L'aggressività e l'impulsività dell'uomo medievale

Anche tra le varie nazioni occidentali lo standard dell'aggressività, il suo carattere e la sua intensità non sono identici. Tuttavia queste differenze, che viste da vicino appaiono spesso considerevoli, quasi si cancellano e appaiono comunque insignificanti se si contrappone l'aggressività dei popoli «civilizzati» a quella di società in cui il controllo degli affetti è a un livello differente. Rispetto al furore bellico di un combattente abissino – certamente impotente di fronte all'apparato tecnico degli eserciti «civili» - o a quello delle varie tribù all'epoca delle migrazioni dei popoli, anche l'aggressività delle nazioni più bellicose del mondo «civile» appare attenuata; come tutte le altre manifestazioni degli istinti, anch'essa è stata condizionata, pur nel mezzo dell'azione bellica, dalla più avanzata divisione delle funzioni, dal più accentuato legame tra i singoli individui, dalla maggior dipendenza degli uni dagli altri e di tutti dall'apparato tecnico; è stata limitata e smussata da un'infinità di regole e divieti che sono diventati autocostrizioni. Si è pertanto trasformata, «raffinata» e «civilizzata» come tutte le altre forme di piacere; e soltanto nel sogno o in singole esplosioni, che registriamo come fenomeni patologici, si riaffaccia in parte con la sua forza immediata e scatenata.

Anche in questo campo affettivo, quello cioè dello scontro ostile tra uomo e uomo, si è verificata la stessa trasformazione storica rilevata in tutti gli altri settori. Indipendentemente dallo stadio di trasformazione in cui si colloca a questo riguardo il Medioevo, può essere sufficiente assumere come punto di partenza lo stadio in cui si trovava il suo strato superiore secolare, quello dei guerrieri, per rendere più efficace l'idea generale di tale evoluzione. Nel Medioevo lo scatenarsi degli «affetti» in battaglia non era forse più così incontrollato come agli inizi delle migrazioni dei popoli; ma certamente era abbastanza scoperto e sregolato, rispetto all'età moderna. Oggi la crudeltà, il piacere di distruggere e di tormentare gli altri, così come l'affermazione della propria superiorità fisica, sono stati sempre più posti sotto un forte controllo sociale ancorato all'organizzazione statale. Tutte queste forme di piacere, limitate dalle minacce di dispiacere, ormai si manifestano soltanto in modo indiretto, ossia – cosa che all'origine significa la stessa cosa - «raffinato». E soltanto in periodi di rivolgimenti sociali oppure in territori coloniali, dove il controllo sociale è meno rigoroso, esse esplodono in modo più diretto e incontrollato, non limitato da sensi di vergogna e malessere. Nella società medioevale, la vita spingeva in direzione opposta: la rapina, la lotta, la caccia agli uomini e agli animali facevano direttamente parte delle necessità vitali, ed erano del tutto conformi alla struttura della società. Quindi, per coloro che erano forti e potenti, facevano parte delle gioie della vita. In un inno di guerra attribuito al trovatore Bertran de Born, leggiamo:

Vi dico che gusto maggiormente il mangiare, bere o dormire quando sento gridare «Addosso» da due parti e sento nitrire cavalli senza cavaliere sotto gli alberi, e sento gridare «Aiuto! Aiuto!» e vedo cadere dai fossati sull'erba piccoli e grandi, e vedo i morti con i fianchi squarciati dalle lance coronate di stendardi.

È un quadro che illustra assai bene la brutalità primitiva dei sentimenti. E in un altro passo di Bertran de Born leggiamo:

Ecco giungere la bella stagione in cui approderanno le nostre navi, in cui verrà re Riccardo, prode e gagliardo come mai era stato. Allora vedremo dispensare oro e argento; i mortai appena costruiti gareggeranno a sparare, e vedremo le mura sgretolarsi e le torri dimezzate abbattersi, ed i nemici assaggiare la prigione e le catene. Amo vedere mescolarsi gli scudi tinti di azzurro e vermiglio, le insegne e i gonfaloni dei più vari colori, le tende e i padiglioni rizzati nella pianura, le lance che si spezzano, gli scudi trapassati, gli sfavillanti scudi che si aprono in due, i colpi che si danno e si ricevono.

Secondo una delle Chansons de geste, la guerra è: sopraffare il nemico con la propria forza, abbattere le sue vigne, sradicare i suoi alberi, devastare il suo paese, prendere d'assalto i suoi castelli, prosciugare i suoi pozzi, prendere e uccidere la sua gente…

Mutilare i prigionieri è un piacere particolare:

Per la mia testa -, esclama il re nella medesima Chanson – non mi curo di quanto dite, me ne rido delle vostre minacce come di una cotogna. Tutti i cavalieri che avrò catturato li disonorerò e taglierò loro il naso e le orecchie. Se si tratta di un sergente o di un mercante, lo si priverà di un piede o di un braccio.

E non lo si faceva soltanto nei poemi: questi poemi epici hanno il loro posto nella vita sociale, ed esprimono anche i sentimenti degli ascoltatori, cui sono destinati, in modo assai più immediato che molte delle nostre opere letterarie. Ci possono certamente essere, nei dettagli, delle esagerazioni: anche nell'epoca cavalleresca il denaro esercitava già la sua influenza moderando e trasformando gli affetti. Di solito, si mutilavano soltanto i più poveri e i più umili, per i quali non c'erano da aspettarsi lauti riscatti, e si risparmiavano invece i cavalieri per i quali si sperava di ottenere un riscatto in denaro. Tuttavia, anche le cronache, che sono documenti diretti della vita sociale, testimoniano in gran numero simili fatti.

Per lo più erano scritte da chierici, e perciò le valutazioni che esse contengono sono per lo più quelle proprie dei più deboli, dei più esposti alle minacce della casta dei guerrieri.

Ma il quadro che esse ci presentano è certamente autentico. Parlando di un certo cavaliere, dicono ad esempio:

Trascorre la vita saccheggiando, distruggendo chiese, opprimendo vedove e orfani. Si compiace in modo particolare di mutilare gente innocente. In un solo monastero, quello dei monaci neri di Sarlat, di trovano 150 tra uomini e donne a cui ha tagliato le mani o che ha accecato. E altrettanto crudele è la moglie, che gli dà manforte in queste imprese. Quanto a lei, si compiace di martirizzare povere donne: ha fatto tagliare loro le mammelle o strappare via le unghie, così che non sono più in grado di lavorare.

Esempi analoghi di abbandono ai propri istinti potranno aversi anche in epoche successive dell'evoluzione storica, ma come fenomeni d'eccezione, come degenerazioni «patologiche». All'epoca in esame non esisteva alcun potere sociale in grado di punire: l'unica minaccia, l'unico pericolo capaci di suscitare la paura erano di essere sopraffatti in battaglia da uno più forte. A parte una piccola élite – come afferma Luchaire, storico della società francese del XIII secolo -, saccheggiare, rapinare e assassinare erano manifestazioni consuete nella società guerriera di questo periodo; e nulla ci consente di pensare che in altri paesi o in secoli successivi le cose andassero diversamente. Nessun ostracismo sociale puniva queste esplosioni di crudeltà, che non erano messe al bando dalla società. Il piacere di torturare e uccidere era grande, ed era un piacere cui la società consentiva. Anzi, entro certi limiti la struttura sociale spingeva in questa direzione, giudicando necessario tale comportamento quando fosse funzionale a uno scopo.

Ad esempio, che cosa si doveva fare dei prigionieri? Questa società disponeva di poco denaro. Perciò nei confronti di prigionieri in grado di pagare, e per di più del proprio stesso rango, si praticava una certa moderazione; ma gli altri? Bisognava nutrirli, se li si manteneva in vita. Rimandarli indietro avrebbe significato rafforzare la potenza militare e la ricchezza del nemico. Infatti in quell'epoca i subordinati, coloro che lavoravano, servivano e combattevano erano una parte della ricchezza del ceto superiore. Quindi si poteva o ammazzarli o rimandarli indietro così mutilati da non servire più né per la guerra né per il lavoro. Lo stesso ragionamento valeva per la distruzione dei campi, la copertura dei pozzi e il taglio degli alberi. In una società prevalentemente agricola, in cui i beni immobili rappresentavano una parte essenziale della proprietà, anche queste distruzioni servivano a indebolire il nemico. Così, l'affettività più accentuata del comportamento entro certi limiti era una necessità sociale. Si agiva in senso socialmente utile e se ne ricavava piacere. Rientrava pienamente nella logica di questa meno accentuata regolamentazione e repressione della vita pulsionale il fatto che questo piacere della distruzione si trasformasse talvolta, grazie ad un'improvvisa identificazione con le vittime e senza dubbio anche per effetto di sentimenti di angoscia e di colpa provocati dalla minaccia costante in cui si viveva, in qualche forma estrema di misericordia.

Il vincitore di oggi avrebbe potuto domani essere sconfitto, fatto prigioniero ed esposto a estremi pericoli. In mezzo a questa incessante altalena, a questa alternanza tra la caccia all'uomo, in tempo di guerra, e la caccia agli animali oppure i tornei – divertimenti del «tempo di pace» -, il futuro era quasi sempre poco prevedibile, relativamente incerto perfino per coloro che si erano ritirati dal «mondo»; Dio, e la fedeltà di pochi uomini che rimanevano uniti, erano l'unica certezza. La paura dominava dovunque; ogni istante valeva per tre. E col mutare della sorte la gioia si tramutava in angoscia, e questa, a sua volta, poteva trasformarsi in abbandono a nuove gioie.

Nella maggioranza dei casi, i membri del ceto superiore secolare nel Medioevo conducevano una vita da condottieri di bande, e ne possedevano il gusto e le abitudini. I documenti che ci sono pervenuti forniscono nel complesso un quadro analogo a quello che ci viene dai documenti di società feudali del nostro tempo, e rivelano anche un analogo standard di comportamento. Soltanto una piccola élite, della quale parleremo in seguito, si differenziava da questo standard.

Il guerriero medioevale non soltanto amava il combattimento, ma vi trascorreva la vita. Passava la sua giovinezza addestrandosi a combattere; raggiunta la maggiore età, lo si consacrava cavaliere, ed egli continuava a combattere finché le forze glielo consentivano, fino alla vecchiaia. La sua vita non aveva altra funzione. La sua abitazione era contemporaneamente un posto di guardia, una fortezza, un'arma di difesa e di offesa. Quando eccezionalmente viveva in pace, aveva almeno bisogno dell'illusione della guerra, e allora si dedicava ai tornei, che spesso si differenziavano assai poco dai combattimenti veri e propri.

«Per la società di allora, la guerra era la condizione normale», afferma Luchaire parlando del XIII secolo. E Huizinga, discutendo del XIV e del XV secolo:

La forma cronica che solitamente assumeva la guerra, il pericolo costante in cui si trovavano città e campagne a causa delle bande di briganti, la perenne minaccia costituita da una giurisdizione dura e malfida… alimentavano un sentimento di generale insicurezza.

[…]

Certamente la gente dell'epoca non si aggirava sempre con volto cupo, fronte aggrottata e aria marziale, a simboleggiare la propria bellicosità; al contrario, stavano magari scherzando tra loro, poi cominciavano a schernirsi, una parola tirava l'altra e all'improvviso dallo scherzo piombavano nella più tremenda faida. Parecchi aspetti che a noi appaiono contraddittori: l'intensità della loro devozione, la loro fortissima paura dell'inferno, i loro sentimenti di colpa, le loro penitenze, le incredibili esplosioni di gioia e allegria, il loro subitaneo infiammarsi e l'irresistibile violenza del loro odio ed aggressività, tutti questi aspetti, così come il rapido trascorrere da uno stato d'animo all'altro, sono in verità sintomi di una stessa struttura della vita emozionale. Gli impulsi, le emozioni si manifestavano in modo più libero, più diretto e scoperto di quanto sarebbe avvenuto in seguito. Siamo soltanto noi, divenuti più moderati, più misurati e più calcolatori, noi che nella nostra economia pulsionale abbiamo interiorizzato in misura assai maggiore come autocostrizioni i tabù sociali, a considerare contraddittorie la forza dispiegata in questa devozione e la violenza di questa aggressività e crudeltà. La religione, la consapevolezza che esiste un Dio Onnipotente dispensatore di pene e ricompense non sono mai state sufficienti, da sole, per «civilizzare» o moderare gli affetti. Al contrario: in ogni epoca la religione è «civilizzata» esattamente quanto la civiltà e lo strato sociale che la sostiene. E proprio perché in questa società medioevale le emozioni vengono espresse in un modo che oggi possiamo osservare ormai unicamente tra i bambini, noi definiamo «infantili» le manifestazioni e gli atteggiamenti della gente di quel tempo.

Qualunque sia il documento dell'epoca preso in esame, il quadro che ne risulta è sempre lo stesso: la vita nel Medioevo presenta una struttura affettiva diversa dalla nostra, l'esistenza è priva di sicurezza, poco ci si cura del futuro. In questa società chi non sapeva amare o odiare con tutte le sue forze, chi nel gioco delle passioni non sapeva farsi valere, poteva ritirarsi in un convento; nella vita secolare, diversamente, sarebbe stato altrettanto perduto di quanto, all'inverso in una società successiva e soprattutto nella vita di corte lo sarebbe stato colui che non fosse stato in grado di dominare le sue passioni, di celare i suoi affetti, di apparire «civile».


Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, 2014 (ed. or. 1969), pp. 352-356 e 362-363.

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