L'ingentilimento del cafone e le sue conseguenze a lungo termine

Non sarebbe equo tacere che una frequentazione piú assidua del Principe aveva avuto un certo effetto anche su Sedàra. Fino a quel momento egli aveva incontrato degli aristocratici soltanto in riunioni di affari (cioè di compravendite) o in seguito ad eccezionalissimi e lunghissimamente meditati inviti a feste, due sorta di eventualità durante le quali questa singolarissima classe sociale non mostra il proprio aspetto migliore. In occasione di questi incontri egli si era formato la convinzione che l'aristocrazia consistesse unicamente di uomini-pecore, esistenti soltanto per abbandonare la lana alle sue forbici tosatrici ed il nome, illuminato da un inspiegabile prestigio, a sua figlia.

Ma già con la sua conoscenza del Tancredi dell'epoca postgaribaldina, si era trovato di fronte a un esemplare inatteso di giovane nobile arido quanto lui, capace di barattare assai vantaggiosamente sorrisi e titoli propri con avvenenze e sostanze altrui pur sapendo rivestire queste azioni sedaresche di una grazia e di un fascino che egli sentiva di non possedere, che subiva senza rendersene conto e senza in alcun modo poter discernerne le origini. Quando, necessariamente, ebbe imparato a conoscere meglio don Fabrizio, ritrovò sí la mollezza e l'incapacità di difendersi che erano le caratteristiche del suo immaginario nobile-pecora, ma in piú una forza di attrazione differente in tono, ma simile in intensità, a quella del giovane Falconeri; inoltre, ancora, una certa energia tendente verso l'astrazione, una disposizione a cercar la forma di vita in ciò che da lui stesso uscisse e non in ciò che poteva strappare agli altri. Da questa energia astrattiva egli rimase fortemente colpito benché gli si presentasse grezza e non riducibile in parole, come qui si è tentato di fare, si avvide che buona parte di questo fascino scaturiva dalle buone maniere e si rese conto di quanto un uomo beneducato sia piacevole, perché in fondo non è altro che qualcheduno che elimina le manifestazioni sempre sgradevoli di tanta parte della condizione umana e che esercita una specie di profittevole altruismo (formula nella quale l'efficacia dell'aggettivo gli fece tollerare l'inutilità del sostantivo). Lentamente don Calogero capiva che un pasto in comune non deve di necessità essere un uragano di rumori masticatori e di macchie d'unto; che una conversazione può benissimo non rassomigliare a una lite fra cani; che dar la precedenza a una donna è segno di forza e non, come aveva creduto, di debolezza; che da un interlocutore si può ottenere di piú se gli si dice: non mi sono spiegato bene, anziché: non hai capito un corno; e che adoperando simili accorgimenti, cibi, argomenti, donne, ed interlocutori vengono a guadagnarci a tutto profitto di chi li ha trattati bene.

Sarebbe ardito affermare che don Calogero approfittasse subito di quanto aveva appreso; egli seppe da allora in poi radersi un po' meglio e spaventarsi meno della quantità di sapone adoperato nel bucato, e null'altro; ma fu da quel momento che si iniziò, per lui ed i suoi, quel costante raffinarsi di una classe che nel corso di tre generazioni trasforma innocenti cafoni in gentiluomini indifesi.



Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, 2003 (ed. or. 1957), pp. 130-131.

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