Alle origini della religione: animismo pratico e presupposto intenzionale

Con qualche buona ragione, Dennett rintraccia le forme più elementari - e soprattutto le più spontanee - di vita religiosa in ciò che chiama animismo pratico. Egli fa riferimento a un esempio abbastanza comune nel nostro contesto sociale, cioè alle fantasie del giardiniere (o della giardiniera) dilettante. Chi non ha conosciuto la signora di mezza età che parla alle sue rose, ne loda la fioritura, e vezzeggia con affettuoso baby talk i progressi di piantine particolari? Di buona cultura e senza particolari problemi di equilibrio psichico, ma talora con qualche problema di solitudine, questa persona si convince che lodando ripetutamente un gruppo di boccioli se ne faciliti la fioritura, e magari che la piantina subito accanto, che è un po' in ritardo, potrebbe essere gelosa e vada lusingata con qualche discorso incoraggiante affinché non si mortifichi.

Si ha qui un animismo allo stato nascente; un animismo minimale e ancora quasi del tutto laico. I meccanismi psicologici entrati in gioco sono essenzialmente tre, e sono universali; possono sembrare banali ma vale la pena ricordarli.

In primo luogo vi è ciò che Dennett, in vari suoi libri, chiama il presupposto intenzionale. Si tratta di quella particolare tendenza della nostra mente, attiva fin dalla prima infanzia [...], che consiste nell'attribuire un'intenzionalità consapevole a qualsiasi movimento biologico che produca un risultato. La pianta portata nella serra produce fiori anzitempo perché crede che sia primavera, l'opossum fa il morto perché vuole ingannare il predatore, il neonato ora piange perché ha fatto i suoi bisogni e desidera essere cambiato.

In secondo luogo occorre menzionare ciò che gli psicologi chiamano l'illusione di controllo, o di efficacia. È questa l'impressione di essere noi stessi al centro di un'intenzionalità che si dirige verso le cose, una intenzionalità che - pensiamo - in qualche modo deve produrre esiti. Questa illusione è confortante e noi la coltiviamo perché ci regala qualcosa di cui abbiamo bisogno, cioè il senso di una self-efficacy, il conforto di non essere spettatori impotenti di fronte alle circostanze. «Ho provato a mettere un cristallo di quarzo davanti a quella piantina un po' deperita e dopo qualche giorno ha prodotto dei fiori molto belli. Allora ho capito che era la cosa giusta da fare. Devo dire che ne sono molto fiera.» Lo stesso vale quando abbiamo la febbre per una banale infezione influenzale: ci conforta prendere delle medicine perché abbiamo l'impressione di fare qualcosa, anche se sappiamo benissimo che sono inutili.

In terzo luogo non si può dimenticare un doppio tema che ci viene dalla psicoanalisi, cioè l'investimento affettivo e l'identificazione con l'oggetto amato (foss'anche,naturalmente, una pianta di rose).


Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 168-169. [sottolineature mie]

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