L'ombelico di Stella

"Sono un peccatore, lo so, doppiamente peccatore, dinanzi alla legge divina e dinanzi all'affetto umano di Stella. Non vi è dubbio, e domani mi confesserò a padre Pirrone." Sorrise dentro di sé pensando che forse sarebbe stato superfluo, tanto sicuro doveva essere il Gesuita dei suoi trascorsi di oggi. Poi lo spirito di arzigogolío riprese il sopravvento: "Pecco, è vero, ma pecco per non peccare più oltre, per non continuare ad eccitarmi, per strapparmi questa spina carnale, per non esser trascinato in guai maggiori. Questo il Signore lo sa." Fu sopraffatto da un intenerimento verso sé stesso. "Sono un pover'uomo debole," pensava mentre il passo poderoso comprimeva l'acciottolato sudicio, "sono debole e non sostenuto da nessuno. Stella! si fa presto a dire! il Signore sa se l'ho amata: ci siamo sposati a vent'anni Ma lei adesso è troppo prepotente, troppo anziana anche." Il senso di debolezza gli era passato. "Sono un uomo vigoroso ancora; e come fo ad accontentarmi di una donna che, a letto, si fa il segno della croce prima di ogni abbraccio, e che, dopo, nei momenti di maggiore emozione, non sa dire che: 'Gesummaria!' Quando ci siamo sposati, quando aveva sedici anni, tutto ciò mi esaltava; ma adesso... sette figli ho avuto con lei, sette; e non ho mai visto il suo ombelico. È giusto questo?" Gridava quasi, eccitato dalla sua eccentrica angoscia. "È giusto? Lo chiedo a voi tutti!" E si rivolgeva al portico della Catena. "La vera peccatrice è lei!"

Questa rassicurante scoperta lo confortò e bussò deciso alla porta di Mariannina.


Giuseppe Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Feltrinelli, 2003 (ed. or. 1957), pp. 37-38

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