I primordi delle scienze cognitive: lo strano caso di Phineas Gage

Nonostante [...] la convinzione che la mente sia causata dal cervello circolasse già nell'Ottocento, essa cominciò ad incontrare larghi consensi verso la fine degli anni sessanta del secolo scorso. Lo sviluppo tecnologico nel campo medico aveva infatti portato alla messa a punto di alcuni strumenti - la TAC (tomografia assiale computerizzata), la PET (tomografia ad emissione di positroni) e la risonanza magnetica - che diedero una spinta decisiva alla comprensione del funzionamento del cervello, poiché permisero di vedere direttamente ciò che sino ad allora poteva solamente essere ipotizzato o analizzato per via indiretta. È importante ricordare a questo proposito che la localizzazione di alcune funzioni cerebrali era già iniziata nella seconda metà dell'Ottocento soprattutto attraverso lo studio di quei pazienti che, a causa di traumi o malattie, presentavano lesioni ad aree ben delimitate del cervello. Un caso esemplare, e rievocato non molto tempo fa in un fortunato libro di Antonio Damasio ([A.R. Damasio, L'errore di Cartesio. Emozione, ragione e cervello umano, Adelphi,]1995, cap. I), fu in questo senso quello di Phineas Gage, un giovane caposquadra di un'impresa di costruzioni del Vermont che nel 1948 fu coinvolto in un drammatico incidente. Mentre lavorava alla messa in posa dei binari per una nuova linea ferroviaria, Gage venne scaraventato a terra da un'esplosione talmente violenta da far sì che la barra di ferro che teneva in mano gli attraversasse il cranio da una parte all'altra. Sorprendentemente Gage non morì, ed anzi dopo soli due mesi sembrò essersi del tutto ripreso. Come racconta Damasio:

Gage riacquistò le forze e [...] si ristabilì pienamente, dal punto di vista fisico: poteva toccare, udire, vedere e non subì paralisi agli arti o alla lingua. Aveva perduto la vista dall'occhio sinistro, ma con il destro ci vedeva perfettamente. Camminava con passo fermo, usava le mani con destrezza e non mostrava impaccio nella parola o nel linguaggio (ivi, p. 37)
 
Tuttavia, se il corpo di Gage era tornato quasi del tutto come prima, il suo "carattere" sembrava cambiato radicalmente. Citando di nuovo Damasio, il quale riporta le osservazioni che il medico curante di Gage, John Harlow, redasse vent'anni dopo l'incidente:

Ora egli era «bizzarro, insolente, capace a volte delle più grossolane imprecazioni, da cui in precedenza era stato del tutto alieno; poco riguardoso nei confronti dei compagni; insofferente di vincoli o consigli che contrastassero i suoi desideri; a volte tenacemente ostinato, e però capriccioso e oscillante; sempre pronto a elaborare molti programmi di attività future che abbandonava non appena li aveva delineati [...]. Un bambino, nelle sue manifestazioni e capacità intellettuali, ma con le passioni animali di un adulto robusto». Il linguaggio è talmente osceno e degradato che alle donne si consiglia di non rimanere a lungo in sua presenza, o la loro sensibilità ne sarà turbata. Né gli ammonimenti dello stesso Harlow riescono a riportare il nostro sopravvissuto a un comportamento corretto (ibid.)

Cosa aveva prodotto un simile cambiamento in un uomo che, a detta di chi lo conosceva prima dell'incidente, era equilibrato, «abile e avveduto nei suoi affari, molto energico e tenace nel perseguire tutti i programmi d'azione che si fosse prefissi» (ibid.)? Si dovrà attendere più di un secolo perché la scienza proponga una risposta plausibile a tale domanda. Mediante una ricostruzione del cervello di Gage, la cui scatola cranica è tutt'ora conservata al museo della Harvard Medical School di Boston, e della traiettoria probabile della barra di ferro, anch'essa conservata al museo bostoniano, Hanna Damasio riuscì infatti a identificare la zona del cervello colpita. Questa risultò essere una parte della «regione prefrontale ventromediana» che sembrava sovrintendere quindi non soltanto al processo decisionale, ma anche, come accadde a Gage e ai pazienti che presentavano analoghe lesioni, alla facoltà di provare emozioni o sentimenti relativi all'ambito personale e sociale. Come ha suggerito Antonio Damasio, il legame tra capacità di decidere ed emozioni non è esclusivamente "geografico", ma strutturale, dal momento che, secondo il neurobiologo, sarebbero proprio le emozioni e i sentimenti a segnalare fisicamente e in tempi rapidi - dando origine a dei veri e propri «marcatori somatici» - l'esito possibile della decisione che dobbiamo prendere. Alla ragione pura e immateriale di cui parlava Cartesio (la res cogitans), Damasio contrappone dunque una concezione della mente incarnata, influenzata dai sentimenti e, soprattutto, prodotta dai medesimi sistemi cerebrali, i quali avrebbero perciò un ruolo determinante in quelle scelte che crediamo essere frutto della sola razionalità. Per Damasio, allora,

sembra davvero che i sentimenti dipendano da uno specifico sistema a molti componenti, che è indissociabile dalla regolazione biologica; sembra davvero che la ragione dipenda da specifici sistemi cerebrali, e accade che alcuni di questi elaborino i sentimenti. Può quindi esistere un tracciato di collegamento (in termini anatomici e funzionali) dalla ragione ai sentimenti al corpo. È come se noi fossimo posseduti da una passione per la ragione: un impulso che ha origine nel nucleo del cervello, permea gli altri livelli del sistema nervoso ed emerge sotto forma di sentimenti ed inclinazioni inconscie a guidare il processo di decisione. La ragione (da quella pratica a quella teoretica) probabilmente è costruita su questa spinta intrinseca mediante un processo che assomiglia all'abile esercizio di una competenza o di una capacità (ivi, pp. 333-4).

In una prospettiva neurobiologica, quindi, la ragione, la mente, la coscienza, e, come abbiamo visto, molti altri tratti fondamentali della personalità umana - dall'accortezza nel prendere decisioni al preoccuparsi per gli altri, del loro giudizio e dei loro sentimenti - vengono ricondotti più o meno completamente a specifiche aree cerebrali. È però importante sottolineare che mentre uno studioso come Damasio, al pari di molti altri scienziati che indagano problemi simili, è molto restio a dedurre dai risultati raggiunti nel proprio campo di indagine un'interpretazione della natura umana di tipo deterministico, quando non la rifiuti esplicitamente, la tentazione di ridurre "gallianamente" la personalità individuale ai meccanismi di funzionamento del cervello sembra più diffusa, almeno in apparenza, tra quei pensatori che guardano con estrema simpatia alle neuroscienze: i filosofi della mente.


Mariangela Priarolo, Il determinismo. Storia di un'idea, Carocci, 2011, pp. 123-126.

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