La "crisi della presenza" e il ruolo della magia nel pensiero di E. De Martino

Il mondo magico si caratterizza [...] per un’opera di riscatto, ove ad essere riscattata è la presenza che patisce la propria labilità – che patisce un rischio, quello di non esserci, che continua ad angosciare e a manifestarsi, e che deve essere incessantemente affrontato e risolto. L’interesse dominante si precisa qui nell’operare contro la possibilità del ‘non esserci’. Una possibilità che non riguarda questa o quella cosa, bensì l’esserci, cioè lo stesso soggetto della possibilità – ed è per questo che essa angoscia: in quanto ne va della presenza riuscire ad affrontarla e compiere il proprio riscatto. E dunque, è nella differenza tra il crollo effettivo, che è senza riscatto, e la possibilità del crollo (ossia l’angoscia) che occorre cogliere la peculiarità del mondo magico. Qui la presenta è chiamata a combattere per poterci essere contro il rischio di non esserci – e ciò contro cui essa combatte è appunto il rischio, ossia la possibilità del crollo.²¹⁷ Volendo ricorrere a un esempio, la vertigine che mi assale mentre percorro un tratto di sentiero di montagna presentifica in me la caduta nel burrone. La vertigine, come l’angoscia, allude a questo rischio. Ciò non vuol dire che sto effettivamente cadendo – così l’angoscia non coincide con la caduta effettiva, ma con la sua possibilità. Nella vertigine anticipo la caduta pur rimanendo saldo coi piedi a terra – vivo quella caduta pur senza averne mai fatto reale esperienza. E poco può servire, in questo caso, la voce amica di chi ha salda la propria presenza e che mi ricorda, con logico realismo, che non sto rovinando verso il basso e che la via permane sicura sotto i miei passi: poco può servire poiché io mi trovo su quella via ‘come se precipitassi’ – perché questa possibilità ha una sua peculiare ‘realtà’. ²¹⁸ Così, a salvarmi può essere soltanto la decisa presa del mio compagno di ascesa, il quale ben conosce [il] dramma entro cui sto crollando e che egli ha superato – a trarmi in salvo può essere soltanto la sua presa che m’infonde forza e le sue parole che mi dicono: ‘tieniti stretto a me’. Ebbene, la magia è una tecnica [la quale] si precisa nell’afferrare la presenza che è colta da una vertigine esistenziale e che rischia di precipitare in modo irreparabile. Il mago è, in tal senso, colui che sa affrontare questa vertigine, l’angoscia, e che sa conquistare il proprio equilibrio e che, soprattutto, sa dare il proprio sostegno a quanti ancora rischiano di cadere.

La possibilità del non esserci, anziché essere tolta attraverso la dimostrazione della sua impossibilità, rinvia al bisogno di un sostegno affettivo, in quanto il ‘niente’ (che quella possibilità terribilmente evoca), o meglio, in quanto l’«essere del niente», come Heidegger ha magistralmente evidenziato, non è rilevato dalla logica (la quale mostra la contraddittorietà di questo problema e ne dissolve l’oggetto indicando come l’essere del niente non sia un essere, poiché è niente), bensì è rivelato dall’angoscia.²¹⁹ In tal senso, la soluzione di questo dramma, cioè del problema della labilità della presenza che ‘patisce’ il niente, non avviene per mezzo di una confutazione, ma tramite una pratica affettiva ²²⁰ – una pratica capace di guardare alla crisi (che la logica nega), di ghermirla e riplasmarla nel valore del suo superamento.²²¹ Questo sostegno affettivo è assicurato per mezzo di un ‘istituto magico’, un sapere e una tecnica capaci di salvare la presenza dal crollo, di metterla in sicurezza quando essa si trova in bilico sull’abisso della possibilità. Scrive De Martino:

Mentre i membri della comunità possono perdere senza compenso la loro presenza unitaria, di guisa che il loro fragile esserci è un labile cosmo psichico che rischia ad ogni momento di precipitare nel caos, lo sciamano è l’eroe che ha saputo portarsi sino alle soglie del caos e che ha saputo stringere un patto con esso. Ma appunto perché lo sciamano è diventato padrone assoluto della propria labilità, ha altresì acquistato la capacità di superare i limiti del proprio esserci e di farsi centro chiaroveggente e ordinatore della labilità altrui. Così attraverso il riscatto dello sciamano un analogo riscatto è reso possibile per tutti i membri della comunità.²²²

Prima di considerare tale aspetto ‘comunitario’ dell’azione magica, dobbiamo vedere in cosa consiste il patto che lo sciamano stringe con il caos. Ebbene, qui il patto è simile a quello che è stretto nel Manfred di Byron tra l’omonimo protagonista e alcuni ‘spiriti’. Per entrare in rapporto con questi, Manfred è costretto a decidere la loro forma: «Decidi una forma – in quella ti appariremo»,²²³ dicono gli spiriti. Il ‘patto’ è proprio questa ‘forma’. Laddove il possibile non mostra il proprio volto, giacché questo possibile è come indeterminato; laddove il possibile non si mostra in modo chiaro e distinto, l’intervento salvifico del mago si compie nel decidere il volto del possibile, cioè nel ‘figurarsi’ la forma della possibilità (un determinato ente o evento). L’opera magica rientra, pertanto, in un processo di determinazione dell’indeterminato. Si evoca un ente in luogo di un angoscioso niente; si decide una forma e la si dispone. Chiaramente, tale forma non è il ‘niente’; ma proprio perché essa non è niente, bensì, appunto, un ente, questa forma può essere non solo decisa ma anche signoreggiata. In questo modo l’uomo riesce a mettersi in rapporto col niente (l’indeterminata possibilità) che lo angoscia. L’evocazione di spiriti protettori, l’individuazione di demoni che devono essere sconfitti, la preghiera rivolta agli dèi: tutte queste sono precipue forme di relazione con il niente – forme di relazione che permettono di risolvere la crisi. Innanzi a qualcosa di indefinito, il mago individua un ente definito e affronta questo ente secondo un rituale preciso.

Il dramma magico consiste proprio in questo: nell’entrare in rapporto col «maligno» (cioè con la propria angosciosa labilità), e nell’acquistare il potere di combatterlo e scacciarlo (il che significa acquistare il potere di padroneggiare la labilità propria e altrui). Ecco infatti come opera lo stregone in un caso concreto: «Quando mugghia un maligno vento di ponente, gli stregoni di un accampamento si dispongono in circolo, e osservano il vento che si avvicina. Se notano in lui esseri maligni sotto forma di lunghi gatti chiamati erintja ngaia, gettano contro di loro anzitutto pietre-ngankara, poi li uccidono con i loro bastoni, e li fanno a pezzi. Quindi mostrano questi erintja uccisi solo ai loro colleghi in magia, giammai al pubblico profano».²²⁴ Qui il dramma magico si apre con l’angoscioso mugghiare del vento. Non si tratta di semplice «preoccupazione» o di «paura», ma proprio di un momento critico dell’esserci, che rischia di non mantenere la sua presenza davanti all’oggetto. Più esattamente, non si tratta di un «oggetto» (che preoccupa o spaura), ma addirittura di un oggetto che rischia di non poter essere «gettato davanti a sé», e che in certo senso non «è» ancora: il vento è una realtà che ruba l’anima, in tutta la forza dell’espressione. Per questo rischio di non esserci la presenza si angoscia, e in questa angoscia avverte la «malignità» del vento. L’oggetto non si presenta secondo un contorno definito, dentro limiti stabili per cui possa essere appreso come oggetto: il suo limite è travagliato da infinite possibilità sconosciute, che accennano a un oltre carico di angosciante mistero. Chi leggerà in questo ‘oltre’ del vento, chi identificherà la forma che travaglia la sua realtà, chi ristabilirà il limite che renda l’esserci presente al mondo? Solo coloro che, nel loro dramma esistenziale, sono diventati i signori del limite, gli esploratori dell’oltre, gli eroi della presenza. I maghi si riuniscono e leggono nel vento le forme che ne travagliano rischiosamente la realtà: lunghi gatti demoniaci, erintja ngaia. Essi soli li vedono, ed essi soli li possono combattere ed uccidere.²²⁵

Ecco dunque un esempio di come avviene la determinazione dell’indeterminato. Ecco l’indeterminata possibilità che è colta con angoscia dalla presenza: un ‘oggetto’ che, non presentandosi secondo un contorno definito, ovvero presentandosi in modo indefinito, non chiaro, induce a un atto di chiarificazione, di definizione, di decisione. Questa prossimità del ‘niente’, questa perturbante indeterminatezza, minaccia il ‘soggetto’, il quale rischia di farsi indeterminato come l’ignoto oggetto che la minaccia (infatti un soggetto è tale soltanto in opposizione a un oggetto: per cui un oggetto instabile rende instabile l’opposizione e dunque lo stesso soggetto). La presenza che vuole esserci, pertanto, deve fare ‘essere’ questo oggetto, deve porre un oggetto chiaro e distinto. Così il mago decide il suo oggetto per poterci essere come soggetto. Nel determinare questo oggetto, si determina come soggetto, cioè conquista la propria individualità innanzi a un indeterminato possibile che può annientarlo – un possibile che, nella decisione, è come ‘addomesticato’.

Tuttavia, in gioco non è solo l’individualità del mago. Qui è in gioco anche la presenza della comunità, cioè la presenza di quel ‘pubblico profano’ che, come nota Strehlow, non può vedere gli erintja ngaia uccisi. Qual è il motivo di questo divieto? Evidentemente c’è una connessione tra il non riuscire a vedere i gatti vivi e il divieto di vedere i gatti morti. Anzi, proprio qui sta il motivo: solo chi riesce a vedere i gatti vivi, può ucciderli e dunque può vedere i loro cadaveri. Il divieto qui si collega all’incapacità di vedere gli erintja ngaia. Solo i ‘signori del limite’ sanno leggere «in questo ‘oltre’ del vento» – solo i maghi sanno scorgere in questo indeterminato ‘oltre’ una forma: gli erintja ngaia. Chi invece non riesce a vedere i gatti vivi, nemmeno riesce a vedere i gatti morti – sicché gli si vieta di vedere i gatti morti proprio per far sì che i gatti vivi ‘siano’, e siano dunque uccidibili. Il divieto garantisce la realtà dei gatti e dell’azione magica. Infatti, se non ci fosse questo divieto, non vi sarebbe ‘nulla’ tra il ‘pubblico profano’ e l’angoscioso ‘oltre’ – non vi sarebbe ‘nulla’ a frapporsi tra la presenza e il nulla. La presenza che è incapace di vedere i gatti, non riuscendo a vedere i cadaveri, ossia il risultato della magia, potrebbe non credere nell’azione magica degli sciamani. Per questo le è fatto divieto di vedere i gatti uccisi: le si vieta di vedere ciò che è incapace di vedere. Il divieto è posto così a protezione del pubblico profano dal cifrato ‘oltre’; ma ad essere protetta è anche la stessa azione magica, è la stessa opera del mago, la quale, lungi dall’essere veduta, viene appresa dalla comunità nella forma del racconto. La vittoria sul negativo diventa una narrazione, diventa un ‘fatto’ culturale. Il mago comunica la propria eroica impresa alla comunità, cioè annuncia che il male che la opprime consiste in ‘questo’ e che questo ‘male’ può essere affrontato e sconfitto, come pure egli ha fatto. Tale racconto diventa appunto un dramma culturalmente appreso, diventa cultura, diventa un luogo di senso, di significato in cui è possibile risolvere l’angoscia e superare la labilità esistenziale. Dunque, attraverso la mediazione del mago, la comunità apprende dell’esistenza degli erintja ngaia: impara a conoscerli e, dunque, a ‘vederli’ (essa infatti li ‘vede’ come oggetti di un racconto). Così gli erintja ngaia diventano un codice per decifrare l’oltre; e grazie a tale codice, la presenza riesce a comunicare quelli che sono i propri conflitti interiori, può cioè risolvere la sua angoscia, la sua labilità su un piano intersoggettivo ove si può stare insieme, ove non si è soli alle prese con un indecifrabile niente. Il niente viene così ricomposto in una trama simbolica, in un cosmo; e quindi viene espulso, proprio in quanto viene simbolizzato, cioè tradotto e determinato in un ente – in un valore culturale in cui tutti possono ritrovarsi.

Ecco che ci è possibile tornare a una affermazione di De Martino che avevamo lasciato in sospeso. Egli scriveva: «Appunto perché lo sciamano è diventato padrone assoluto della propria labilità, ha altresì acquistato la capacità di superare i limiti del proprio esserci e di farsi centro chiaroveggente e ordinatore della labilità altrui. Così attraverso il riscatto dello sciamano un analogo riscatto è reso possibile per tutti i membri della comunità». Qui si scorge l’ethos del mondo magico e il carattere morale e salvifico della magia, nonché del mito e della religione. Contro il rischio di una crisi solipsistica, contro il rischio della chiusura entro gli intimi conflitti e dell’incomunicabilità, l’azione del mago è salvifica, partecipata, etica – una azione culturalmente fondata e regolata che, agli occhi di De Martino, rende lo sciamano meritevole di essere chiamato «Cristo magico».²²⁶ Insomma, contro lo sporgere del dramma esistenziale (rispetto al quale Croce avrebbe suggerito di utilizzare la ragione, che è la sola a schiarire e a disperdere l’oscurità, tanto nel pensiero quanto nelle passioni); in relazione al quel dramma, De Martino riconosceva il valore positivo dell’intervento magico – un intervento culturale, salvifico, eroico, pedagogico, di cui era doveroso raccontare la storia.

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217. «L’oggetto [dell’angoscia] non si presenta secondo un contorno definito, dentro limiti stabili per cui possa essere appreso come oggetto: il suo limite è travagliato da infinite possibilità sconosciute, che accennano a un oltre carico di angosciante mistero» (ivi, p. 104). In Sud e magia De Martino scriverà che, entro la pratica magica, «la negatività non è attuale, ma è un possibile che concerne il futuro» (E. De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano 2000, p. 107). 
218. Gilles Deleuze e Félix Guattari, pur muovendosi su piani differenti che non possiamo qui prendere in considerazione, affermarono che un «mondo possibile, in quanto possibile, ha di per sé una realtà propria: basta che colui che si esprime parli e dica ‘ho paura’ per dare una realtà al possibile in quanto tale (anche se le sue parole sono false)» (G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, tr. it di A. De Lorenzis, Einaudi, Torino 1996, p. 7). 
219. Compreso che il problema del niente è ‘soppresso’ dalla logica (cfr. M. Heidegger, Che cos’è metafisica?, in Id., Segnavia, tr. it. di F. Volpi, Adelphi, Milano 1987, p. 63), l’uomo può comunque portarsi dinanzi ad esso: «Questo accadere è possibile e, benché assai di rado, è pure reale, solo per degli attimi, nello stato d’animo fondamentale dell’angoscia» (ivi, p. 67). 220. A chi è angosciato dal niente, un uomo saggio potrebbe anche dimostrare, richiamandosi a Parmenide, che il «non essere non è e non può essere». E tuttavia, agli occhi di chi è colto dall’angoscia il niente non è una contraddizione che semplicemente deve essere fatta cadere, giacché essa emerge come dramma – un dramma rispetto a cui la logica si fa inascoltata. Per questo motivo nel ‘mondo magico’ a comparire come «eroe della presenza» non è Parmenide, non è il filosofo, bensì lo sciamano, il ‘signore del limite’. 
221. Fabio Ciaramelli afferma che «esula dalle competenze [...] del sapere speculativo l’avvertire la crisi e il farvi fronte» (F. Ciaramelli, Croce, de Martino e il problema filosofico dell’origine, in G. Cacciatore, G. Cotroneo, R. Viti Cavaliere [a cura di], Croce filosofo: tomo I , Rubettino, Soveria Mannelli 2003, p. 157). Nell’ultimo capitolo della seconda parte si mostrerà tuttavia questo aspetto: che la magia e la religione non risolvono tanto il problema del nulla, giacché appunto, essendo questo problema una contraddizione, esso può essere risolto solo dal pensiero, dalla logica, dal concetto; bensì lo coprono, lo nascondono, lo occultano per mezzo di una costruzione pseudoconcettuale, ovvero tramite un simbolo mitico-rituale.
222. De Martino, Il mondo magico..., pp. 94-95.
223. Nel Manfred (I, I , 181-183) di Byron, lo spirito afferma: «Noi non abbiamo forme oltre agli elementi | di cui siamo la mente ed il principio: | ma, decidi una forma – in quella ti appariremo» (G.G. Byron, Manfred, tr. it. di F. Buffoni, Mondadori, Milano 2005, p. 19)
224. Qui De Martino sta citando dall’opera di un missionario tedesco: C.F. Strehlow, Die Aranda- und Loritja-Stämme in Zentral-Australien, Joseph Baer & Co., Frankfurt am Main 1907-1920, IV , 2, p. 40
225. De Martino, Il mondo magico..., pp. 103-104
226. La figura dello sciamano, del «Cristo magico» si precisa in questa sicura stretta di mano, nell’intervento di colui che ha vinto la vertigine dell’angoscia, che la sa affrontare e che opera per il riscatto di quanti invece subiscono la labilità e la crisi del proprio ‘ci sono’.
 
Sergio Fabio Berardini
, Ethos Presenza Storia. La ricerca filosofica di Ernesto De Martino, Università degli Studi di Trento, 2013, pp. 87-93 (versione in pdf, liberamente scaricabile dal sito dell'Università di Trento, sottolineature mie).

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