Psichicamente sano e psichicamente malato. Cos'è la normalità?

Non esiste altro criterio per distinguere il comportamento psichicamente sano da quello malato che giudicare la adeguatezza o meno di un certo dramma psichico individuale all'ambiente storico di cui la persona fa parte e alle tradizioni culturali e agli istituti, ancor vivi nella coscienza pubblica, che sono destinati ad accogliere e a storicizzare tutti i comportamenti possibili. Georges Dumas riferisce di un operaio verniciatore che si sente «influenzato» dal suo capofabbrica, e dominato da lui al punto di non potersi sottrarre al suo controllo anche quando se ne sta a casa nella sua stanza. Dov'è qui il tratto psicopatologico? Nel «delirio di influenza» in quanto tale? Assolutamente no, perché sentirsi influenzato da qualcuno, essere oggetto di pratiche affatturanti e simili è un tema largamente diffuso in determinati ambienti culturali senza che si possa parlare di «malattia». Il tratto patologico sta nel fatto che un operaio francese istituisca col suo capofabbrica un rapporto analogo a quello che sarebbe «normale» (cioè storicamente adeguato) fra due membri di una società primitiva; che questo operaio non trovi, nel suo proprio ambiente storico - e in particolare nell'ambiente della moderna classe operaia francese -, istituti adeguati nei quali tradizionalizzare le sue proprie esperienze, cioè l'istituto della fattura, e quello della controfattura; e che sia costretto ad affrontare il suo dramma in termini affatto privati, senza il consenso pubblico, senza il soccorso di pubbliche tradizioni, senza il riscatto  operabile in istituti socialmente accreditati e funzionalmente operanti, in aperto contrasto con la «realtà» in generale, ma con quella, storicamente determinata, del suo proprio mondo culturale. È questa inattualità storica del suo dramma che costituisce la malattia. Se si fosse trattato non di un operaio francese, ma di un contadino inserito in un ambiente in cui ancora avessero avuto efficienza determinate tradizioni magiche, o, ancor più, di un Aranda australiano, non si sarebbe potuto parlare di delirio.

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La «spedizione magica» presso gli Aranda è una realtà, un istituto operante: l'arungquilta è un istituto effettivo, ecc.: tutta la cultura è per così dire preparata a tradizionalizzare e a riscattare una certa esperienza di influenzamento. Ma se un uomo d'affari milanese, prendendo occasione di un rovescio economico, comincia a sentirsi «influenzato» per esempio dai gesuiti, e ritiene di essere vittima delle loro «spedizioni» magiche, non c'è dubbio che si tratta di un «delirio», ma perché - e solo perché - si tratta di un dramma inattuale rispetto alla Milano storica, al mondo dei suoi industriali, ecc. Se invece una contadina lucana ritiene che il latte le è stato rubato dalla vicina o si crede vittima di malocchio o di fascinatura, ricorrendo a pratiche conformi, non si può parlare di delirio di influenza, perché la tradizione culturale del suo mondo storico è ancora preparata alla sua esperienza, serba ancora in vita istituti adeguati per combatterla. Proprio da questa inattualità, e quindi inautenticità, del delirio patologico nasce la «frattura» con la realtà storica, e quindi anche il carattere tendenzialmente privato, senza risonanza culturale pubblica, del delirio stesso: e proprio da ciò nasce la impossibilità di un riscatto culturale dal rischio del delirio, la sua disintegrazione rispetto all'ambiente, la impossibilità di inserirlo nella sfera dei comportamenti socialmente accettabili, ecc.


Ernesto De Martino, La fine del mondo. Contributo all'analisi delle apocalissi culturali, Einaudi, 2002, pp. 177-179.

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