L'uomo come "animale incompleto" e il ruolo dell'intelligenza nell'origine della religione
Nel
1932 Henri Bergson pubblicò Le due fonti della morale e della
religione, un saggio che il giovane Ernesto De Martino, come si è
visto, ebbe modo di studiare e di citare nella sua tesi e
nell’articolo, da essa estratto, Il concetto di religione.113
Nel capitolo dedicato all’analisi della Religione statica, il
filosofo francese scrisse:
Poniamo una certa attività istintiva; facendo sorgere a questo punto l’intelligenza, vediamo se ne segue un perturbamento pericoloso; in questo caso l’equilibrio sarà verosimilmente ristabilito da rappresentazioni che l’istinto susciterà in seno all’intelligenza perturbatrice: se simili rappresentazioni esistono, esse sono idee religiose elementari. Così, la spinta vitale ignora la morte. Appena l’intelligenza scaturisce sotto la sua pressione, appare l’idea dell’inevitabilità della morte: per restituire alla vita il suo slancio, si leverà una rappresentazione antagonistica, e da qui emergeranno le credenze primitive riguardo alla morte. Ma se la morte è l’accidente per eccellenza, a quanti altri accidenti non è esposta la vita umana! L’applicazione stessa dell’intelligenza alla vita non apre la porta all’imprevisto e non introduce il senso del rischio? 114
L’affermazione
che fosse l’intelligenza ad aprire la porta all’imprevisto e a
introdurre il sentimento del rischio faceva intendere la ‘comparsa’
di quella non già come la comparsa di uno strumento che ‘salva’
da una situazione di perpetuo pericolo – quasi che un dio pietoso,
avvedendosi della debolezza e incompletezza dell’uomo rispetto agli
altri viventi avesse donato a questa disgraziata creatura la facoltà
di porvi rimedio (un’immagine, questa, che richiama al mito di
Prometeo; immagine che rinvia a un ulteriore mito, quello
dell’incompletezza dell’uomo, che molta fortuna ha avuto in
diversi trattati di antropologia filosofica, da Herder a Gehlen).
L’intelligenza, al contrario, ancor prima di contrastare il
pericolo è ciò che mostra il pericolo: non già il pericolo
immediato, cioè attualmente presente, bensì il pericolo possibile,
cioè futuro, che potrebbe dunque determinarsi secondo molteplici
forme (l’errore o l’inganno, la malattia o la morte). E dunque,
l’intelligenza non si pone tanto come semplice cura di una malattia
(o di una qualche deficienza, quale è la supposta ‘povertà
fisiologica’ dell’uomo), ma, dialetticamente, si pone e come
malattia e come cura; per cui da un lato essa rende l’uomo
consapevole dei propri limiti (vegetali e animali, invece, sono privi
di una simile consapevolezza), e dall’altro offre gli strumenti per
porre rimedio a tali limiti e per oltrepassarli – ove questo
rimedio e questo oltrepassamento, pongono, di nuovo, altri limiti.
Secondo Bergson, dunque, l’intelligenza (che, nel suo ufficio,
appare non dissimile dall’intelletto pratico definito da Croce115
) non sorge in luogo di una ‘mancanza’, ma è espressione
di una ‘pienezza’ che, nel suo svilupparsi, ha altresì potuto
fare a meno di ‘vecchi strumenti’. L’intelligenza, infatti,
evolvendo, ha comportato un progressivo toglimento dei vari istinti,
la cui immediata efficacia rappresenta tuttavia una certa
‘pesantezza’ o mancanza di ‘agilità’. Così, come «il
cavaliere bardato di ferro ha dovuto cedere il posto al soldato di
fanteria libero nei movimenti» (e questo rimarca il fatto che «i
più grandi successi sono stati ottenuti da coloro che si sono presi
i rischi maggiori»116 ), è la natura che, nel prendere
una certa via evolutiva, si spoglia degli istinti, i quali
costringono a una sorta di ‘chiusura’ al mondo, per favorire
l’azione dell’intelligenza, che, proprio là ove l’istinto è
stato tolto per far posto ad essa, stabilisce una relazione ‘aperta’
col mondo – una relazione aperta al nuovo e pertanto più ricca di
iniziativa. Ma tale apertura e tale ricchezza comportano altresì un
segno negativo. L’intelligenza, infatti, è perturbante nella
misura in cui non solo moltiplica le possibilità della vita, ma, tra
queste, fa mostra anche del rischio a esse correlato. Sicché,
l’intelligenza, proprio perché evoca il rischio, induce la vita ad
approntare un empiastro capace di occultarlo e mascherarlo.
L’intelligenza produce un perturbamento che deve essere affrontato
tramite il balsamo della ‘fabulazione’, ovvero della ‘creazione’
magica e mitico-religiosa. Non è dunque il perturbamento a destare
l’intelligenza, ma è questa, dal momento in cui compare, che
perturba la vita, minacciando il suo ‘cieco’ e inarrestabile
procedere – ché l’intelligenza mette in mostra non solo le
molteplici possibilità della vita (possibilità che l’intelligenza,
nella sua azione pratica, tenta di stabilizzare fissando il reale
secondo schematizzazioni e previsioni, leggi e astrazioni), ma
altresì mostra, quale segno negativo della sua positiva utilità,
l’angosciante possibilità del fallimento, dell’errore, della
morte. Così, turbata dal rischio del crollo, la vita ricorre a una
nietzscheana menzogna presa per verità, in modo da far scendere una
riparatrice ‘nube’ apollinea su questa visione tragica.
L’intelligenza oltrepassa la vita immediata e si distacca dal cerchio ambientale entro cui l’animale insiste, così ancorato ai propri istinti e al «piuolo dell’istante».117 L’animale è infatti solidale con la vita ed è unito a questa da un legame simpatetico, ché in essa vive immerso «come l’acqua nell’acqua».118 In questo intimo legame non si rileva quella frattura (la crisi, il dramma) che invece si scorge nell’esistenza dell’uomo – nel suo pensare e nel suo agire. In tal senso, osserva Bergson, «il selvaggio che scaglia la sua freccia non sa se colpirà il bersaglio; non vi è qui, come quando l’animale si getta sulla preda, continuità tra il gesto e il risultato».119 Questo scarto, tra possibilità e realtà, è il paradosso che l’intelligenza introduce nel mondo: senza di essa la freccia non potrebbe essere scagliata, e tuttavia, nel momento in cui la freccia viene scagliata, accanto alla possibilità del buon risultato, che la fiducia presentifica, si rende manifesta anche la problematica possibilità del fallimento. L’intelligenza, grandezza e miseria dell’uomo, è sì potenza formale che è capace di creare manufatti e oggetti mentali; ma è anche potenza disgregatrice che indica i limiti e le insufficienze e dunque che infiacchisce la vita, nella misura in cui induce l’uomo a riflettere sull’inevitabilità della morte e del dolore, o a dubitare del senso del proprio esserci o dell’efficacia delle proprie azioni. Così nel cuore di quest’uomo fioriscono immagini e speranze al fine di contrastare lo scetticismo che sempre accompagna l’intelligenza. E così, intorno a lui sorgono benigne divinità che lo proteggono, gli assicurano la sopravvivenza: spiriti che lo aiutano nella caccia e indirizzano il suo cammino. Ovvero, per poter giustificare la realtà del male e del dolore, sono evocati demoni o maligne divinità che lo ostacolano, che lo feriscono, ma che pure possono essere affrontati e placati, allontanati e sconfitti, attraverso sacrifici, rituali o pratiche magiche.120
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113 De Martino, Il concetto di religione..., p. 54.
114 Bergson, Le due fonti della morale e della religione..., cap. II , p. 108.
115 Chiaramente, per Croce l’Intelletto non nasce nella storia, a differenza dell’intelligenza bergsoniana, la quale sorge in seno alla vita. Ma rimane questa vicinanza per quanto riguarda la funzione pratica. Infatti per Bergson, l’intelligenza risponde a un bisogno di ‘fissare’ la realtà per favorire l’azione, tant’è che guardando ad essa, e dunque all’uomo, «forse non diremmo Homo sapiens, ma Homo faber» (H. Bergson, L’evoluzione creatrice, tr. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, capitolo II , p. 117).
116 Ivi, p. 111.
117 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1974, p. 6.
118 G. Bataille, Teoria della religione, tr. it. di R. Piccoli, SE, Milano 2002, p. 22.
119 Bergson, Le due fonti della morale e della religione..., cap. II , p. 109
120 Un simile punto di vista, che lega con forza ‘intelligenza’ e ‘rischio’, è possibile trovarlo anche nel Mondo magico a proposito della coppia ‘presenza’ e ‘rischio della presenza’ (almeno, così si cercherà di dimostrare in seguito).
114 Bergson, Le due fonti della morale e della religione..., cap. II , p. 108.
115 Chiaramente, per Croce l’Intelletto non nasce nella storia, a differenza dell’intelligenza bergsoniana, la quale sorge in seno alla vita. Ma rimane questa vicinanza per quanto riguarda la funzione pratica. Infatti per Bergson, l’intelligenza risponde a un bisogno di ‘fissare’ la realtà per favorire l’azione, tant’è che guardando ad essa, e dunque all’uomo, «forse non diremmo Homo sapiens, ma Homo faber» (H. Bergson, L’evoluzione creatrice, tr. it. di F. Polidori, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002, capitolo II , p. 117).
116 Ivi, p. 111.
117 F. Nietzsche, Sull’utilità e il danno della storia per la vita, tr. it. di S. Giametta, Adelphi, Milano 1974, p. 6.
118 G. Bataille, Teoria della religione, tr. it. di R. Piccoli, SE, Milano 2002, p. 22.
119 Bergson, Le due fonti della morale e della religione..., cap. II , p. 109
120 Un simile punto di vista, che lega con forza ‘intelligenza’ e ‘rischio’, è possibile trovarlo anche nel Mondo magico a proposito della coppia ‘presenza’ e ‘rischio della presenza’ (almeno, così si cercherà di dimostrare in seguito).
Sergio Fabio Berardini, Ethos Presenza Storia. La ricerca filosofica di Ernesto De Martino, Università degli Studi di Trento, 2013, pp. 49-52 (versione in pdf, liberamente scaricabile dal sito dell'Università di Trento, sottolineature mie).
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