Le tendenze naturali della mente a deviare dal pensiero logico-razionale


L'idea di razionalità è inscindibile dalla storia della civiltà occidentale. Un filo ideale lega questo concetto all'Atene di Pericle, alle saggezze del Diritto Romano e ai ragionati dissensi della Riforma protestante, per approdare alle sue elaborazioni nell'Era Moderna.

Vi sono implicate problematiche filosofiche che esulano dai modesti intenti di questo libro. Ponendosi dal punto di vista dello psicologo può essere interessante, tuttavia, introdurre il lettore ad alcuni aspetti del tema, mostrandogli come i nostri modi correnti di pensare - e di voler essere razionali - siano qualcosa di meno semplice e, soprattutto, di meno omogeneo di quanto possa sembrare. Vedremo in questo capitolo come in molti casi sia impossibile separare ciò che è razionale da ciò che riguarda, invece, l'universo delle emozioni; o ancora più semplicemente il razionale dall'irrazionale.

Vari meccanismi si attivano in noi quando, di fronte ad un problema da risolvere, cerchiamo di venirne a capo; e qui i modi eventualmente sfortunati con cui il nostro pensiero tende a inciampare, producendo errori di valutazione, sono interessanti perché tendono ad essere sempre gli stessi […]

Cominciamo dal più banale degli indovinelli, e anche dal modo di risolverlo. Molti ragazzini di otto-dieci anni sono capaci di rispondere alla seguente domanda in un tempo brevissimo, mentre spesso invece gli adulti si confondono: quanto pesa quel mattone che pesa un chilo più mezzo mattone? È degna di nota la procedura più tipica, soprattutto se la risposta non è immediata. Ci si rappresenta mentalmente una bilancia con due piatti in equilibrio, su un piatto c'è un mattone, sull'altro mezzo mattone e un peso da un chilo. A questo punto balza agli occhi che il mattone pesa due chili. Il procedimento è dunque per immagini, e ciò sembra confermare un'ipotesi che, avanzata inizialmente da Philip Johnson-Laird alcuni anni or sono, oggi è largamente accettata: il nostro ragionare è sempre (fondamentalmente) per immagini. Ne è esempio. Dice Johnson-Laird, persino il sillogismo: quando ragioniamo che gli uomini sono mortali, che Socrate è un uomo e quindi che Socrate è mortale, noi sovrapponiamo fra loro, per valutare se si accordino, moltitudini umane, tombe e cimiteri, e un signore con la barba bianca.

Un secondo quiz non dovrebbe essere più difficile ma in genere viene risolto con più difficoltà, ed è interessante capire il perché. In una località turistica, un grande albergo che dispone di un campo da tennis organizza un torneo fra gli ospiti. Si iscrivono in cinquanta. Il torneo userà un'unica regola: chi perde una partita è subito eliminato. La domanda è: quante saranno le partite? (La risposta poco più sotto).

Il terzo quiz ci mette più direttamente in contatto con gli aspetti irrazionali della nostra razionalità. Un tizio va la mercato e compera per 60 euro un tartufo. Poi incontra un amico e glielo rivende per 70 euro. Dopo un poco però si pente e glielo ricompera per 80 euro. Alla fine incontra un altro amico e glielo rivende per 90 euro. Quanto ha guadagnato? (Ai lettori: non andate a vedere la soluzione e non fidatevi della prima risposta).

Il secondo quiz, […] quello del torneo di tennis, viene risolto con qualche difficoltà proprio per il motivo per cui il primo è stato risolto con relativa facilità: siccome i cinquanta concorrenti sono tanti, lì per lì la mente non riesce a rappresentarsi molto bene il problema in termini concreti, visivi. Alcuni scoprono, giustamente, che per chiarire la cosa basta immaginare che i concorrenti siano tre soli: in questo caso non ci vuole molto a vedere che per ottenere un vincitore bastano due partite. Chi poi abbia un minimo di familiarità con la teoria dei numeri non ha bisogno di questo artifizio concretizzante e si affida, invece, alla logica formale: dal momento che ogni partita elimina un concorrente egli sa che il numero delle partite sarà esattamente quello dei concorrenti eliminati, cioè tutti salvo il vincitore del torneo, dunque quarantanove.

La soluzione del terzo quiz, quello del tartufo, dovrebbe essere facile, ma molti si confondono per un motivo un po' curioso: ci si fa incantare dalla progressione delle cifre e dal fatto che il tartufo che va e viene è sempre lo stesso. Questo impedisce di percepire che ci troviamo di fronte a due successive operazioni di compravendita che non hanno nulla a che fare una con l'altra: è come se un tale acquistasse un bel giorno un tartufo per rivenderlo un'ora dopo a un prezzo che è di 10 euro superiore all'acquisto, e dopo una settimana acquistasse un altro tartufo a un prezzo qualsiasi per poi rivenderlo anche in questo caso per 10 euro in più. Anche un bambino ci sa dire che avrà guadagnato in tutto 20 euro. La banalità del quesito contrasta con l'imbarazzo nel cercare di risolverlo, e ci informa su una importante debolezza della mente umana, cioè la difficoltà a scomporre i problemi, la tendenza pertinace ad accorpare, a vedere connessioni laddove non ve ne sono.

Nella vicenda del tartufo emerge un problema elementare di valutazione delle perdite e dei guadagni: questo tipo di valutazione ci guida, in generale, quando intendiamo capire i rischi di un dato schema di azione. La prima cosa da osservare è che nelle valutazioni di rischio entrano in gioco fattori emozionali. Per invocare l'esempio più semplice, si può dimostrare sperimentalmente che abbiamo tendenza a scegliere più volentieri una opzione in cui, così ci viene annunciato, abbiamo ben il 70 per cento di probabilità di successo che una opzione in cui ci viene detto che abbiamo ben il 30 per cento di probabilità di insuccesso. Sulla tematica emozionale si inseriscono poi alcuni limiti cognitivi, dei quali il più importante riguarda la difficoltà a valutare intuitivamente le probabilità. Tendiamo a sovrastimare le piccole probabilità (tipicamente che esca vincente un dato biglietto di una grande lotteria, e qui la probabilità non è piccola ma piccolissima) e a sottostimare, invece, le probabilità elevate.

In altri casi, però, fattori razionali e irrazionali si mescolano in modo più sottile. Si prenda il seguente caso. Un tale compera sei bottiglie di vino mediamente pregiato, pagandole 20 euro l'una, e le mette in cantina. Dopo qualche mese torna all'enoteca e scopre che lo stesso vino è aumentato di valore: una bottiglia si vende ora a 100 euro. Ne parla col negoziante, il quale si offre di ricomprargli le bottiglie a 80 euro l'una. Lui rifiuta perché preferisce bersi un vino di alta qualità che ha pagato abbastanza poco, 20 euro, cifra che al massimo ritiene di potersi permettere dato il suo tenore di vita. Infatti non si comprerebbe mai una bottiglia da 100 euro e nemmeno da 80. Gli parrebbe uno spreco di soldi. Ma è sicuro che adesso non stia facendo proprio questo? In realtà il suo vino lo paga adesso non già 20 ma 60 euro, cioè la somma a cui rinuncia ogni volta che apre una delle sue bottiglie.

In questo caso l'ingenuità logica si trova mescolata con una tematica psicologica che coinvolge gli aspetti emozionali del possesso di un bene; per questo motivo si viene a sfiorare un comportamento che può essere detto irrazionale. La stessa tematica ci porta invece in pieno nell'irrazionalità quando ripercorriamo la storia, molto nota, del signore che qualche giorno prima aveva comperato un biglietto per una poltrona a teatro, pagandolo 50 euro, e adesso, al momento di mostrarlo all'ingresso, si accorge di averlo perduto. Al botteghino gli dicono però che per 50 euro gli daranno un posto altrettanto buono. La sua reazione è di dispetto, e poi di rifiuto. Riavere la sua poltrona a un costo che sommandosi alla perdita, è il doppio di tutti gli altri? Obbiettivamente quello spettacolo teatrale non vale 100 euro. Di pessimo umore, si rassegna e torna a casa: ma in realtà è preda di una valutazione irrazionale dei valori in gioco, e ciò emerge da un'ipotesi. Se per caso non avesse comperato in anticipo il biglietto e, giunto al botteghino per acquistarlo, si fosse accorto di aver perduto una banconota da 50 euro fra quelle che tiene abitualmente nel suo portafogli, pur contrariato non avrebbe avuto alcuna esitazione a comprare il biglietto e godersi la sua serata. Non era la stessa cosa? Vedremo più sotto in che senso non era la stessa cosa.

Il passo successivo riguarda un classico della psicologia cognitiva, le carte di Wason. Entriamo qui in contatto con un problema cruciale, e anzi con il problema dei problemi, quello del nostro modo di operare verifiche. Al soggetto vengono presentate distese sul tavolo, quattro carte. Egli vede subito che sulle prime due c'è una lettera, sulle seguenti un numero. Sono queste:

A D 3 7

Gli viene detto che ogni carta ha un numero da una parte e una lettera dall'altra. Egli deve decidere quali carte voltare per verificare la seguente regola: «Ogni carta che ha una A da una parte ha un 3 dal lato opposto.» Comincia, come è naturale, a voltare la prima carta di sinistra, quella che mostra la «A», ed è la mossa corretta. Se infatti, voltandola, non viene fuori un «3» ma un altro numero il gioco è già finito perché così facendo ha dimostrato che la regola è falsa. Supponiamo, invece, che egli scopra, voltandola, che sulla faccia opposta alla «A» sta veramente il «3». Perfetto, questa è una conferma della regola. Conferma solo parziale, tuttavia, dato che la regola parla di ogni carta: in pratica qualche altra carta potrebbe violare la regola. Il nostro soggetto considera quindi le tre carte successive. La seconda gli pare (giustamente) inutilizzabile. Ma ecco, la terza carta posta davanti ai suoi occhi porta il fatidico «3». E se sulla faccia opposta non ci fosse affatto la «A»? La quasi totalità delle persone volta questa carta, pensando di fare una cosa intelligente. E invece no, perché la regola non dice affatto che ogni carta con un «3» ha la «A» sulla faccia opposta: potrebbe avere qualsiasi altra lettera. Voltarla è inutile. A questo punto il gioco è finito? Neanche per sogno. Pochissimi si rendono conto che la quarta carta, quella col «7», potrebbe essere cruciale. Voltarla è sensato perché se per caso avesse una «A» sulla faccia opposta, questo dimostrerebbe che la regola è falsa.

Il punto centrale del test riguarda dunque il contrasto fra le procedure spontanee di verifica e quelle logiche, o strettamente razionali, che qui sono anche quelle ottimali. Spontaneamente, noi tendiamo a cercare assai più le conferme che le verifiche. La vera verifica, infatti, sarebbe una procedura controfattuale. Forzando un po' la mano al discorso potremmo dire che la verifica è sempre una procedura articolatamente battagliera e magari un po' contorta, è qualcosa che somiglia a un tentativo di contestazione. Una verifica è una messa alla prova; essa intende escogitare procedure che siano capaci, eventualmente, di invalidare la regola. Insomma , risponde al desiderio di appurare se sia mai possibile trovare una circostanza che smentisca l'assunto di partenza, e proprio per verificarne la solidità. Qui aveva ragione Popper.

Ora, questo modo di procedere non ci viene affatto naturale. L'esempio più banale è il seguente, e ripercorre una vecchia metafora. Supponiamo di ci venga detto di verificare la legge per cui tutti i cigni sono bianchi. Di solito siamo lieti di confermare che sì, tutti i cigni che abbiamo incontrato nella vita erano effettivamente di un bel bianco, e continuando nelle nostre passeggiate più ne troviamo, più siamo tranquilli. Però, come non avevamo affatto pensato a voltare la carta col «7» (una carta priva in apparenza di rapporto con il legame fra «A» e «3» che noi stavamo investigando) non ci viene spontaneo chiederci quali accorgimenti potrebbero produrre una smentita alla regola dell'universalità del colore candido di quei volatili. Per esempio si potrebbe suggerire di andare a cercare cigni da tutt'altra parte, non nei luoghi soliti: magari cominciando da lontanissimo, dagli antipodi. Infatti se ci spingiamo fino in Australia li troviamo neri (anche se questo tradizionale raccontino non tiene conto degli effetti della globalizzazione: oggi vi sono cigni neri anche nei parchi di Londra).

Lasciando da parte i primi due quiz possiamo chiederci se i casi successivi (a partire da quello del tartufo fino alle bottiglie, al biglietto di teatro, alle carte da voltare e ai cigni) abbiano qualcosa in comune. Hanno in comune un limite della nostra mente, la rigidità cognitiva. La rigidità consiste nella tendenza, una volta avviatosi un dato procedimento mentale, a non riuscire a discostarsene. Nel suo più ovvio aspetto diventa perseverazione. La rigidità è ciò che ostacola i cambiamenti di metodo, i distanziamenti dall'ostacolo, le riformulazioni dei problemi e la ricerca di nuovi punti di vista. È un «procedimento-tunnel» che si apre malvolentieri alle alternative, è poco duttile, contrasta con la creatività e favorisce (cosa però non sempre negativa) l'ostinazione.

Si può dimostrare sperimentalmente che, in presenza di altre persone, siamo meno rigidi e più brillanti e inventivi che se fossimo soli, ma a condizione che il problema che intendiamo risolvere ci sembri alla nostra portata. Il contrario accade se il problema è difficile o non ci sentiamo esperti: qui la presenza degli altri ci rende più rigidi che se fossimo soli e il rendimento è minore. Per motivi analoghi, una situazione di intensa emozionalità tende a incrementare la rigidità, e questo contribuisce a spiegare per quale motivo in situazioni di improvvisa minaccia alla vita noi tendiamo a insistere ostinatamente sulla prima via di fuga che ci è venuta in mente anche se questa non è l'unica né, magari, la più agibile. [pp. 115-122]


Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, 2007 [le sottolineature sono mie].

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