Che cos'è l'autocoscienza?


Le ricerche di orientamento cognitivista permisero di chiarire in che senso gli animali, nel loro monitoraggio dell'ambiente, sono coscienti (cioè vigili, quando non dormono) in quanto elaborano e continuamente modificano, sulla base di un flusso di informazioni sensoriali, schemi di azione. Gli animali godono di una coscienza che può essere detta primaria. Si tratta di un concetto non del tutto nuovo: questa «coscienza semplice» o coscienza d'oggetto, fu identificata da Bertrand Russell già nel 1912 come propria della coscienza animale e da lui stesso separata dall'umana coscienza di sé, ovvero dalla più matura consapevolezza di essere coscienti.

Ciò che Russell non poteva immaginare, tuttavia, era che la coscienza vigile dell'animale (per esempio quella di un topo, o di un passero) è sostenuta da elaborazioni molto complesse: essa non consiste soltanto in quel tipo di vigilanza, o di semplice familiarità con il reale, che fa rispondere attivamente agli stimoli, ma si fonda anche sulle capacità di costruire, all'interno del cervello, rappresentazioni e «mappe» della realtà circostante. Come per primo dimostrò Edward Tolman, queste rappresentazioni della realtà («mappe», appunto, nella loro forma più semplice, in quanto tracce strutturate di spazi e luoghi) sono utilizzate dal cervello animale per costruire comportamenti che implicano piani di azione.

Solo pochissime specie (a parte quella umana), come scimpanzé e delfini, giungono a essere autocoscienti in quanto capaci di separare il proprio corpo dal mondo-ambiente. Questo accade, per esempio, quando uno scimpanzé si riconosce allo specchio. Lo stesso fenomeno è documentabile nei bambini sopra i 15-18 mesi. I bambini più piccoli, intorno ai 12 mesi, posti davanti allo specchio tendono ancora a vedervi l'immagine di un altro bambino. Dopo quell'età si può parlare dell'emergere di un automonitoraggio elementare, un monitoraggio corporeo: l'oggettivazione del proprio corpo costituisce una basilare coscienza di sé e il soggetto coglie attraverso quell'immagine cosa significa esistere in quanto individuo.

Ma questo fenomeno non costituisce ancora, com'è evidente, la classica autocoscienza introspettiva. Solo nella specie umana, e solo dal terzo anno di vita (all'incirca), l'oggetto della coscienza vigile (o se vogliamo l'oggetto dell'attenzione vigile) è non soltanto l'ambiente esterno, né soltanto il proprio corpo, ma anche la coscienza stessa con i suoi contenuti. La coscienza prende per oggetto sé stessa: è l'introspezione. Accade allora che i modelli di realtà (per esempio le «mappe» citate più sopra) e gli scenari dei ricordi, e i pensieri e le fantasie, divengano passibili di osservazione consapevole: quindi di descrizione. Questi contenuti si rendono accessibili al soggetto in quanto vengono collocati in un virtuale «teatro interiore», che ciascuno concepisce con sufficiente chiarezza come un prodotto delle sue stesse procedure mentali. È questa la coscienza (umana) in senso tradizionale ed è anche la coscienza com'era intesa da Freud, cioè l'autocoscienza in senso vero e pieno, aperta alla descrizione dell'interiorità.

A questo punto, però, cominciano i veri dubbi metodologici, e sono seri. Questa «autocoscienza piena», infatti, se esaminata da vicino con gli strumenti della moderna psicologia cognitiva, si rivela assai meno piena di quel che sembri a prima vista. Del resto nemmeno la coscienza «semplice», quella d'oggetto, era «piena». La vigilanza sul mondo ambiente, quale esiste già in tutti gli animali, è frammentaria e parziale più che continua e globale: con variabile efficienza essa si limita a «focalizzare» e «aggiornare» una serie di dettagli.

Ma è soprattutto l'autocoscienza, l'umana «coscienza di essere coscienti» (o se si vuole il «sapere di sapere») a rivelarsi, a un'indagine attenta, qualcosa di precario, di approssimativo, di tutt'altro che garantito.

Per cominciare, non è difficile accertare che anche nelle persone più istruite la consapevolezza (introspettiva) dei propri stati d'animo può essere seriamente carente. Capita che gli intellettuali più raffinati non sappiano neppure rendersi conto se sono di cattivo umore, meno che mai se sono aggressivi. La costruzione dell'autocoscienza è irta di ostacoli fin dai suoi fondamenti; l'autoappropriazione di fenomeni come emozioni, pensieri, ricordi e sogni non è né automatica né facile. La possibilità di percepire in modo fedele la presenza di stati emozionali come l'euforia o la paura richiede un buon livello di elaborazione verbale e capacità cognitive decisamente evolute; la capacità di identificare e concettualizzare uno stato soggettivo come l'ansia è assente nei soggetti con basso livello di istruzione, i quali vivono questa condizione emozionale come un disagio fisico che li ha casualmente colpiti in qualche regione del corpo. Non è infrequente che, di fronte alla responsabilità di aver compiuto atti gravi in piena lucidità, emerga la fragilità dell'introspezione quando il soggetto si rifugia in meccanismi di scissione: «Non so spiegare, non ero io, qualcosa agiva in me.» Anche la consapevolezza del fatto che i sogni sono un prodotto della propria mente – anziché visioni di mondi separati o visitazioni di personaggi arcani – è incompleta sia nei bambini di tre-cinque anni sia nei contesti culturali premoderni.

Su un terreno di indagine più sistematico, la precarietà della coscienza introspettiva risulta particolarmente evidente studiando la memoria, che è costituente centrale dello stato di coscienza.

Se si esaminano gli eventi passati, sia recenti sia remoti, è facile constatare che la memoria si esercita su di essi in modi non omogenei. Com'è noto, la memoria detta operativa coincide con un «saper fare» di cui sono esempi classici il saper andare in bicicletta, o anche il parlare una lingua. Ora, questo «saper fare» può essere ricchissimo di conoscenze implicite, ma non coinvolge necessariamente una memoria esplicita, capace di esprimersi secondo modalità descrittive e dichiarative. Il «sapere come», in altre parole, non sempre si traduce in un «sapere che», e quindi in conoscenze trasmissibili. Ad andare in bicicletta si impara con la pratica e non seguendo un manuale di istruzioni; la padronanza di una lingua può essere perfetta anche ignorando totalmente le sue regole grammaticali.

Il «sapere come» senza un «sapere che» (cioè senza un «saper descrivere») coinvolge situazioni complesse: io posso usare fluidamente la tastiera del computer anche se non saprei mai dire, né disegnare, se la «Z» o la «P» sono all'estremità destra o a quella sinistra. In pratica, quindi, «so bene» ma per altri versi «non so affatto» dove stanno quelle lettere. In altre parole, ho ben chiaro nella testa lo schema della tastiera, prova ne sia che la posso usare con altrettanta immediatezza con una mano, con due e magari a occhi chiusi; ma quello schema non è, come si dice, «accessibile». Per essere più precisi, non è accessibile alla coscienza. È proprio questo tipo di conoscenza di cui dispongono tutti gli animali quando costruiscono nella loro testa quelle «mappe» (implicite) dell'ambiente, a cui si faceva riferimento poco sopra. La conoscenza «non accessibile» è costituita da una memoria che è operativa e non dichiarativa.

La maggior parte degli studiosi odierni ritiene che le conoscenze puramente operative, ossia non accessibili, dominino i nostri rapporti con la realtà.

Per altro l'altra memoria, la memoria dichiarativa (il saper dire, il «sapere che») non è cosa semplice. Essa non è affatto il semplice rendiconto (la dichiarazione, appunto, a sé stessi o agli altri) della presenza all'interno della mente di una immagine, o di una nozione. Non è l'esplicitazione di una memoria completa di tutto punto come quella che può essere scaricata da un computer. È invece racconto, è ricostruzione: è una «narrazione d'oggetto», e per lo più è anzi una «narrazione di immagini», costantemente rielaborata nel tempo, intrisa di connessioni spesso più fantasticate che reali, e ricca di mediazioni culturali. In quanto narrazione, contiene aspetti improvvisati e convenzionali.

Considerazioni analoghe a quelle concernenti la memoria riguardano le emozioni. Da parte della psicologia informale, intuitiva, ingenua, viene comunemente dato per scontato che le emozioni abbiano carattere direttamente esperienziale, ovvero siano turbamenti accessionali nella normale serenità della coscienza vigile. In realtà si può ben dubitare che emozioni occasionali come l'euforia o il malumore, o lo stato di paura, siano sempre direttamente accessibili sul piano dell'autocoscienza introspettiva: per esempio può capitare di essere spaventati, oppure di cattivo umore, senza affatto rendersene conto (spesso, infatti, se ne accorgono gli altri per primi). Le emozioni, per quanto siano fenomeni bio-psicologici oggettivamente reali, non sono percepite in modo diretto, ma vengono sempre «ricostruite». Per essere portate pienamente alla coscienza, cioè per poter essere oggettivizzate (e al tempo stesso fatte proprie, cioè prese come eventi che noi produciamo) le emozioni richiedono, verosimilmente, un'autodescrizione non solo immediata, o «di sentire» (feeling) ma anche mediata, ossia auto-osservativa. Per esempio, il constatare che ci muoviamo in modo agitato, dunque osservandoci dall'esterno, appare procedimento necessario per concludere che, «internamente», siamo agitati.

Ancora una volta, dunque, constatiamo che l'autocoscienza, cioè la coscienza «automonitorata» di sé e delle proprie vicende (in questo caso, le vicende emozionali) non è semplicemente «data» né è prodotta da una sorta di introspezione immediata: al contrario la nostra autocoscienza, nella misura in cui esiste, è congetturata, pensata e ripensata, ricostruita, rielaborata. Ed è anche, ovviamente, immaginata.

Così come non è possibile tracciare una netta linea di confine fra «conoscere» e «non conoscere» (per esempio una tastiera), è altrettanto e più vero, in generale, che tutto ciò che chiamiamo «coscienza di sé», o autocoscienza, non è uno stato psicologico «semplice» ma un insieme di manovre psicologiche composite. La coscienza di sé è costituita da fenomeni di descrizione di sé che oltre a dipendere strettamente dalle fluttuazioni dell'attenzione sono subordinati ad attese relazionali, alla cultura e a strumenti linguistici.

Inversamente, ciò che possiamo chiamare «non cosciente» e «inconscio» copre un insieme altrettanto eterogeneo di fenomeni. L'etichetta di «non-coscienza» (o meglio, qui, «non-autocoscienza» in quanto «non-accesso» ad aspetti del mondo interiore) identifica un campo assai più vasto di quanto credesse Freud, e perfino più inquietante. I fenomeni inconsci comprendono non solo pensieri e immagini «scartati» e attivamente repressi ma anche eventi del sistema nervoso che hanno rapporti scarsi o nulli con la costruzione di conoscenze vere e proprie (per esempio l'elaborazione di schemi comportamentali automatici, come i meccanismi del passo e delle corsa), nonché la costruzione di panorami cognitivi non accessibili alla coscienza (come la tastiera del computer, vedi sopra), nonché varie azioni compiute automaticamente e perfino le più comuni forme di vigilanza e di interazione con l'ambiente, come il guidare un'automobile, cosa che siamo capaci di fare in modo sufficientemente preciso e però senza un vero monitoraggio attentivo, in particolare se contemporaneamente facciamo altre cose come sostenere un'animata conversazione con qualcuno che ci è seduto accanto. Utilizziamo tutti i giorni, da quando la mattina ci laviamo i denti a quando al sera spegniamo la luce, molteplici forme di azione verso oggetti inanimati e di interazione con altre persone senza sottoporre tutto questo a un vero, pieno controllo consapevole: ci capita, insomma, in buona parte della nostra vita qualcosa di simile che possiamo osservare nel nostro gatto quando intercetta un topo con manovre e agguati che giudichiamo intelligenti, ma senza che esista alcun indizio che questo animale riesca a prendere sé stesso a oggetto della propria attenzione all'interno della situazione che sta attivamente vivendo.

In sintesi, esistono ampie zone di mediazione fra i modi del sapere e i modi del non-sapere, fra il rendersi conto e il non-rendersi conto. Il confine fra conscio e inconscio è veramente incerto. Possiamo anche decidere che a un estremo vi sia la zona delle capacità sicuramente «non accessibili» in quanto non monitorabili introspettivamente, mai oggettivabili «nel teatro interiore», e all'altro estremo invece la zona della mente che è «accessibile» in quanto suscettibile di qualche esplicita descrizione introspettiva. Ma questo modo di vedere è schematico e, soprattutto, dobbiamo riconoscere che fra i due estremi eiste un territorio molto vasto, e anche confuso.



Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 142-148.

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