Senso del pudore e gerarchia sociale

Nel suo Galateo, Della Casa elenca in qualche passo una serie di cattive maniere che bisogna evitare. In società non bisogna addormentarsi, dice; non si devono tirar fuori delle lettere e leggerle; non bisogna tagliarsi o pulirsi le unghie.


Oltre a ciò – continua – non si vuol l'uom recare in guisa che egli mostri le spalle altrui, né tenere alto l'una gamba sì che quelle parti che i vestimenti ricuoprono si possano vedere: perciocché cotali atti non si soglion fare se non tra quelle persone che l'uom non riverisce. Vero è che se un signor ciò facesse dinanzi ad alcuno de' suoi famigliari, o ancora in presenza di un amico di minor condizione di lui, mostrerebbe non superbia ma amore e dimestichezza.

Qui si fa distinzione tra persone di fronte alle quali si prova pudore ed altre di fronte alle quali non lo si prova. Il sentimento del pudore, ora, è chiaramente una funzione sociale, e come tale determinato dalla struttura sociale. Forse ciò non è stato espresso di frequente in modo altrettanto chiaro; tuttavia abbiamo un gran numero di testimonianze circa tale comportamento. Ancora nella Francia del secolo XVII, re e grandi signori erano soliti ricevere i loro sottoposti favoriti in situazioni nelle quali – come in seguito si usava dire in Germania, anche sotto forma di proverbio – anche l'imperatore dovrebbe stare da solo. Ricevere i propri sottoposti quando ci si alza dal letto e ci si veste, oppure quando si va a letto, fu per un lungo periodo una consuetudine del tutto naturale. E la stessa concezione del sentimento del pudore la ritroviamo nell'atteggiamento dell'amica di Voltaire, la marchesa di Châtelet, che si mostra tranquillamente nuda nel bagno davanti al suo cameriere in modo tale da metterlo in imbarazzo, mentre essa stessa con assoluta disinvoltura lo rimprovera perché non versa l'acqua calda in modo conveniente.

Insomma, determinati comportamenti che nella società industriale fortemente democratizzata sono circondati da ogni sorta di tabù, di sentimenti indotti di pudore o di disgusto a vari livelli, nell'epoca in questione lo sono ancora in modo parziale. Soltanto nel rapporto con persone di grado superiore o pari intervengono tali sentimenti […]

In una società strutturata in modo così gerarchico, ogni azione nella vita in comune assume il significato di un valore di prestigio. Anche quel ritegno delle manifestazioni affettive che abbiamo definito «cortesia» (Höflichkeit) assumeva perciò tutt'altro aspetto di quello che avrebbe avuto in seguito, quando diminuirono nettamente le differenze esteriori di rango. Quello che ci è presentato come un caso speciale nel rapporto tra pari – per cui una persona in caso diverso non deve offrire qualcosa ad un altro – diventerà in seguito un costume generale: in società ciascuno si serve da solo, e tutti cominciano a mangiare contemporaneamente.

Non diversamente ci si comporta riguardo alla nudità. In un primo tempo, era considerato un affronto spiacevole mostrarsi nudi di fronte ad una persona di rango superiore o ad un proprio pari; invece, rispetto agli inferiori, poteva essere addirittura un segno di benevolenza. Più tardi, quando tutti divennero socialmente uguali, a poco a poco divenne un affronto in assoluto. A poco a poco il riferimento sociale ai sentimenti di pudore e di disgusto scomparve dalla coscienza. E appunto perché la prescrizione sociale di non mostrarsi nudi o intenti al soddisfacimento dei bisogni naturali vale ormai nei confronti di tutti gli altri, e sotto questa forma viene inculcata nei bambini, essa appare all'adulto come una prescrizione che proviene dalla sua interiorità, e si trasforma in un'autocostrizione che agisce in modo più o meno totale ed automatico.


Norbert Elias, La civiltà delle buone maniere, Il Mulino, 2014 (ed. or. 1969), pp. 281-283.

[Georges Vigarello nel suo Lo sporco e il pulito, Marsilio, 1987, accenna allo stesso episodio della marchesa di Châtelet proponendo le medesime considerazioni di Elias. La fonte dell'episodio sono le Mémoires sur Voltaire, di S.-G. Longchamp e J.-L. Magnière, Parigi, 1826, t. I, p. 120.]

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