Religio vs superstitio: la lotta tra pagani e cristiani

In una lettera indirizzata a Traiano dalla Bitinia, tra il 112 e il 113, al termine della sua inchiesta sui cristiani, Plinio il Giovane scrive: «Non ho trovato null'altro che una superstitio irragionevole e senza misura... E il contagio di questa superstitio si è diffuso non soltanto per le città, ma anche per i villaggi e le campagne». Nello stesso periodo, Tacito, raccontando negli Annali (XV, 44) dell'incendio di Roma avvenuto sotto Nerone nel 64, esprime il giudizio seguente sui cristiani: «Questa perniciosa superstitio proruppe di nuovo, non solo in Giudea, luogo di origine di quel flagello, ma anche in Roma, dove tutto ciò che è vergognoso ed abominevole viene a confluire e vi fa scuola». Svetonio, infine, nelle Vite dei Cesari (Vita di Nerone, 16) annota rapidamente: «furono sottoposti a supplizio dei cristiani, sorta di gente dedita a una superstitio nuova e funesta ("genus hominum superstitionis novae ac maleficae")». Tali tre testimonianze di autori latini «pagani» sul movimento cristiano, le sole di cui sicuramente disponiamo prima che fossero i cristiani stessi ad esprimere la propria identità in latino alla fine del II secolo, vergono sulla medesima opinione: il movimento cristiano è, ai loro occhi, una superstitio.

Agli albori del III secolo, Minucio Felice, secondo autore cristiano ad esprimersi in latino, pensa che il cristianesimo sia la vera religio e che quella che i romani considerano come religio sia essa, invece, una superstitio. Porre in simili termini il rapporto tra cristianesimo e romanità sembra andare da sé, sotto la sua penna. Lo stesso varrà per tutti i padri della Chiesa latina che, in seguito, esprimeranno la loro conversione «come dalla falsa religio, o dalla superstitio, alla vera religio». Eredi di una cultura latino-cristiana, noi condividiamo tale punto di vista e consideriamo il cristianesimo una «vera religione» e, se serbiamo il titolo di religione all'antica religione romana, in sostanza la sminuiamo al rango di superstizione. Questa maniera di pensare maschera, in realtà, lo straordinario colpo di mano semantico tramite cui si è compiuta la permuta tra le due voci.

[...]

Non c'è quindi da sorprendersi se i romani sono stati portati a concepire il movimento cristiano nella coppia categoriale di religio e di superstitio, se hanno potuto, per un certo tempo, tollerarlo come movimento interno alla società ebraica, e se poi, una volta verificatasi la distinzione tra giudaismo e cristianesimo, lo hanno marchiato come superstitio, «sopravvivenza» senza fondamento istituzionale e, a cagione di ciò, «irragionevole» e «funesta». Le tre testimonianze di Plinio, Tacito e Svetonio menzionate all'inizio del capitolo ne fanno fede.

La taccia di superstitio non prevede tuttavia, da parte dell'autorità romana, né persecuzione né condanna. «Che si trattasse di culti nazionali di comunità straniere insediate a Roma o in una qualsiasi altra città, di sette religiose o filosofiche, di devozioni o convinzioni individuali, dell'attività lucrativa di astrologi, profeti e ciarlatani in genere, tutte le pratiche erano tollerate dalle autorità purché non suscitassero disordini. Fintanto che simili culti e devozioni non sorpassavano lo spazio loro riservato, iniziazioni o celebrazioni orgiastiche, dibattiti di idee e fenomeni di esaltazione non disturbavano nessuno... L'eresia e l'intolleranza non erano categorie romane, pertanto prima della cristianizzazione del potere romano non era neppur pensabile una persecuzione generale delle pratiche religiose illecite»²⁴. La più significativa testimonianza che si potrebbe avanzare a riprova di tale postura romana di fronte alle superstitiones è, paradossalmente, il racconto degli Atti dei Martiri Scilitani.

Lo scritto, di appena due pagine, riferisce il martirio avvenuto a Cartagine nel 180 di alcuni cristiani di Scili. La forma è quella di un verbale di processo. È, in realtà, un testo letterario molto elaborato, che riporta l'interrogatorio nella veste di un dramma in tre atti: invito a giurare nel nome dell'imperatore; proposta di un intervallo di riflessione - queste due parti terminano entrambe con un rifiuto da parte dei cristiani, espresso ogni volta con la formula «sono cristiano» -; pronuncia, infine, della condanna ed esecuzione. [... segue il testo, che qui non riporto]

Non si coglie mai, in questo testo, una qualche aggressività o intolleranza, un qualche settarismo o fanatismo da parte del proconsole Saturnino, rappresentante dell'autorità romana. Sembra addirittura piuttosto imbarazzato. Cerca di far ragionare i cristiani e propone loro un rinvio per riflettere.  Chiede soltanto un segno - giurare nel nome dell'imperatore - come prova di buona volontà e di attaccamento all'impero, senza che tale richiesta implichi una dottrina, una fede, un'adesione, o anche soltanto la manifestazione di un'opinione qualsiasi. A tale atteggiamento di apertura e conciliazione risponde, dal lato dei cristiani, l'intransigenza assoluta della loro fede. La dichiarazione da essi opposta  - la formula christianus sum - vuole chiaramente significare come si pretenda di dipendere da un diverso Impero, e come si contestino radicalmente le leggi dell'impero romano, pur rispettandole. Cosa che, indipendentemente da ogni altra considerazione (attinente, o meno, alla sfera della credenza), merita il castigo supremo dinnanzi all'autorità romana.

Dunque, nel momento in cui Tertulliano si appresta a enunciare il dato cristiano in latino, sullo svanire del II secolo, religio e superstitio costituiscono una coppia di categorie influenti nella percezione di fenomeni che noi, noi oggi, possiamo a giusto titolo qualificare come fenomeni «religiosi», ma che i romani definiscono preminentemente come fenomeni sociopolitici. Religio e superstitio servono innanzitutto a designare una certa modalità d'inscrizione nelle istituzioni latine. Inscrizione non valutata in base a credenze, convinzioni, dottrine, criteri morali o per la partecipazione a comunità di natura religiosa, ma a partire dall'impegno del cittadino nel prodigarsi per la propria civitas e dei riti che di tale impegno fanno fede. Il culto civico romano non implica credenze relative agli dèi o all'immortalità dell'anima sicuramente più delle nostre cerimonie del Quattordici Luglio o dell'Undici Novembre, ai piedi del monumento dei morti. Allo stesso modo, le superstitiones non interessano il potere istituzionale romano in ragione delle credenze sottese, ancorché i filosofi possano considerarle assurde, ma solo qualora rischino di configurare una contestazione della sua legittimità.

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²⁴ J. Scheid, Les religions, in F. Jacques e J. Scheid (a cura di), Rome et l'intégration, T. I, pp. 111 - 28



Maurice Sachot, La predicazione del Cristo. Genesi di una religione, Einaudi, 1999, pp. 154-157.

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