, avarizia, erano considerati tratti psicologici, non concetti morali. Da piccoli eravamo stati istruiti ad accusarcene in confessione, e ce ne accusavamo scrupolosamente; ma crescendo poi ci parevano irrelevant per un adulto, come il domandarsi se si fosse stati “disubbidienti”. Le corrispondenti qualità si riconoscevano bensì nella gente, ma parevano moralmente indifferenti, meri tratti naturali dell’individuo, come la corporatura o la guardatura stralocchiata.
Se è vero che nei rapporti tra famiglie era quasi onnipotente l’interesse, non bisogna però credere che fosse onnipresente. Inoltre se il lavoro era duro, e riempiva le giornate di ciascuno, non è detto però che isolasse l’individuo dal resto del paese; avveniva anzi il contrario. Badando ai propri interessi e al proprio lavoro, la gente si mescolava con la gente, attraverso una fitta serie di rapporti disinteressati.
Luigi Meneghello, Libera nos a Malo, BUR, 2007, pp. 97-106.
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