L'illusione del libero arbitrio


Il postulato del libero arbitrio si ripropone con particolare forza all'interno delle culture segnate dalla presenza delle religioni, giustificandosi in quanto presupposto morale e sorvolando sulla sua inconsistenza sia logica sia scientifica. Tutto questo può essere fonte di perplessità per il moralista tradizionale, anche se è sempre possibile uscire dall'imbarazzo alla maniera del fisico Paul Davies, il quale ha sostenuto che l'idea del libero arbitrio è una finzione da mantenere a beneficio della gente semplice, ossia della condotta morale della maggioranza. È difficile dire se questa sua posizione sia più umana o più cinica. Un atteggiamento del genere somiglia a quello delle persone, molto numerose secondo Daniel Dennett, le quali non credono veramente in Dio ma sono convinte che sia bene credere in Dio.

A volte riesce difficile far comprendere al profano che persino il comportamento più banale non dipende dalla «libera» o «gratuita» decisione di metterlo in atto: per esempio la decisione di soffiarsi il naso, o di uscire di casa a sgranchirsi le gambe, per non parlare di azioni più importanti. Un comportamento qualsiasi risponde piuttosto a una catena di fattori motivazionali inconsci al cui interno si viene a produrre anche, in un determinato momento, la consapevolezza di stare per muovere il proprio corpo in modo finalizzato. Se io mi soffio il naso, insomma, non è tanto perché ho deciso di farlo, quanto perché il mio naso ha provveduto a inviare al cervello alcuni segnali che lo inducono, a un certo momento, a pensare a fazzoletti e ad atti di educata liberazione dal disagio. Una incisiva conferma della validità di questa tesi è data dagli esperimenti compiuti nel 1985 da Benjamin Libet, da cui risulta che il nostro cervello prepara una data azione prima che noi siamo consapevoli di essere sul punto di compierla. In pratica se una persona, connessa ad appositi strumenti di registrazione, «decide» in un qualsiasi istante di eseguire un movimento, per esempio di alzare un dito, essa non sospetta che già ¼ di secondo prima lo sperimentatore aveva registrato nei suoi apparecchi un segnale proveniente dal cervello, il cosiddetto «potenziale elettrico di preparazione», relativo a quel movimento.

E dunque, sono numerosi i dati che ci fanno ritenere che ogni processo decisionale, benché detto «consapevole», e magari «libero», vada considerato come l'esito probabilistico di una molteplicità di fattori motivazionali che in larghissima prevalenza non sono accessibili all'introspezione. In quest'ottica potrebbe non esistere neppure una vera scelta cosciente fra due o più opzioni: se non – forse – in casi semplificati, più attinenti a situazioni di laboratorio che alla vita reale.

L'idea di una libera autodeterminazione del comportamento è particolarmente discutibile nei casi in cui facciamo progetti per il futuro. In questi casi è interessante osservare cosa accade quando una persona dice, per esempio, «domani pomeriggio io mi comporterò così e così». Viene dunque preannunciato uno scenario di azioni che vengono pubblicamente messe in programma. Tuttavia prima di essere una decisione si tratta di una previsione: questa persona ritiene, o crede, che vi siano tutte le premesse affinché l'indomani si comporti in un certo modo. Naturalmente non è detto che i dati necessari a una previsione corretta siano integralmente presenti alla sua coscienza e quindi è possibile che si sbagli: scoprirà, magari con sorpresa, che si è comportata in modo diverso.

Questo è particolarmente evidente – e fonte di contrarietà – nei casi in cui un qualsiasi individuo portatore di problemi di dipendenza, per esempio la dipendenza dalle droghe o dal gioco, crede con la massima serenità e determinazione e un alto grado di confortante certezza di aver deciso che nelle prossime 48 ore non berrà alcol o non assumerà cocaina o non fumerà sigarette, o non mangerà dolci o non giocherà i propri soldi ai dadi. Con qualche candore crede che la sua condotta sarà la conseguenza meccanica di questa decisione: arrendendosi a una forma di razionalismo ingenuo, concepisce se stesso alla stregua di un computer programmabile. Ma le sue azioni dipenderanno in realtà, come quelle di tutti, da fattori prevalentemente non controllabili, e nel caso specifico ve ne sono alcuni che agiscono con particolare forza. Il suo autoinganno è già parte dello scacco imminente.

Anche questi dati di osservazione comune confermano il sospetto: noi chiamiamo «liberamente scelto» un qualsiasi nostro comportamento che – dopo essere stato attuato – sia stato approvato da noi senza riserve o, se vogliamo usare un concetto della psicologia dinamica, sia stato riconosciuto come pienamente egosintonico. Ciò che suggerisce Wittgenstein è ancora più radicale: è volontaria quell'azione che non ci stupiamo di aver compiuto.


Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 155-157.

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