Quel disegno così poco intelligente. I primi dubbi di Darwin sul creazionismo.

[...] quando volgiamo lo sguardo all'universo, ci accorgiamo della sua straordinaria armonia e articolazione, ben su­periore a quella di un orologio. Non possiamo che dedurne, a mag­gior ragione, l'esistenza di una mente suprema che ha progettato l'u­niverso, proprio come l'orologiaio ha progettato il suo congegno. Possiamo adesso articolare lo stesso ragionamento osservando le in­gegnose opere della natura sul nostro pianeta, gli adattamenti perfet­ti delle specie, le forme degli animali: l'organizzazione complessa delle loro parti non può essere il prodotto di un processo casuale come il rotolare di una pietra. È in azione un "disegno intelligente", la cui natura, fatte le debite proporzioni con l'orologio di foggia umana, non potrà che essere divina. La trasformazione delle specie non è negata per principio: l'evoluzione esiste, ma è il frutto di un'intenzione progettuale.

Si tratta di un ragionamento intuitivo, immediato, che non ri­chiede di considerare né i tempi lunghi di un processo di trasfor­mazione né una sequenza di meccanismi, ma solo la riconoscenza di fronte allo spettacolo della natura in sé. È una forma di pensiero diretta e persuasiva che risponde all'istinto con cui la mente di cia­scuno di noi associa la complessità di un sistema all'esistenza di un progetto e la funzione di un organo a un fine. Scriveva Paley con accenti fatalistici che ricordano il dottor Pangloss di Voltaire (1694-1778): «Vi è precisamente la stessa dimostrazione che l'occhio sia stato costruito per vedere e che il telescopio sia stato costruito per aiutare l'occhio». Da qui la citazione implicita di Darwin nell'Ori­gine delle specie.

Le somiglianze morfologiche e la complessità adattativa degli or­ganismi avevano convinto dell'esistenza di un disegno le somme intelligenze dell'epoca. Se oltre a ciò consideriamo quanto fossero po­tenti nelle scienze naturali inglesi le idee religiose difese dal blocco sociale e accademico anglicano, capiamo perché Darwin - tornato dal suo viaggio di cinque anni intorno al mondo con in testa gli indizi di una spiegazione alternativa del succedersi delle specie sulla Terra - sentisse il peso angoscioso della sua scoperta così opprimente da in­durlo a parlarne con pochissime persone e in modo molto prudente. Nel 1844, in una lettera all'amico Joseph D. Hooker, scriverà che rendere note le sue idee sulla non immutabilità delle specie sarebbe stato «come confessare un delitto». Ma di quale delitto si tratta, esatta­mente, oltre a quello di "lesa maestà" nei confronti della tradizione?

Darwin lo racconta con intensità nei suoi "Taccuini della trasmutazione", redatti compulsivamente dal 1836 al 1842 sull'onda dell' en­tusiasmo per il montare di una costruzione teorica tanto illuminante quanto invadente. Medita in privato sugli scherni osservativi che ha raccolto durante la circumnavigazione del globo e sui resoconti che gli esperti gli restituiscono al ritorno studiando i suoi reperti. In par­ticolare, focalizza l'attenzione sulle distribuzioni di animali e piante sugli arcipelaghi e sulle affinità fra i fossili di animali estinti e gli esemplari viventi. Mentre la realtà dei cambiamenti delle specie e delle loro parentele ramificate dentro l"'albero della vita" diventa sempre più evidente ai suoi occhi, la ragione scava gallerie nelle fon­damenta intuitive della teologia naturale. È facile credere a un pro­getto, d'accordo, ma di che tipo sarà? Nelle Ornithological notes, scrit­te a bordo fra il 1835 e il 1836, lo tormenta una domanda: perché Dio avrebbe dovuto creare apposta tanta varietà da isola a isola? Non può esistere una spiegazione naturale più semplice?

Il ragionamento per assurdo (se c'è un disegno intelligente, è pro­prio così intelligente?) e la parsimonia teorica (non aggiungere ipo­tesi se non strettamente necessarie) sono le due chiavi di volta del ri­baltamento di idee che Darwin sperimenta su se stesso in quei mesi. Sa di avere una buona descrizione della "trasmutazione" delle specie, ora gli serve una spiegazione unitaria, una legge del cambiamento. Non solo, sente di avere finalmente un metodo. Nell' Autobiografìa, scritta in vecchiaia nel 1876, Darwin si definirà un ligio induttivista baconiano impegnato nel «raccogliere dati liberandosi da preconcetti», ma negli appunti giovanili che svelano la sua vera logica della scoperta scientifica si intravede una figura di ricercatore assai più com­plessa, capace di mescolare capacità analitiche e osservative straordi­narie con le astuzie del metodo ipotetico-deduttivo e con l'ardire dello scienziato che pone domande alla natura e avanza predizioni ri­schiose per mettere alla prova le proprie congetture. Solo a questo punto della sua esplorazione concettuale, ma assai precocemente nel­la sua biografia intellettuale, si sente abbastanza forte da sfidare le spiegazioni alternative della teologia naturale. E lo fa con il vigore tipico di chi si è appena convertito a un altro modo di pensare.

Come può un Creatore, si domanda, aver lavorato in modo così poco efficiente, estinguendo forme e sostituendole con altre simili? Perché Dio avrebbe dovuto creare così tanti coleotteri? Davvero ogni derivazione di specie è un «distinto atto di Creazione»? Il tarlo dello scetticismo sta prevalendo. La spiegazione deve essere un'altra. Come giustificare, altrimenti, l'esistenza di strutture evidentemente inutili: «Quando uno vede i capezzoli sul petto di un uomo, non dice che abbiano un qualche uso, ma che il sesso non sia stato determi­nante. Lo stesso per le ali inutilizzate sotto le elitre di coleotteri. [...] Se si trattasse di semplice creazione, di certo sarebbero nati senza».

Pochi giorni dopo, negli appunti, si lascia ispirare dalla fisica new­toniana e azzarda un paragone impegnativo per separare anche in biologia, oltre che in astronomia, la domanda metafisica sulle origini delle leggi autonome e inevitabili di organizzazione ed evoluzione della materia: «in passato gli astronomi avrebbero potuto affermare che Dio dispose affinché ciascun pianeta si muovesse seguendo il proprio particolare destino. Allo stesso modo Dio dispone che ciascun animale sia creato con una certa forma in una certa regione». Ed ecco la svolta, sancita da due aggettivi cruciali, semplice e sublime: «Ma quanto sarebbe più semplice e sublime una forza per cui, agen­do l'attrazione secondo certe leggi, tali siano le inevitabili conse­guenze; essendo creato l'animale, tali saranno i suoi successori secon­do le leggi prefissate della generazione» (p. 163). Il creazionismo come scienza naturale è liquidato: «Il Creatore ha continuato a crea­re animali con la stessa struttura generale dai tempi delle formazioni del Cambriano? Concezione miserevole e limitata» (p. 211).

Nella ricerca della teoria risolutiva lo aiutano altre analogie, come quella con la selezione artificiale degli allevatori. Comincia a intra­vedere la possibilità che esista un meccanismo sostitutivo rispetto a qualsiasi progetto finalistico inscritto nella natura, e capace di spiega­re perché tutti gli esseri viventi, specie umana compresa, sono «legati in un'unica rete» (p. 218). Ma ancora non sa decifrarlo e il problema della "complessità degli organi", su cui si fondava la teologia naturale, continua a sembrargli inarrivabile: «Può darsi che non saremo mai in grado di ricostruire i passi mediante i quali l'organizzazione del­ l'occhio passò da uno stadio più semplice a uno più perfezionato, conservando le sue relazioni. Questa forse è la massima difficoltà del­l'intera teoria» (Taccuino c, p. 175).

L'antropomorfismo gli sembra sempre più assurdo, soprattutto quando esagera il ruolo dell'intelligenza nella natura: «Quando par­liamo degli ordini superiori, dovremmo sempre dire intellettualmen­te superiori. Ma chi, al cospetto della Terra, coperta di splendide sa­vane e foreste, oserebbe dire che l'intelletto è l'unico scopo di questo mondo?» (Taccuino B, p. 227). Nel luglio del 1838 inizia il Taccuino D e in un appunto estivo del 16 agosto scrive che non è degno di Dio immaginarlo alle prese con la creazione di tutti gli infimi detta­gli della natura. È molto più "grandiosa" l'idea di evoluzione: «Non è all'altezza della dignità di Colui che si presume abbia detto "Sia fatta luce", e luce fu, immaginare che Egli abbia creato una lunga succes­sione di vili animali Molluschi».

Legge le opere del demografo Thomas Malthus (1766-1834), del filosofo ed economista Adam Smith (1723-1790) e del botanico sviz­zero Augustin P. de Candolle (1778-1841) sulle dinamiche delle po­polazioni in fasi di scarsità di risorse. La "lotta per l'esistenza" era il tassello che gli mancava e il 28 settembre scrive con enfasi: «Si po­trebbe dire che esiste una forza come centomila cunei che cerca di spingere ogni genere di struttura adattata nelle lacune dell'economia della Natura, o piuttosto di formare lacune spingendo fuori i più de­boli. La causa finale di tutta questa azione dei cunei deve essere quel­la di vagliare la struttura appropriata e adattarla al cambiamento» (Taccuino D, p. 135). Ha colto il meccanismo causale che gli serviva e capisce di avere fra le mani la spiegazione di quello che l'astronomo inglese John Herschel (1792-187I) gli aveva descritto, nel giugno del 1836 a Città del Capo, come il "mistero dei misteri", ovvero l'origi­ne delle specie.

Nel 1842 compila uno Sketch che rappresenta il distillato dei con­tenuti dei Taccuini, nel quale sintetizza l'impianto logico del proces­so di selezione naturale. Il punto di partenza per Darwin è che ani­mali e piante variano allo stato domestico, ma la stessa variazione si osserva anche allo stato naturale; come alcune tendenze interne alla variazione vengono privilegiate dagli allevatori attraverso l'incrocio selettivo, così esiste un meccanismo analogo in natura innescato dal­la lotta per la sopravvivenza. Le popolazioni, lasciate a se stesse, cre­scerebbero in modo esponenziale, mentre in realtà sono quasi sempre stabili: ciò avviene perché vi è una lotta per l'esistenza e molti non sopravvivono. In tale contesto i portatori di variazioni vantag­giose avranno più possibilità di sopravvivere e quindi di trasmettere alla discendenza i loro caratteri.

Lentamente la selezione naturale, integrata dal meccanismo com­plementare della selezione sessuale (dove gli individui competono non per le risorse, ma direttamente per la conquista dei o delle part­ner e quindi per un vantaggio riproduttivo), favorisce i ceppi più adattati alle circostanze ambientali e trasforma incessantemente le specie. Il senso comune e l'intuizione prescientifica che animavano le pagine trascinanti di Paley vengono capovolti. La spiegazione corretta sta nel mulino paziente della selezione naturale, che setaccia la variazione e fa evolvere le popolazioni: «Sopravvivenza non casuale di istruzioni ereditarie, che variano casualmente, per costruire em­brioni», come l'ha definita Richard Dawkins. Ma non è affatto un'i­dea di immediata comprensione, come Darwin riconoscerà nell'Ori­gine delle specie dopo altri 20 anni di ricerche.


Vittorio Girotto, Telmo Pievani e Giorgio Vallortigara, Nati per credere. Perché il nostro cervello sembra predisposto a fraintendere la teoria di Darwin, Codice, 2008, pp. 7-11.

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