Il rito e i suoi punti in comune con alcuni aspetti dell'alienazione mentale

La catatonia, col suo estremo radicalismo, potrebbe essere assimilata alla difesa dell'assediato che si ripara dietro l'ultima barricata su cui tuttavia l'avversario continua a premere aprendo qua e là delle brecce pericolose: la flessibilità cerea, la polarizzazione e la imitazione speculare si configurano - per mantenere il paragone - quali conati per chiudere queste brecce o per istituire difese di fortuna. Ma se ora ci volgiamo alle stereotipie, l'immagine più adeguata sembra essere quella dell'assediato che tenta una sortita, e che si caccia in mezzo al nemico, ma protetto per quanto possibile dai suoi colpi mortali. Le stereotipie infatti concedono qualche cosa al mutamento, al mondo, ma d'altra parte riplasmano il comportamento introducendovi un segno di isolamento e di impartecipazione. Si atteggia il volto o il capo in modo che scolpisca qualche visibile immutevolezza e si attraversa il mutare dentro questa armatura che separa e protegge. Se l'esser scolpito in qualche segno del permanere non può essere mantenuto con tutto il rigore possibile, se la demonicità del mutare lambisce e si insinua, allora il mutare viene finalmente accolto, ma ridotto alla ripetizione dell'identico, cioè ad un mutare che è tale solo in apparenza, perché in effetti è «eterno ritorno» della identica serie di mutamenti successivi, un iniziare ed un seguire che sistematicamente si annullano attraverso il ritorno allo stesso identico inizio.

Per quanto il divenire possa accumulare domande su domande ed esigere risposte su risposte, sempre diverse in rapporto alle sempre diverse domande, la stereotipia come difesa contrappone una unica risposta, che rigorosamente si ripete: una risposta che in effetti non risponde al mondo, ma unicamente all'esigenza di attraversarlo senza esserne lambito.

Qui noi tocchiamo un momento importante della funzione del ritualismo. Proprio perché dominato da quella forma di permanenza che è la ripetizione rigorosa di uno stesso ciclo di atti, e proprio perché in questo ripetere è efficace non tanto la qualità del ripetuto quanto la forma della ripetizione destorificante, il ritualismo racchiude in germe un momento di separazione protettivo dal mondo, di fuga ristoratrice dal divenire: nell'angoscia della storia che non si ripete (e che proprio perché non si ripete angoscia) ci si ritira nella munitissima rocca della metastoria che si ripete ( e che ristora proprio perché è il regno della ripetizione, divenire apparente, ritorno dell'identico, inizio e successione che si annullano riproducendo sempre di nuovo l'inizio). D'altra parte poiché il ritualismo separa dal divenire, è essenzialmente azione separata, al riparo da qualsiasi contaminazione del mutare, dell'innovare, dell'alterare. La paradossia del ritualismo sta appunto qui, e riproduce quella della catatonia, della polarizzazione, della flessibilità cerea e della imitazione speculare: infatti al ritualismo si accompagna la oscura coscienza che il divenire minacci il cuore stesso del comportamento ritualistico, e che il tentativo di evadere nella metastoria della ripetizione facendo parte della storia che non si ripete non sia sottratto alla novità e alla iniziativa. Di qui nasce lo scrupolo caratteristico della esatta iterazione, la mania di esattezza, il dubbio dell'errore nell'esecuzione, la necessità di riprodurre il comportamento ritualistico nel timore di aver lasciato intrudere qualche novità denunziante il divenire e di esser venuti a patti col mondo per un attimo solo: quell'attimo che facendo breccia nella barricata della ripetizione, rischia di farla crollare lungo tutto il suo fronte!

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Tutto accade come se la destrutturazione della presentificazione valorizzatrice fosse la caricatura della vita magico-religiosa nelle sue espressioni storico-culturali. La melanconia e il senso di una colpa radicali richiamano - senza dubbio caricaturalmente - la predestinazione calvinistica e il suo senso acutissimo della intrinseca peccaminosità dell'umano, la mania richiama invece la dissipazione apparente dei rituali dionisiaci . Il  vissuto di essere-agito-da sembra collegarsi a fatture e stregonerie, mentre i deliri di grandezza sembrano accennare a maghi e sciamani e profeti e messia. Le stereotipie, i ritualismi, i cerimoniali ossessivi ricordano i comportamenti rituali, lo stupore catatonico accenna alla fuga dal mondo dei mistici attraverso l'estasi. La pluralità delle esistenze psicologiche simultanee presenta affinità con la transe del mago, il crollo del mondo con l'apocalisse.

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È noto come il bisogno ritualistico dello psicoastenico insorga spesso in connessione di determinati momenti critici, quando cioè l'evento richiede impegno e iniziativa particolari e sottolinea comunque un passaggio difficile. Nei psicoastenici l'addormentarsi, il dover sostenere esami, ecc. comportano una riacutizzazione del ritualismo. «Se tocco col piede tre volte questa pietra del selciato, tutto mi andrà bene». Cioè quel piccolo frammento rituale genera la rappresentazione e la esperienza di una interruzione del corso del divenire,  con relativa scarica dell'angoscia accumulata, con provvista di energia, ecc.

Interruzione del corso storico con pause metastoriche. Efficacia liberatrice della stereotipia ritualistica come tale.

Rito come condizione per la soluzione favorevole di determinati nodi storici.

Rito come interazione dell'evento archetipo.

Rito come antecipazione, prefigurazione, della risoluzione definitiva della storia nella metastoria.

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Un professore dell'università di Oxford, affetto da alcuni disturbi ossessivi, chiese una volta allo psichiatra William Brown se fosse preoccupante la sua coazione a misurare avanti e indietro l'aula durante le lezioni in sequenze stereotipe di sette passi. Al che Brown rispose: «Quando vi trovere a camminare secondo multipli di sette, tornate da me: sette passi vanno bene». William Sargant, Battle for the Mind, London, 1959, Pen. Books, 1959, p. 73).

Nella vita religiosa il rito deve non soltanto essere compatibile con l'esercizio delle operazioni profane, ma deve ridischiudere di fatto, ristabilendo quella fiducia nella operatività mondana che è la condizione della operatività stessa. Nella misura in cui questo non accade, al rito si sostituisce la stereotipia ossessiva, che è un fenomeno patologico. A differenza delle stereotipie ossessive, che tendono ad assumere un carattere di arbitrio individuale e di distacco progressivo e senza compenso dalla società, il rito è una sequenza ripetitiva socializzata, che regola il modo e la durata della ripetizione in guisa tale da dare orizzonte al ritorno alla operatività mondana. È proprio questo «segno» di reintegrazione dell'individuo nel gruppo che distingue la ripetizione rituale dalla stereotipia ossessiva o psicotica. Ciò significa che, per un verso, il rituale più complesso, partecipe di un contenuto mitico aperto a valori culturali consapevoli, può recedere in sede individuale al livello della stereotipia, e per un altro verso le piccole superstizioni quotidiane, molto prossime alla stereotipia, possono in sede individuale ritenere un valore riequilibratore, se per la reintegrazione non si paga un prezzo troppo alto (il multiplo di sette!), che disturba troppo la operatività mondana.


Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 2002, pp. 134-140 e pp. 180-181 sottolineature mie.

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