I vantaggi delle credenze e i loro meccanismi

Il concetto di credenza non è semplicissimo. Per credenze (beliefs) si intendono due realtà psicologiche un po' diverse fra loro.

La prima prende il concetto in modo estensivo: qui la credenza è qualsiasi tipo di aspettativa. In questo caso non c'è molta distanza fra una credenza e una conoscenza. Per esempio, se credo che domani farà bel tempo è perché ho qualche informazione per affermarlo. Nelle trattazioni scientifiche sull'argomento entra in gioco il fatto che nella lingua inglese belief è termine più neutro e copre un campo semantico un po' diverso che in italiano. Comunque, si può considerare pertinente anche in italiano dire: io credo, cioè ritengo, che l'acqua sia fatta di idrogeno e ossigeno. Per altro – vien fatto di aggiungere – sarebbe meglio non esagerare seguendo questa linea, per cui è lecito dubitare che «2+2=4» possa essere appropriatamente denominato, come dice qualcuno, una credenza matematica, a mathematical belief.

La seconda realtà psicologica, invece, è restrittiva e anche più appropriata. Si crede «in» qualcosa. Così, credere nell'astrologia non è affatto lo stesso che conoscere l'astrologia e vi può essere una discrepanza significativa fra il credere in sé stessi e il conoscere sé stessi. Qui le credenze sono convinzioni personali emotivamente connotate. È in questo senso che si crede nella fondamentale bontà della natura umana o si crede nella reincarnazione; e naturalmente si può anche credere nel malocchio. A quanto pare i poliziotti di Los Angeles sono convinti che nelle notti di luna piena avvengano più delitti: è una credenza diffusa, ci viene detto, ma per l'appunto è solo una credenza perché smentita dalle statistiche.

Se le credenze non sono vere conoscenze è perché nascono da un assenso interiore, e più precisamente da un'opzione. Esse implicano un salto dall'incertezza alla certezza. Per lo più non le inventiamo, ma ne riceviamo gli spunti da altre persone: possono limitarsi a piccoli stereotipi («Il vino rosso fa buon sangue»), oppure a innocue leggende metropolitane («Nelle fogne di New York vivono coccodrilli ciechi»), ma più spesso le troviamo come opinioni trasformate in sicurezze. Il culto dei santi si basa su un insieme di credenze che si presentano con caratteristiche di risolutezza; molte credenze implicano l'orgoglio di stare ben saldi sulle proprie posizioni. Per lo più le credenze sono atti di fiducia verso ipotesi di conforto, dato che quelle ottimistiche e consolatorie prevalgono, e di parecchio, su quelle pessimiste; sono però in ogni caso scommesse cognitive, e quindi possono anche venir considerate opzioni di fede. Il credere nella vita dopo la morte, nei miracoli, nella metempsicosi o nella transustanziazione, il credere negli oroscopi, il credere nella buona stella e perfino il credere nel potere negativo delle fatture è qualcosa che rende più prevedibile e meno minaccioso il mondo che ci circonda. Un pregio delle credenze è che ci permettono previsioni e spiegazioni. Un altro pregio è che definiscono appartenenze e identità.

Spesso le credenze si legano a un insufficiente accesso alle informazioni: gran parte dell'umanità non è in grado di percepire quale differenza ci sia fra il credere in un santone e il credere in un medico. Altre volte le conoscenze – o le conoscenze scarse – e le illusioni si legano ambiguamente fra loro: non tutti sanno, per esempio, che la caratterologia astrologica, messa alla prova, è stata dimostrata infondata. Analogamente, milioni di individui di buona cultura, in Occidente, sono convinti che l'efficacia dei prodotti omeopatici sia stata provata, cioè oggettivamente convalidata da ricerche scientifiche. D'altro lato, agli occhi dei più entusiasti difensori dell'omeopatia, le verifiche non hanno molta importanza, e qui lo psicologo si interessa precisamente al fatto che queste persone dicono: «Comunque io so che l'omeopatia fa bene, perché la mia esperienza me lo ha dimostrato.» Come per qualsiasi altra credenza, anche la fiducia nell'omeopatia implica un atteggiamento mentale che, privilegiando la soggettività, non è interessato a sentir parlare di verifiche.

In conclusione, sembra che le credenze abbiano sempre una componente irrazionale. Questo vale per tante altre cose, naturalmente. È legittimo chiedersi se perfino le nostre conoscenze più verificate e collaudate, e dunque più razionali, non fossero anch'esse così al loro primo inizio: nate non soltanto da curiosità concrete ma anche da sogni, fantasie, erranze della mente. Basta pensare all'astronomia.

Taluni dei meccanismi che alimentano le credenze son inconsapevoli e automatici, oltre che eventualmente fallaci. Il più semplice errore consiste nella tendenza a scambiare le associazioni di contiguità per legami di causalità: post hoc ergo propter hoc. Un bambino piccolo, anche sotto l'anno di vita, sviluppa fobie sulla base di un meccanismo associativo del tutto elementare: se ha avuto mal di pancia quando è stato portato a giocare in un certo giardino non ci vorrà più tornare. Si tratta di un meccanismo adattativo che troviamo identico negli animali: è vero che l'individuo tende ad estenderlo a tante circostanze che non lo giustificano, ma può valerne la pena perché capita quel caso su mille in cui la prudenza avversativa – la fobia – salva la vita.

L'accorpamento dei fenomeni per contiguità (e altre volte per somiglianza) si lega al bisogno di trovare spiegazioni causali: le coincidenze non vengono accettate volentieri. La nostra mente è convinta che una spiegazione qualsiasi sia sempre meglio di nessuna spiegazione ed è per questo motivo che, come dice Michael Gazzaniga, «gli esseri umani sono macchine per la costruzione di credenze».

Un esperimento celebre descrive la nascita di una proto-credenza. Nel 1948 uno dei grandi psicologi del Novecento, B.F. Skinner, mise in una gabbietta, isolata dall'ambiente, un piccione moderatamente affamato; ogni 15 secondi un apparecchio automatico liberava nella gabbia una piccola quantità di cibo. Passato un po' di tempo, invariabilmente l'animale sviluppava un rituale. Ripetendo la prova e scegliendo altri piccioni e altri animali (ed eventualmente esseri umani, in esperimenti più sofisticati), si scopriva che i rituali potevano essere i più vari e proseguivano con ostinazione: nel caso dei piccioni, uno girava ripetutamente su sé stesso, uno scuoteva ritmicamente la testa verso l'altro, uno beccava senza soste un angolo della gabbia, e così via. Si trattava di un autocondizionamento: quello schema comportamentale consisteva nell'iterazione di atti compiuti casualmente in occasione della prima comparsa del cibo. Ripetendoli, il cibo ricompariva ancora e poi ancora: non mancava quello che si chiama, tecnicamente, un rinforzo. Il piccione era convinto (per così dire, non che il suo cervello fosse in grado di formulare una vera ipotesi) che il cibo continuasse a riapparire per merito della sua azione, ossia per un effetto di efficacia.

E sempre un po' scherzosamente potremmo dire che il piccione, utilizzando la sua intelligenza per sopravvivere, credeva di aver «scoperto il trucco». Questo fa pensare alla storiella del ratto di laboratorio che, confidandosi con un collega, gli dice di essere riuscito a condizionare un essere umano: «Alla fine ha imparato, ogni volta che percorro il labirinto mi dà del cibo.»

il problema riguarda la nostra tendenza a orientarci allo stesso modo: ossia a cercare il segnale importante, il suggerimento cruciale, la password che ci faccia accedere a un sentiero speciale nella giungla della realtà. Fa parte di questa tendenza iper-interpretativa della mente umana la ricerca di eventi chiave, di segnali molto significativi. Qui lo scambiare, erroneamente, un segnale neutrale per un segnale pericoloso (falso positivo) ha un costo infinitamente minore che lo scambiare un segnale pericoloso per un segnale neutrale (falso negativo). Questo ci predispone all'ansia nonché alla moltiplicazione degli errori «falso positivi», ma ne vale la pena perché talora ci salva la vita. Non tutti si rendono conto che, in occasione di incidenti e calamità (o anche al volante di una potente automobile) le persone troppo ansiose sopravvivono più facilmente delle persone troppo poco ansiose.

Le credenze religiose sembrano avere una caratteristica: si basano sull'idea che da qualche parte giunga un segnale diverso e di qualità superiore. Ancora una volta, esistono le premesse naturali per questo tipo di attesa: come osserva Dennett già negli animali, per esempio in un cane, è essenziale riuscire a discriminare fra i moltissimi segnali irrilevanti (rumori improvvisi di qualsiasi tipo, per esempio) e quelli - molto più rari – che hanno caratteristiche nuove e possono segnalare qualcosa di molto importante. Di qui emerge la speranza che ciò che sembra banale non sia sempre tale, ma nasconda almeno una volta un messaggio differente, un'informazione speciale che ci può cambiare l'esistenza.
La nostra mente ha la tendenza a cercare intenzioni consapevoli dove non ce ne sono [...] e anche questo fatto contribuisce allo stato d'attesa. L'attesa delle intenzioni altrui diventa qualcosa di ancora più personale, qualcosa di ancora più intimamente significativo, quando contenga la speranza di una parola privilegiata, di un messaggio segreto rivolto soltanto a noi. Anche qui è probabile che entri in gioco una ipersensibilità naturale, erede di alcune caratteristiche della mente infantile.

In momenti di solitaria meditazione è spontaneo chiedersi se le cose intorno a noi abbiano un senso nascosto; ne può nascere un'inquietudine che conduce alla ricerca di qualcosa dietro l'apparenza degli oggetti. Eventualmente un'impressione di arcano diffuso ci induce a sperare che si apra, in qualche angolo, una porticina verso un mondo diverso; è l'«anello che non tiene» di cui parla Eugenio Montale.

Vedi, in questi silenzi in cui le cose
s'abbandonano e sembrano vicine
a tradire il loro ultimo segreto,
talora ci si aspetta
di scoprire uno sbaglio di Natura,
il punto morto del mondo, l'anello che non tiene,
il filo da disbrogliare che finalmente ci metta
nel mezzo di una verità.
I limoni (da Ossi di seppia, 1925)


La ricerca di eventi salienti si connette a una universale difficoltà a capire le probabilità e ad accettare l'importanza del caso. Gli esempi sperimentali di questa difficoltà sono innumerevoli: per citare solo il più semplice, se nel gettare la moneta la probabilità di avere testa (T) è, come tutti sanno, uguale a quella di avere croce (C), la maggioranza delle persone crede che le sequenza CTTCCT sia più probabile che le sequenze TTTTTT o TTTCCC, quando invece la probabilità è esattamente la stessa. La sequenza TTTTTT ci mette sul chi vive. È affascinante pensare a eventi speciali.

Una tematica protoreligiosa diviene tanto più facilmente di tipo religioso quanto più si accentua il divario atteso fra i segnali ordinari (quelli, per così dire, laici), ritenuti poco pregevoli, e quelli, invece, straordinari: le singolarità, le eccezioni, i prodigi, le rivelazioni. Naturalmente, se si comincia con il cercare a tutti i costi le singolarità, le eccezioni alla banalità, l'anello che non tiene, è facile a un certo punto sconfinare nel soprannaturale: ma, paradossalmente, ciò diviene tanto più facile quanto più l'evento su cui noi contiamo sfugge a ogni verifica ragionevole. In quest'ottica gli eventi più importanti non sono quelli verosimili ma quelli inverosimili: un'ipotesi a probabilità zero ci può riempire di eccitazione.

La Sacra Sindone di Torino, considerata l'autentico sudario di Cristo, è fatta oggetto di grande devozione anche dopo che, nel 1988, il Vaticano ha concesso che la sua anzianità venisse indipendentemente valutata, con il metodo del radiocarbonio, da tre grandi centri di ricerca internazionali, l'Università di Oxford, l'Istituto Federale di Tecnologia di Zurigo e l'Università dell'Arizona. Che queste tre istituzioni abbiano parlato, concordi, di un manufatto medievale databile fra il 1260 e il 1390 ha scosso i fedeli molto meno di quanto ci si sarebbe potuto aspettare; anzi, il responso degli scienziati potrebbe addirittura aver contribuito a collocare il significato sacrale di quell'oggetto in una dimensione sottratta a priori alle obiezioni scettiche dei laici: in una dimensione di fede, cioè, estranea a qualsiasi esame di realtà.

Come si vede non è privo di significato condurre l'indagine a partire dal basso, da minuti eventi e scelte, si potrebbe dire dalla coda delle religioni invece che dai grandi personaggi e dalle istituzioni che si trovano alla loro testa. In questo modo lo studioso può rintracciare alcuni indizi che lo aiutano a capire come si costruiscano sia le credenze in generale, sia quelle credenze particolari che sono le convinzioni di fede. Fin qui, però, sono stati presi in esame fattori che riguardano la psicologia individuale, ma le credenze sono quasi sempre condivise, e se è vero che alcune esperienze prereligiose o protoreligiose prendono forma come elaborazioni solitarie (per esempio il protoanimismo della giardiniera affettuosa), è altrettanto vero che, nella grande maggioranza dei casi, ciò che conta è l'elaborazione sociale.

A volte questa elaborazione segue vie banali, i sentieri di miti domestici. Supponiamo per esempio che qualcuno riferisca, di fronte a parenti e amici, gli enigmatici responsi di un santone, consultato in India, e l'impressione che dal suo corpo si sprigionasse una misteriosa energia. Supponiamo altresì che il racconto venga sempre ripetuto del tutto sobriamente e nella stessa versione, senza alcun abbellimento (capita di rado, ma a volte capita). Un dettaglio colpisce gli ascoltatori: il guardiano del tempio aveva raccontato che talune volte il santone, durante la meditazione, si sollevava nell'aria. Così riferisce fedelmente il viaggiatore; ma pochi giorni dopo gli telefona un amico invitandolo a pranzo, dato che vuole sentirsi raccontare di persona quel fatto straordinario, di quando in India aveva visto con i suoi occhi un santone in stato di levitazione. In meno di una settimana si era creato il mito.

Talora la costruzione del mito risponde a dinamiche affettive. Nel 1941 un aviatore italiano precipita in Nord Africa con il suo aereo in fiamme, e muore. La vedova riceve la notizia solo alcuni giorni dopo; in seguito ricorda che proprio in quella notte fatale il figlio, di quattro anni, durante un incubo aveva gridato spaventato: «Il fuoco! Il fuoco!» Nessuno esprime il minimo dubbio sulla realtà di quel fatto straordinario e commovente, chiaramente un episodio di telepatia. Neppure il bimbo si stupisce: è apprensivo e soffre di brutti sogni. Solo dopo qualche tempo una zia, dalla quale il bambino andava frequentemente a dormire, ricostruisce che quella notte aveva dormito da lei, e del tutto serenamente. La testimonianza della zia è però ascoltata in modo distratto dagli altri membri della famiglia e viene presto dimenticata; il preteso episodio telepatico viene elevato a evento simbolico e finisce con il costituire il pilastro dell'affettuoso rispetto dovuto all'immagine dei defunti; il giovane orfano sente che il padre gli trasmise qualcosa di prezioso, un segreto che ora tiene dentro di sé come una protezione.

È bene ribadire che di fronte a un episodio di questo tipo l'osservatore razionalista rischia di essere troppo severo: la vita quotidiana ha bisogno di miti e quelli fatti in casa funzionano benissimo.

Storie come quella dell'aviatore, pur non dimostrando nulla di conclusivo, ci invitano a sottoporre a esame critico – sostanzialmente, a qualche verifica – le testimonianze solo apparentemente di prima mano.

Ma neppure le testimonianze di prima mano sono attendibili.

Le ricerche sistematiche sulle persone che si ritengono capaci di telepatia, chiaroveggenza e telecinesi, se da un lato non hanno messo in luce neppure un caso in cui eventi di questo tipo si siano sicuramente verificati, da un altro lato hanno dimostrato con quanta facilità un gruppo di spettatori, anche attenti, possa essere indotto da un abile illusionista (o da un preteso esperto in parapsicologia, ed è la stessa cosa) a vedere ciò che non c'era, e ignorare eventi che erano sotto i suoi occhi. Di fronte a un prestigiatore veramente capace, sembra impossibile che siano tutti trucchi e manca poco perché crediamo in magie reali. «L'ho visto con i miei occhi» è frase di scarso significato.

Se mostriamo a gruppi di persone brevi filmati che rappresentano scene relativamente comuni, come per esempio una lite fra alcuni individui in mezzo alla strada, e poi chiediamo a ciascuno cosa ha visto, constatiamo che i resoconti sono diversi fra loro: non soltanto possono venire ignorati dettagli importanti nella successione dei fatti, ma capita che dettagli inesistenti vengano aggiunti spontaneamente. Se poi l'elaborazione del ricordo avviene mediante una discussione di gruppo fra i testimoni, è facile che ne emerga una ricostruzione comune, però difforme dagli eventi reali; su questa base lo psicologo può avere buon gioco, a scopo sperimentale, nel riferirsi durante la discussione a personaggi, dettagli o spezzoni di fatto del tutto assenti dal filmato, con il risultato che le sue suggestioni si trasformano in falsi ricordi, e quindi in false testimonianze. La suggestione ci può dunque far vedere cose che non ci sono, soprattutto se siamo parte di un gruppo coinvolto in una forte emozionalità; tuttavia ciò che è massimamente fallace accade dopo, ossia nell'elaborazione post factum delle percezioni. Ci autoinganniamo manipolando o inventando i ricordi, anche di eventi recentissimi, ed è qui che entra in gioco ciò che Dawkins chiama «the formidabile power of the brain's simulation software».

Le ricerche sui falsi ricordi e sulla manipolazione della memoria sono merito di vari autori, fra i quali va ricordata in particolare Elisabeth Loftus, e sono avvenute negli anni ottanta e novanta in rapporto alla demistificazione della credenza nei «traumi rimossi» […] Questi studi hanno fornito risultati che, dal punto di vista della psicologia intuitiva, non si possono che definire sconvolgenti.
L'esempio più classico - e più innocente – è spesso ricordato nei libri di testo e concerne un ricordo d'infanzia del grande psicologo Jean Piaget. A lungo egli era tornato alle sensazioni provate e ai vividi dettagli relativi a un pomeriggio nel parco, quando era stato vittima di un drammatico tentativo di rapimento, fortunosamente sventato dalla sua governante: dopo molto tempo quest'ultima confessò alla famiglia che aveva inventato tutto. Ciò che non era stato scoperto fino ad anni recenti è che anche gli adulti, qualora siano immersi in un'atmosfera culturale propizia, possono elaborare falsi ricordi molto complessi e talora a carattere sensazionale. Negli Stati Uniti decine (e, secondo alcuni, centinaia) di migliaia si persone sostengono di essere state vittima di rapimenti da parte di alieni a bordo di dischi volanti e ne producono resoconti dettagliati e, con tutta evidenza, sinceri. È stato dimostrato anche in via sperimentale che semplici tecniche non ipnotiche, come quella della immaginazione attiva, possono indurre una persona a «ricordare», in piena convinzione, eventi che non hanno mai avuto luogo. Per ottenere questo risultato bastano in pochi casi pochi minuti.

Da un lato, dunque, le forme più semplici di queste elaborazioni sono spontanee: è probabile, per esempio, che per chiunque di noi gli episodi della prima infanzia, qualora siano presenti nella memoria, costituiscano non tanto ricordi quanto ricordi di ricordi, in cui la componente fantastica può diventare prevalente anche quando venga mantenuta nei limiti del verosimile.

Da un altro lato conta soprattutto la pressione sociale. Qui l'enfasi su episodi salienti o drammatici, o addirittura sensazionali – come l'apparizione di un disco volante, o di una creatura ultraterrena – fa che l'importanza di cui è caricata la (pretesa) testimonianza trasformi la narrazione in un mito condiviso. Il soggetto che afferma di ricordare i fatti non possiede più alcun rapporto nei loro confronti perché incarna la richiesta del gruppo, in un clima dove essere stati elevati a protagonisti di un evento straordinario diviene una identità che altera le capacità di introspezione e di memoria: il testimone dell'evento ristruttura la propria vita in funzione della leggenda e questo suo ruolo gli inibisce qualsiasi distanziamento garantendogli, fra le altre cose, un vantaggio sociale.


Giovanni Jervis, Pensare dritto, pensare storto. Introduzione alle illusioni sociali, Bollati Boringhieri, 2007, pp. 169-178.

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