Il finalismo: un prodotto dell'evoluzione umana

[...] Charles Darwin era rimasto colpi­to dall'efficacia comunicativa delle descrizioni finalistiche della natu­ra che aveva letto in gioventù. Quando capì di avere scoperto un meccanismo, la selezione naturale, che rendeva superfluo il ricorso a qualsiasi progetto per spiegare la nascita e l'evoluzione delle specie - compresa quella umana - fu subito consapevole che in questo modo stava contraddicendo non soltanto le credenze religiose creazioniste dell'epoca, ma anche modi molto comuni di pensare.

Ritenere che un agente intenzionale, dotato di progetti e di scopi, sia nascosto dietro la complessità dei fenomeni naturali potrebbe es­sere un'abitudine fortemente radicata nelle nostre specializzazioni adattative. Gli esseri umani amano le spiegazioni basate sulle inten­zioni, come se avessero un sensore sempre acceso per captare la pre­senza di propri simili o per prevedere le mosse di nemici esterni. Questi sistemi cognitivi si sono evoluti successivamente per assolvere funzioni nuove. Posti di fronte a fenomeni incomprensibili o molto dolorosi che ci sovrastavano, come la morte di un familiare o di un compagno, abbiamo cercato di spiegarli attraverso storie e agenti in­visibili. In tal modo, usando, sfruttando e potenziando le competenze cognitive che avevamo a disposizione, siamo finiti per diventare del­le autentiche "macchine di credenze". La soddisfazione di bisogni psicologici, sociali e di comprensione del mondo è stata così forte da tramutarsi in quel senso comune che la scienza talvolta si trova a do­ver scalfire, magari senza successo. Darwin lo scrive con una punta di amarezza in una lettera a Thomas H. Huxley del 21 settembre 1871: «Sarà una lunga battaglia, anche dopo che saremo morti e sepolti ... grande è il potere del fraintendimento». 


Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice, 2008, p. viii.

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