A quale ethos affidarci dopo la "morte di Dio"? La risposta di De Martino

[Per il concetto di "maschera" e di "stare nella storia come se non ci si stesse", vedasi il post precedente sulla funzione "destorificante" della religione nel pensiero di E. De Martino]

Ora, a differenza dei diversi mondi culturali che sono fioriti nel corso dei secoli e nelle varie latitudini della Terra, l’Occidente non solo ha visto un profondo mutare delle proprie maschere protettive, ma ha anche visto cadere l’ultima sua maschera che ha infine rivelato il volto di una ‘umanità nuda’. Questa ‘terribile visione’, dunque, è una vittoria della storia – ché essa ha scrollato l’essere dal desiderio naturalizzante dell’immobilità. Eppure, questa è altresì la crisi dell’Occidente; onde per cui si pone in luce l’identità di ‘crisi’ e ‘storia’. Ma appunto: la storia è processo di scelta – e ogni scelta è, in quanto tale, e in diverso grado, ‘critica’. Pertanto, tale domandare: «Che cosa significa questa paradossale avventura dell’uomo come maschera della sua propria storicità, e che cosa significa la sconfitta del suo proposito mascherante? Significa per caso la sconfitta dell’uomo, ove mai fosse vero che nell’esistenza si sta mascherati o si muore?»; questo domandare, si diceva, ha una sola risposta: la sconfitta oppure la non-sconfitta dell’uomo dipende solo dal suo scegliere. Da cosa dipende la ‘miglior scelta’ dell’uomo? Essa dipende dall’assumere pienamente quella che è la propria condizione in un determinato momento storico. Nel caso dell’abitatore dell’Occidente, di questa ‘terra della sera’, la ‘miglior scelta’, secondo De Martino, si precisa nel saper produrre valore (opere d’arte, di filosofia e di vita pratica) in assenza (o meglio, con la consapevolezza dell’assenza) di enti metastorici o metafisici che proteggano il suo esserci nella storia, o che ne limitino la responsabilità. Vivendo in un’epoca di ‘disincanto’ rispetto a quell’esercito di ‘immutabili’ che si rivela oggi essere un ‘esercito di terracotta’, l’uomo deve lasciarsi ‘sedurre’ dal proprio ethos, dal proprio compito, il quale, afferma De Martino, si precisa nel realizzare una sempre più compiuta umanizzazione del mondo. Tornare indietro, tornare a pregare gli dèi, sperare che la terracotta si rianimi e si riempia di forza in luogo del terribile vuoto che ora racchiude non è possibile: un simile tentativo sarebbe segno di un folle irrazionalismo. La via del ‘sacro’, della religione, in Occidente è infatti impraticabile: non si può resuscitare ciò che è morto, anche quando il morto è Dio – ossia ciò che dovrebbe vincere la morte. E forse il motivo di questa impossibile ‘rinascita’ sta proprio qui: come si può aver fede in ‘qualcosa’ che pretende di salvare dalla storia se è proprio questo ‘qualcosa’ a non essersi salvato dalla storia? Come fare affidamento a un istituto protettivo se questo istituto non ha saputo proteggere se stesso contro ciò rispetto cui si era eretto a protezione? [...] come poter sopravvivere alla storia se non vi è più alcun Dio che ci può salvare? Ebbene, si potrebbe subito far notare che queste domande poggiano su una iniziale idea di uomo che appunto lo pone nella storia quale dato, in uno stato di abbandono, di derelizione, si potrebbe dire, alla stregua di qualsiasi altro ente finito, empirico, meramente soggetto al divenire e alla morte. Ed è tale pregiudizio, tale (auto)rappresentazione dell’uomo che giustifica la realizzazione di istituti metastorici, i quali, appunto, si prendono cura dell’uomo in quanto essere finito e, pertanto, preoccupato della propria finitudine. Ma c’è un’alternativa a questa idea di uomo – quella che lo precisa quale operatore di storia, dal cui fare pure le divinità procedono, così come ogni altro istituto storico o valore. Insomma, l’alternativa è tra un uomo che è ente tra gli enti, finitezza che è nulla senza un principio metafisico che gli garantisce l’essere; e un uomo che invece cospira con l’essere, che è la soglia che rela l’essere col suo dover-essere. L’alternativa è tra un uomo che è vittima della storia e che dalla storia va in cerca di protezione; oppure un uomo che è fautore di storia e che nella storia realizza il valore dell’essere. L’alternativa è tra un uomo che può essere solo se ricorre a un ente fittizio posto al di sopra di lui, separato da lui, a lui alieno; oppure un uomo che sappia assumersi in toto il peso dell’essere e la responsabilità del dover essere al quale continuamente è chiamato. Ma si considerino le parole stesse di De Martino:

L’alternativa è chiara: o si accetta o non si accetta la realtà della condizione umana, che è limite ed iniziativa che oltrepassa il limite, situazione e valore che trascende la situazione, morte e opera che sopravvive alla morte. Se non si accetta questa condizione, perché l’accettarla comporterebbe l’annientamento dello stesso coraggio civile creatore di civiltà e di storia, allora non resta che negare realtà a questa condizione, e occultarla e mascherarla nei grandi temi protettivi della vita religiosa, del mito e del rito, della teologia e della metafisica, della magia e della mistica. Non resta cioè che svalutare a mondo di segni e di simboli i ritmi dell’opera quotidiana, e svolgere all’ombra di un ordine già istituito in illo tempore il compito di istituire, qui ed ora, un ordine nuovo. Il fare sarà allora mascherato nel ripetere e nell’imitare, lo star desto sarà ricompresso in un sognare, e nella storia si starà come se non ci si stesse, perché si è già fuori; ma intanto, per questa pia fraus, si opererà e si creerà, e si innalzerà l’edificio della civiltà. Se invece si accetta la condizione umana, e si riconosce senza scandalo che essa ha un limite che l’opera è chiamata senza sosta a valicare, e si scorge nell’al di là dell’opera dotata di valore l’unico modo di distaccare l’uomo dalla natura e di avviarlo dal transeunte al permanente; se si ha coraggio e forza di creare opere di poesia e di scienza, di economia e di vita morale senza bisogno del sistema tecnico-protettivo di una vera patria in cui tutto è già a suo posto, e nella quale saremo alfine integrati: allora si batte la via dell’umanismo storicistico, della civiltà moderna, della coscienza che i beni culturali hanno integralmente origine e destinazione umana, sono fatti dall’uomo per l’uomo, e chiamano al giudizio e all’opera secondo questo criterio fondamentale. L’alternativa è chiara: ma la prima delle due resterà in piedi sempre che la rete di limiti dentro la quale siamo chiamati ad operare è troppo fitta e tenace perché ci sia dato districarcene senza fare appello a un mondo metastorico già fatto, a una civiltà divina, che rassicuri il fanciullino di Cebete; e la seconda alternativa resta un compito da realizzare, e una dignità da proteggere contro l’insidia rinascente della prima opzione, che sospinge verso la magia e la religione. Se dovessimo definire la nostra epoca, e noi stessi in essa, dovremmo dire che noi siamo attualmente impegnati proprio nell’alternativa, e la stiamo decidendo con pena e tormento: alla mente abbiamo già davanti il quadro di un umanesimo integrale, ma in noi e intorno a noi c’è l’insidia dell’angoscia e il bisogno del porto sicuro. ⁸¹³

L’alternativa è chiara, dunque. E l’Occidente, la nostra epoca, si precisa appunto in un dover decidere innanzi a questa alternativa – la quale mostra una biforcazione, laddove una è la via della metastoria, una è la via della storia. Ma se la prima via è un tornare indietro verso qualcosa che non c’è più e se la seconda via è un andare avanti verso qualcosa che non c’è ancora, ecco che la biforcazione presenta l’alternativa tra il finire con ciò che ha avuto fine e l’andare oltre questa fine, verso un nuovo fine – un fine da realizzare. Insomma, l’alternativa presso cui ci troviamo è quella tra la «fine di un mondo» e la «fine del mondo».

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813. De Martino, La fine del mondo..., br. 198, p. 356.



Sergio Fabio Berardini, Ethos Presenza Storia. La ricerca filosofica di Ernesto De Martino, Università degli Studi di Trento, 2013, pp. 361-364 (versione in pdf, liberamente scaricabile dal sito dell'Università di Trento, sottolineature mie).

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