Gli esperimenti psico-sociali di Milgram e Zimbardo sul ruolo dell'autorità nel comportamento etico

Nello stesso anno della pubblicazione del libro della Arendt [La banalità del male, 1963] lo psicologo Stanley Milgram, dalla Università di Yale, diede vita a un esperimento destinato a grande notorietà. Attraverso un annuncio economico su un giornale locale vennero reclutati volontari per uno studio che - così era spiegato - concerneva l'apprendimento e la memoria. Ogni singolo volontario era compensato per la sua partecipazione con una piccola somma e veniva accolto da un signore in camice bianco, il quale gli spiegava che avrebbe dovuto fare da «docente» a un altro volontario in realtà membro del gruppo degli sperimentatori) che - apparentemente - doveva ricordare banali coppie di parole. Il finto volontario si presentava come un tipo comune, un uomo dall'aspetto tranquillo sulla cinquantina. Il compito del partecipante ingenuo consisteva nel somministrargli, tramite un apparecchio con molte manopole in fila, scosse elettriche con intensità crescente ogni volta che quello non rispondeva a dovere: nascosto da una paratia non poteva vederlo, ma lo sentiva benissimo. Naturalmente non c'era nessuna corrente elettrica e il falso volontario era addestrato a reagire alle pretese scosse prima con lamenti moderati e poi a mano a mano con urla e pianti. Sotto le manopole relative ai vari voltaggi, da 15 a 450 Volts, c'erano etichette ben visibili che andavano da «Schock lieve» a «Pericolo! Grave schock», fino a un minaccioso «XXX». Lo sperimentatore in camice bianco aveva il compito di incoraggiare bonariamente ma fermamente il volontario ignaro a continuare la sua escalation di  somministrazioni dolorose malgrado resistenze, ansia e perplessità, dicendogli fra l'altro che le scosse potevano essere sì penose ma non causavano mai danni permanenti.

I risultati di questa ricerca hanno suscitato molte discussioni (fra l'altro sotto l'aspetto etico) ma vengono considerati una tappa importante nello studio dell'aggressività e dell'ubbidienza all'autorità. L'80 per cento dei partecipanti, infatti, continuò al di là dei (finti) 150 Volts, un punto in cui regolarmente la vittima gridava «fatemi uscire» e rivelava di soffrire di cuore; più della metà, ossia ben il 62,5 per cento, arrivò fino al massimo di 450 Volts, quando l'altro ormai taceva, apparentemente privo di sensi. La media del voltaggio raggiunto dai vari partecipanti fu incredibilmente alta, di 360 Volts, cioè dopo che la vittima aveva già urlato disperata e sembrava aver perso il controllo di sé per il dolore.

Erano passati meno di dieci anni, quando, nel 1972, un altro psicologo sociale, Philip Zimbardo, insieme ad alcuni suoi colleghi, prese 24 studenti di sesso maschile dell'università californiana di Stanford, scelti in base al loro buon carattere e al solido equilibrio mentale, e li invitarono a partecipare a uno studio sulle dinamiche di gruppo in una prigione simulata. Questa volta non c'erano trucchi e gli accordi erano leali. Tirando a sorte fu stabilito chi dovesse essere la «guardia» e chi il «prigioniero»; le dodici guardie indossavano tute griogioverde e portavan occhiali a specchio, mentre ai prigionieri furono date lunghe tuniche e una catena da portare appesa a una caviglia. Nessuno disse agli studenti cosa dovessero fare o non fare; le loro interazioni erano confinate nel seminterrato del Dipartimento di psicologia e il progetto iniziale prevedeva che la simulazione iniziale dovesse durare due settimane. L'esperimento venne però interrotto dopo sei giorni per l'emergere di seri disturbi da stress in alcuni dei «prigionieri»: infatti in breve tempo le «guardie» avevano cominciato a sottoporre i finti reclusi a una serie umiliante e feroce di vessazioni, fra l'altro chiedendo loro di indossare sacchi opachi sulla testa, denudandoli, e imponendo loro di mimare atti sessuali.

Il lettore di oggi riconosce in questi sgradevoli dettagli qualcosa di familiare? Quando più di trent'anni dopo, nell'aprile del 2004 vennero alla luce le atrocità perpetrate dai soldati americani sui reclusi nella prigione di Abu Ghraib, vicino a Baghdad, gli psicologi sociali furono tra i meno propensi a meravigliarsi. È vero che in Irak l'ingiunzione di non andare tanto per il sottile era venuta con ogni evidenza, dall'alto, ma è altrettanto evidente che già a Stanford, come poi ad Abu Ghraib, era entrato in gioco un fattore mediocre e inquietante, cioè il sentirsi, in gruppo beninteso - e questo è importante - interiormente autorizzati; o, se vogliamo essere più precisi, l'esaltante  sensazione di non dover rispondere della propria libertà nel disporre a proprio piacimento di altri individui percepiti come estranei al gruppo dei solidali. [pp. 14-16]

[...] In circostanze abituali noi ci limitiamo a fare ciò che, appunto, è abituale, ed è probabile che si tratti per lo più di comportamenti socialmente accettati; ma è altrettanto vero che in circostanze insolite possiamo fare, in pratica, quasi qualsiasi cosa, anche cose molto cattive, soprattutto se vi sono persone che condividono in quel momento le nostre iniziative.

Di qui un commento generale: pare che ogni esemplare della specie umana disponga delle risorse potenziali per fare con una certa efficienza ciò che desidera in circostanze diversissime, ma che non disponga nel proprio animo di segnali di allarme altrettanto efficaci, capaci di bloccare le sue imprese più distruttive. Volendoci sbilanciare potremmo anche dire così: alla domanda «siamo cattivi?» la risposta più giusta è che non lo siamo affatto, ma che riusciamo con sorprendente facilità a scavalcare le nostre disposizioni migliori per fare a cuor leggero le cose peggiori. [p. 27]


Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, 2007.

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