È indispensabile al vivere civile una morale religiosa?

I credenti di varie religioni hanno la comprensibile tendenza a far coincidere i precetti della propria fede con la morale tout court. In modo altrettanto comprensibile i non credenti (o anche i credenti di religioni diverse) tendono a obiettare che in tal caso si fanno passare per regole morali delle regole di tipo convenzionale che non hanno alcun valore generale. Per esempio, mangiare la carne di un dato tipo di animale può essere considerato un comportamento immorale secondo una data fede religiosa e un comportamento del tutto legittimo secondo un'altra. Ma qual è l'ambito della morale? Essenzialmente la vita sociale: un individuo che vivesse in modo del tutto isolato non avrebbe bisogno di precetti morali e norme sociali per regolare la sua condotta. Secondo questa prospettiva, sono morali i comportamenti che hanno lo scopo di aiutare e quello di non danneggiare gli altri individui. È possibile che siano le credenze religiose a indurre gli individui a metter in atto tali comportamenti? Se così fosse, le credenze religiose dovrebbero rivelarsi una fonte sistematica di moralità e, soprattutto, nessuna forma per quanto elementare di comportamento morale si dovrebbe manifestare prima e indipendentemente dall'acquisizione delle credenze religiose. Sono corrette queste predizioni? Vediamo.

In primo luogo, uno stesso sistema di credenze religiose può contenere posizioni morali in conflitto tra loro. Per esempio, gli dèi greci e romani non erano modelli di virtù, né dispensatori di giustizia. Essi vivevano nello stesso mondo in cui vivevano gli uomini ed erano interessati in primo luogo a se stessi e non al benessere degli uomini. Come testimonia Plinio il Giovane, al momento dell'eruzione del Vesuvio i pompeiani credevano che gli dèi avessero già lasciato il mondo, ormai giunto alla fine. Quegli stessi dèi, quindi, non potevano prescrivere la morale agli uomini. E quando intervenivano nelle azioni umane, il loro giudizio non era sempre uniforme. Omero ci racconta che Achille, per vendicarsi dell'uccisione di Patroclo, fece strazio del corpo di Ettore, trascinandolo nella polvere davanti alle mura di Troia e gettando ancor di più nella disperazione chi la morte di Ettore piangeva. Di fronte a tanto accanimento intervennero gli dèi. Ma, mentre Apollo si indignò contro Achille, «a cui nel seno né amor del giusto né pietà s'alberga», tre altri dèi dell'Olimpo, Era, Poseidone e Atena, spinti dal loro «odio immortale» verso i troiani, avrebbero voluto che quello scempio continuasse. Come tutte le storie antiche, anche questa ha una morale: non tutti gli dèi hanno una morale.

In secondo luogo, molti sistemi di credenze religiose inducono i fedeli a comportarsi in modo ostile nei confronti di altri individui, in particolare di quelli che professano altre fedi religiose o di quelli che non ne professano alcuna. Non è difficile trovare nella storia delle religioni esempi di atti violenti, di riduzioni in schiavitù o addirittura di uccisioni causati, facilitati o giustificati da credenze religiose. Ma c'è un'altra possibilità da considerare. I sistemi di credenze religiose, pur non producendo sistematicamente comportamenti pro-sociali, potrebbero però favorirli di più rispetto ai sistemi di credenze non religiose. È questa la tesi sostenuta di recente dallo psicologo americano Jonathan Haidt, uno dei più importanti studiosi contemporanei di giudizio morale. Secondo Haidt, gli individui che professano una qualche fede religiosa si comportano in modo moralmente superiore alle altre persone. In effetti diverse ricerche sociologiche condotte negli Stati Uniti indicano che i credenti sono più disposti a offrire il proprio tempo per aiutare gli altri, contribuiscono maggiormente alle attività degli enti caritatevoli (anche di tipo secolare) e sono anche più generosi nel donare il sangue rispetto ai non credenti. Insomma, i dati empirici sembrano corroborare l'idea che la morale e il senso civico sono favoriti dalle credenze religiose. È fondata questa conclusione? Non molto, se si tiene conto del diverso contesto sociale in cui vivono i credenti e i non credenti in un paese a forte prevalenza di comunità religiose come gli Stati Uniti. A differenza dei credenti, i non credenti si trovano isolati ed esclusi dal resto della comunità [...] la percentuale dei non credenti nella popolazione americana è molto bassa: si colloca, secondo i sondaggi, in una forbice compresa tra il 2% e il 10%. È ragionevole, quindi, che i non credenti siano meno disposti a offrire qualcosa a comunità di cui non si sentono parte. Anche quando le attività caritatevoli sono di tipo secolare (e non è chiaro perché donare tempo e denaro in favore della propria religione debba essere incluso tra i comportamenti morali), per quale motivo i non credenti dovrebbero dare il loro supporto alle attività di comunità che li escludono?

Gli Stati Uniti sono la nazione occidentale meno investita dai processi di secolarizzazione che hanno caratterizzato il Novecento.  [...] negli Stati Uniti la stragrande maggioranza delle persone crede in un dio creatore e non crede alla teoria dell'evoluzione. Per questo motivo un confronto tra gli Stati Uniti e altri paesi occidentali dovrebbe fornire indicazioni rilevanti circa i possibili effetti sociali dei sistemi di credenze religiose e secolari. È quanto ha fatto lo studioso americano Gregory Paul usando varie misure di devianza sociale da un lato e credenze religiose e antievoluzionistiche dall'altro lato. In questo modo ha potuto documentare un'impressionante serie di correlazioni positive tra tassi di omicidio, suicidio, aborto e gravidanza di minorenni e tasso di diffusione delle credenze religiose. In effetti gli Stati Uniti mostrano prestazioni peggiori in tutti questi indicatori sociali rispetto a paesi relativamente secolarizzati come la Gran Bretagna. La disparità diventa ancora più grande se gli Stati Uniti sono confrontati con nazioni dell'Europa continentale maggiormente secolarizzate, come la Francia o i paesi scandinavi. Anche i risultati della ricerca di Paul non possono essere considerati conclusivi. In particolare è possibile che, per alcuni dei problemi sociali da lui considerati, la correlazione cruciale riguardi non le credenze religiose tout court, ma alcuni tipi di credenze religiose. Per esempio, il sociologo americano Gary Jensen ha rilevato delle correlazioni positive tra il tasso di omicidi e le credenze religiose che ha definito dualistiche, cioè le visioni del mondo in cui esistono sia Dio che il diavolo, ma non ha rilevato correlazioni positive tra il tasso di omicidi e le credenze religiose non-dualistiche, cioè le visioni del mondo in cui esiste solo Dio. Per esempio, negli Stati Uniti è alta la percentuale di persone che credono che esistano Dio (96%) e il diavolo (76%) ed è ugual­mente alto il tasso di omicidi. Paesi come la Svizzera, invece, in cui la maggioranza delle persone crede che esista Dio (84%) ma non il diavolo (32%), presentano tassi di omicidio molto più bassi e pari a quelli registrati in paesi più secolarizzati come la Svezia, in cui solo il 56% delle persone crede che esista Dio e il 18% che esista il diavolo. È possibile che le correlazioni rilevate da Jensen vadano attribuite, come egli stesso suggerisce, ad altri fattori. Gli Stati Uniti, in effetti, non sono caratterizzati solo per l'alta diffusione di credenze religiose di tipo dualistico, ma anche per le forti disuguaglianze socio-economiche. Analoghi alti tassi di omicidio, di diffusione di credenze religiose dualistiche e di disuguaglianze socio-economiche si rilevano anche in paesi meno sviluppati, come le Filippine, il Sud Africa o la Repubblica Dominicana. E possibile anche che le stesse credenze religiose di tipo dualistico vadano attribuite, come sostiene sempre Jensen, alla presenza di forti disuguaglianze socio-economiche. In ogni caso, questi dati contraddicono l'idea che i cittadini delle democrazie occidentali che professano una fede religiosa siano cittadini migliori dei non credenti.

Per stabilire se ci sono correlazioni tra diffusione di credenze religiose e sviluppo sociale, oltre al confronto tra paesi a diverso grado di secolarizzazione, anche il confronto tra aree diverse di uno stesso paese potrebbe rivelarsi utile. Un confronto di questo tipo è stato fatto proprio in Italia dal sociologo americano Robert Putnam, nella sua celebre ricerca sullo sviluppo economico e istituzionale delle regioni italiane. Putnam ha mostrato che il fattore di gran lunga più importante per spiegare il buon governo e il successo economico di una data regione è il grado in cui la vita politica e sociale della regione stessa si avvicina all'ideale della comunità civica, cioè alla comunità i cui membri partecipano attivamente alla vita pubblica, si considerano uguali tra loro e manifestano mutuo rispetto e fiducia, anche quando le loro idee e i loro interessi differiscono. In effetti, lo sviluppo economico e istituzionale delle regioni italiane è maggiore dove è più forte il senso civico, misurato in base a indicatori come numero di associazioni presenti (club sportivi, bande musicali, cooperative di consumo eccetera), tasso di partecipazione ai referendum (una forma di partecipazione politica non imputabile a scambi clientelari) e grado di diffusione di quotidiani locali. Ebbene, il senso civico in Italia risulta correlato in modo estremamente negativo con tutte le misure di religiosità e clericalismo considerate da Putnam.

Le regioni italiane in cui il senso civico è minore, come la Calabria e la Campania, sono quelle in cui è più alta la frequenza alla Messa, più frequente il matrimonio religioso (contrapposto a quello civile), meno frequente il divorzio e in cui risulta più forte l'identità religiosa espressa nelle risposte ai questionari. La relazione negativa tra religiosità e impegno civico emerge anche a livello individuale. A differenza dei non credenti, infatti, solo una minoranza dei cattolici praticanti italiani si interessa di politica e legge i quotidiani. Come ben sintetizza Putnam, è come se per questi cittadini contasse più la Città di Dio che la Città degli Uomini. Eppure c'è stato un tempo in cui unà misura di diffusione del sentimento religioso in Italia risultava correlata positivamente con l'impegno civico. Tra la fine della Seconda guerra mondiale e i primi anni Sessanta, gli iscritti all'Azione Cattolica, all'epoca la più importante associazione dei laici cattolici, erano molto più numerosi nelle regioni in cui il senso civico è maggiore. Insomma nella geografia sociale dell'epoca l'Azione Cattolica rappresentava la faccia civica del cattolicesimo italiano. Negli ultimi decenni però quest'associazione è quasi scomparsa e nell'Italia contemporanea la comunità civica è sostanzialmente una comunità secolare.

Comparare paesi diversi o anche aree diverse dello stesso paese non è semplice. Come abbiamo visto, fattori esterni possono incidere sia sulla diffusione delle credenze religiose sia sui comportamenti pro o antisociali. Le credenze religiose, inoltre, possono assumere forme diverse anche all'interno di una stessa confessione ed essere correlate in modo sia negativo che positivo con la diffusione dello spirito civico. Tuttavia i risultati delle ricerche considerate mostrano chiaramente che nei paesi occidentali i cittadini che professano una fede religiosa non sono necessariamente cittadini migliori degli altri. Più in generale, questi risultati indicano che alla professione di fede religiosa non si accompagna necessariamente un comportamento moralmente superiore. Anzi, in molti casi risulta vero il contrario.


Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice, 2008, pp. 112-118 [ho omesso diverse note a piè di pagina  con i riferimenti bibliografici ai vari autori citati e il grafico che illustra la correlazione inversa tra senso civico e religiosità nelle regioni italiane, ma con una semplice ricerca è possibile trovare il testo completo in rete in formato pdf]

Commenti