L'uso poliziesco del sacramento della confessione in epoca post-tridentina

Da parte dei vescovi o dei loro vicari, si trattava di far applicare l'obbligo sancito dal Concilio Lateranense IV [1215] della pratica annuale dei sacramenti; non c'era, o comunque non era prevalente un uso strumentale di quella pratica per verificare l'ortodossia [...]

Si trattava comunque di una volontà di controllo che aveva caratteri diversi da quelli della pura vigilanza antiereticale. È proprio questa funzione di snidare gli eretici che emerge invece in un editto del 1554 pubblicato congiuntamente, a Milano, dall'arcivescovo Giovan Angelo Arcimboldi e dal commissario apostolico contro l'eresia. L'editto riguardava lettura e predicazione e dettava misure severissime contro la diffusione dei libri proibiti; prometteva, tra l'altro, l'assoluzione e la penitenza segreta a tutti coloro che si fossero presentati a confessare colpe proprie o a denunziare complici. In più, chi contribuiva a far arrestare complici, poteva sperare di avere in compenso una parte dei beni sequestrati agli eretici. In calce all'editto era pubblicato un ampio indice dei libri proibiti. Ma, prima di passare all'elenco vero e proprio, l'editto imponeva che si desse mano a realizzare l'obbligo della confessione e della comunione annuale a Pasqua: tutti i preti con cura d'anime erano invitati a informare il popolo del dovere strettissimo di confessarsi e di comunicarsi per Pasqua. I contravventori avrebbero visto i loro nomi pubblicati con ignominia, sarebbero stati scomunicati e «cacciati fuora delle chiesie con gran vituperio» e, se pertinaci, sarebbero incorsi nei rigori della giustizia ecclesiastica e di quella secolare. Era un irrigidimento del canone di Innocenzo III  Omnes utriusque sexus, di cui l'esule Pier Paolo Vergerio denunciò subito lo scopo di lotta contro la Riforma.

Da questo momento, si può dire che la strada era segnata. Non si trattava più di una semplice esigenza di controllo della pratica sacramentale, come quella che aveva trovato espressione in molti editti e decreti sinodali. L'associazione di vescovo e inquisitore aveva portato a rendere quel passaggio annuale una specie di pettine per sciogliere i nodi ereticali nascosti. Ma prima che prevalesse l'esigenza della identificazione degli eretici la misura aveva conservato una funzione di disciplina non limitata solo alla lotta al dissenso dottrinale. Il vescovo Loffredo, della provincia salernitana, nel 1537 impose la registrazione distinta e analitica di non confessi e non comunicati e la consegna delle liste al vicario generale della diocesi entro l'ottava di Pasqua: ma non sembra che la preoccupazione inquisitoriale fosse la causa del provvedimento. Ordini pressanti in tal senso furono impartiti anche da Girolamo Seripando nel 1554. Certo, in molte misure di tipo «pastorale» c'era latente un potenziale di sorveglianza antiereticale. Del resto era stato nella Spagna della «reconquista» che si era cominciato a controllare l'adempimento dell'obbligo stabilito dal Lateranense IV con appositi registri. Si intravede qui la funzione poliziesca che questo tipo di informazioni poteva assumere: una possibilità che si dispiegò nell'età della Riforma quando l'attacco protestante alla confessione auricolare spostò l'attenzione delle autorità ecclesiastiche su questo sacramento come filtro obbligato per individuare gli eretici. Così, se i registri di tipo anagrafico - quelli destinati a registrare il battesimo della popolazione - cominciarono a diffondersi in Italia molto presto, quelli legati alla confessione e comunione si infittirono solo in età tridentina.

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Si è visto come la confessione avesse rivelato nei dibattiti tridentini la sua duplice natura: strumento di potere e di consolazione, canale di formazione e di informazione. Dal punto di vista dell'Inquisizione come pure da quello dei vescovi riformatori, era l'aspetto dell'informazione che contava. Bisognava che tutti si confessassero per poter avere un filtro efficace e capillare, un luogo obbligato per la raccolta delle conoscenze. E solo la conoscenza esatta dei mali - i mali morali come quelli dottrinali - poteva garantire l'efficacia dell'intervento. Ma c'era voluto poco a capire che, se si doveva trasformare la confessione in luogo di delazione delle colpe altrui, bisognava vincere resistenze profonde. Come fece presente fra Felice Peretti, la maggior parte «restava di confessarsi».

Bisognava costringerli: il corollario di tanti obblighi fatti ai confessori in funzione dell'Inquisizione era che la popolazione fosse davvero costretta, volente o nolente, a confessarsi. Su questa strada, i segnali furoni chiari e continui: l'Italia di quegli anni conobbe, attraverso le sue istituzioni ecclesiastiche di ogni genere, l'obbligo della confessione periodica. Lo dicevano i decreti conciliari; lo ripetevano i sinodi diocesani; e lo inculcavano predicatori, parroci, maestri. Perfino i medici furono arruolati. A Pio V va riconosciuta una testarda perseveranza su questa strada. Valendosi di norme che risalivano a Innocenzo III (e richiamate nelle discussioni tridentine) fu proprio Pio V ad imporre ai medici con un «motu proprio» del 1566, il giuramento di negare le cure ai malati che non si fossero preliminarmente confessati. Era l'irruzione di un metodo poliziesco e autoritario nel campo della preparazione alla morte, dove si registrava allora un complicato processo di generalizzazione e laicizzazione di moduli monastici. La novità era nello stile, non nella cosa. Il vescovo di Verona G.M. Giberti aveva pure ordinato ai medici di «non medicar del corpo, chi prima non studia medicarsi de l'anima», ma - per sua ammissione - con scarsi risultati. Ma il vero precedente della misura presa da Pio V fu costituito dal decreto di Carlo Borromeo, fatto approvare nel primo concilio provinciale milanese: qui si era stabilito che i medici, dopo aver debitamente invitato i malati a confessarsi, ne avviassero almeno la cura, salvo abbandonarla dopo quattro giorni se il paziente non si era ancora confessato. Pio V, nel generalizzare la norma dell'archidiocesi milanese, la rese più dura e più adatta al controllo inquisitoriale (va ricordato, infatti, che il disegno perseguito dal Borromeo aveva al centro una figura di confessore che tendeva a coincidere col parroco).

L'ossessione del controllo sui pensieri più segreti degli uomini raggiungeva così la frontiera estrema della loro vita e vi si attestava con un corpo speciale di doganieri, fatto di medici e di confessori. Per i medici che avessero disobbedito a quell'ordine erano previste pene assai dure. Non mancarono echi nella letteratura di pietà né forme di propaganda interna alla corporazione medica: il medico imolese Battista Codronchi, a nome dei suoi colleghi, fu pronto a raccogliere l'invito della chiesa e a svolgere un'opera di persuasione. I colleghi medici dovevano richiedere la confessione al malato non solo per timore del peccato mortale e delle sanzioni ecclesiastiche ma anche in nome della loro scienza. I legami tra il corpo e l'anima fanno sì - scriveva il Codronchi - che la confessione dei peccati possa essere considerata un medicamento fisico, perché chi si confessa e risana l'anima spesso ricava anche giovamento per il corpo.


Adriano Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, 2009, pp. 292-294 e 468-470.

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