La repressione sanguinaria contro i valdesi di Calabria

Tra il 1561 e il 1563, lo scenario della cristianità italiana è occupato dagli ultimi, intensi e un po' affannosi anni di lavoro dell'assemblea dei vescovi riunita a Trento. Sono, in Italia, anni di lotte intellettuali, di contrasti e dibattiti dai toni minacciosi: ma, dopo la guerra di Siena e dopo Cateau-Cambrésis, la pace sancita dal dominio spagnolo non sembra più incrinata. Eppure, all'altro capo della penisola, in Calabria, c'è una guerra in corso. Non una guerra spirituale, di scritture e di battaglie teologiche, ma una guerra combattuta da un esercito regolare contro popolazioni inermi, donne, vecchi, bambini; combattuta anche contro i cimiteri e le ossa dei morti, che furono disseppellite e disperse. Ne furono vittime gli abitanti di alcuni villaggi della costa tirrenica della Calabria, Guardia e San Sisto: nel giugno del 1561, un corpo di fanteria al comando del governatore Marino Caracciolo distrugge i raccolti, abbatte le case, sgozza e impicca gli abitanti, li manda al rogo, li ammazza gettandoli dall'alto di una torre. Non furono risparmiate nemmeno le ossa dei cimiteri. È un piccolo episodio, che potrebbe essere confuso con lo stillicidio di rivolte e di repressioni armate che segna la vita di queste società, sempre esposte ai rischi del brigantaggio: il tribunale istituito sul posto, che mandò a morte gli scampati all'eccidio, lo fece ricorrendo tra l'altro all'accusa di ribellione e di porto d'armi. Ma l'imputazione più pesante era quella di eresia. Gli abitanti dei villaggi calabresi erano valdesi e dunque eretici: giunti a ondate successive nell'Italia meridionale, erano stati capaci di sfuggire ad ogni sospetto simulando e dissimulando. Avevano conservato la loro fede nell'ombra e nel silenzio, garantiti dai signori feudali del luogo. Ma con l'adesione dei valdesi alla confessione di fede riformata, nel sinodo di Chanforan (1532) le cose erano cambiate. Finita l'epoca della simulazione, cominciava quella della professione o «confessione» pubblica. La decisione del sinodo era stata portata a conoscenza dei valdesi di Calabria attraverso l'infiammata predicazione di alcuni pastori giunti dal nord. La tragica sorte di questi predicatori - Giacomo Bonelli morì sul rogo a Messina nel 1560, Gian Luigi Pascale fu impiccato e bruciato a Roma lo stesso anno - è un segno di cambiamento dei tempi. Era cominciata l'età confessionale, nel duplice senso del termine: aderire a una «confessione di fede» voleva dire accettare una serie di dottrine contenute in un documento scritto e darne pubblicamente prova, battendosi per far trionfare la propria scelta religiosa sulle altre. Non erano più possibili il nascondimento e la simulazione, che per secoli avevano permesso alle comunità valdesi di sopravvivere. Mentre il Pascale finiva con un compagno nelle carceri di Fuscaldo, il popolo di San Sisto si ribellava al marchese di Montalto: e la reazione delle autorità politiche e religiose non si fece attendere. Le stragi e i roghi che chiusero la storia di queste «enclaves» valdesi furono un passo avanti nella direzione di quella uniformità religiosa di cui il concilio di Trento stava elaborando i connotati dottrinali.

[...] in Calabria la vita riprendeva sotto il segno del nuovo ordine. Le campagne di stampa in altri paesi d'Europa a nulla valsero contro l'opera della repressione sul posto. Il documento più eloquente è un elenco dei «fuochi» fatto per ragioni fiscali nel 1561: «fo ammazzato questa estate paxata come luterano»; le case, se non erano state bruciate, erano state requisite dalla Curia; e, se ancora abitate da donne o da  adolescenti, spesso bastava una traccia della presenza dei banditi («lo letto è grande et se vede... dormironce più persone»), per dare fuoco a tutto. Non tutti morirono, comunque: ci fu chi sopravvisse temporaneamente - il tempo di un processo e di una condanna - e chi fu lasciato in vita. Dei condannati si occuparono due gesuiti, i padri Lucio Croce e Juan Xavier, col compito di «redurli», cioè di farli morire non da ribelli ma pentiti e rassegnati. I gesuiti erano maestri in questo genere di cose. La loro relazione al generale della Compagnia racconta di un successo completo: «Tutti questi che sonno stati sententiati... si sonno ridotti; et di poi li habiamo confessati et accompagnatili al suplitio uno per uno, forno tutti scannati et squartati».


Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, 2009, pp. 5-6.

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