Il percorso di miscredenza di Prezzolini

[In un libro scritto negli ultimi anni della sua vita Giuseppe Prezzolini, uno dei protagonisti del dibattito culturale novecentesco, racconta il suo rapporto con la religione e il problema della fede. I titoli in grassetto sono miei, gli asterischi e le relative chiose a piè di pagina, pure]

Le contraddizioni teologiche

Non mi pare di essermi mai rivolto a Dio intimamente quando ero bambino; il mio crederci in una età fra l'infantile e il giovanile, verso il dodicesimo anno d'età, era stato prettamente razionalista e volterriano. Ossia era l'accettazione della necessità di un principio creatore di tutte le cose, che vanno poi avanti per loro conto, senza alcun intervento personale di chi le ha cavate dal nulla. Chi mi costrinse a riflettere su questa spiegazione fu l'intervento di un maldestro e freddo sacerdote che mi preparò col catechismo alla mano per la prima comunione e mi condusse all'assoluta negazione invece che alla pietà cristiana: il mondo c'era, ed era inutile cercare una potenza creatrice la quale, essa stessa, poneva all'uomo il problema di qualcuno che l'avesse creata e quindi tanto valeva ammettere che il mondo c'era stato sempre, in un modo o in un altro, e che continuerebbe ad esistere sempre modificandosi nelle sue forme per rimaner tale e quale nel suo insieme.

Abbandonai anche questa miserabile forma di divinità per l'inquietante evidenza del dolore e del male che mi si rivelava in quei miei primi tentativi di rendermi conto del mondo. Perché mai un Dio onnipotente permetteva tante sofferenze e tanta cattiveria? Le prime ingiustizie e delusioni da ragazzo (non avevo ancora visto nessuno seriamente ammalato o morire) mi resero triste e pessimista. Anche oggi, che son più provvisto di argomenti logici contro l'esistenza di Dio, mi pare che ci sia un'intima contraddizione tra l'amore e l'onnipotenza di Dio, la sua perfezione e la realtà del mondo: perché Dio aveva bisogno di crearlo, se era perfetto? A ciò che è perfetto nulla si può aggiungere che non lo degradi. E se non era perfetto, perché si chiamava Iddio? Il mondo è un'incrinatura della sua perfezione. La risposta che questo è un mistero della sapienza di Dio, il quale tollera i mali del mondo per dei beni che ne derivano nel suo disegno, non può soddisfare nessuna mente logica. La risposta che il male proviene dall'uomo e non da Dio, anche questa non soddisfa, perché la responsabilità del male risalirebbe sempre a chi avrebbe creato l'uomo capace di male. Perché esporlo al pericolo del male? La creazione non può essere stata fatta allo scopo di provare le forze degli uomini, come se Dio si potesse divertire allo spettacolo degli uomini in tentazione.

Naturalmente tutto questo non ha valore per chi crede. Ma ciò solleva un'altra imbarazzante domanda: Perché Dio fa sì che alcuni credano e ad altri toglie la luce? Anzi, avendo il dono dell'infinita sapienza, Dio sa di già che molti uomini saranno malvagi ed altri non crederanno, insomma li condanna per sempre, anche prima di metterli alla prova? I teologi si sono affaticati a far combaciare queste sconcordanze mediante la fede, ma per chi si contenta della ragione quei concetti non vanno insieme. Quando poi i teologi pretendono che si possa arrivare alla verità loro con la ragione soltanto, su questo terreno hanno torto e senza appello. La fede salva tutto, ma non può anche valersi della ragione. È una pretesa eccessiva.

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Tentare di arrivare alla fede attraverso una pratica "incretinente"

Alle volte mi dico che tutto era sbagliato in quel che tentavo di fare: la mia vita non era cristiana, ma anzi piena di peccato; e non pensavo alla contraddizione del voler trovar la fede e nello stesso tempo non distruggere nei propri sensi il bisogno del piacere. Avevo scelto delle vie troppo comode. Avevo preso alla lettera l'insegnamento che Pascal dà agli increduli: Abêtissez-vous! * Ma insieme all'incretinimento delle preghiere e delle formule avevo continuato a leggere le sciolte arguzie e gli svelti argomenti della ragione filosofica, e le tentazioni della immaginazione letteraria. L'umiltà mi era facile, la solitudine gradevole penitenza, le piccole carità una soddisfazione d'amor proprio. Un cammino, per altri difficile, per me senza spine.

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M'ero in quel tempo rivolto alla pratica del cattolicismo soltanto perché speravo di trovarvi la pace e la soluzione di una noia e disperazione sortami nell'animo dopo un periodo di esaltazione.

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Mi parve di ritornar fanciullo ritrovando con animo di studioso e di curioso le preghiere che avevo recitato senza capirne il senso e senza soddisfazione. In un certo modo, fu un grande divertimento, una scoperta, e solleticava anche il mio amor proprio che io ci arrivassi per una via diversa da quella dei più, senza rendermi conto che proprio per questo mancava una base a quello che volevo costruire e che il castello era un facsimile di quelli antichi non uno autentico. Quando in chiesa mi mettevo per umiltà accanto alla mia donna di servizio ch'era un po' bigiarella (cioè, in dialetto del paese, un po' scema) e nel suo libro di preghiere illustrato bucava gli occhi agli Ebrei che avevan crocifisso Nostro Signore, mi pareva d'aver fatto una grande conquista entro me stesso; ma tutto mi sarebbe apparso falso se avessi osservato che io adoperavo il testo del Vangelo dato dalla profonda filologia del Nestlé, e lei un vecchio messale unto e bisunto e bucato, libro dei nonni. Il suo era ereditato, il mio comperato sul mercato della cultura; era più esatto e pulito, ma meno vero del suo.

Ora, oggi, eccomi davanti al mio tavolo da lavoro, cercando di ricordarmi le mie relazioni con Dio quand'ero non più giovane o non ancora adulto; e mi pare che quella confusione della mia mente fosse meravigliosa. Io pregavo Dio, che non sapevo se esistesse, di esistere per me, non foss'altro che per un momento; un momento in cui mi apparisse e mi desse la pace: «Rivelati, se esisti. Esisti, affinché ti riveli! Non basta la mia preghiera a crearti?». La divinità restava silenziosa.

Il mio proposito era di raggiungere Dio mediante un'ipnosi imposta da me stesso su di me. Ecco, io mi dicevo, io a forza di pregare, di ripetere queste formule, di sentire il suono dell'organo, di mescolarmi con la folla puzzolente dei credenti che si inginocchia al momento dell'elevazione, riuscirò a sentirmi un altro. Qualche cosa mi invaderà, salirà su dal profondo del cuore, con un fremito del corpo. Conoscevo la forza dei digiuni, per averli praticati nel passato come una specie di pulizia e di alleggerimento del peso del corpo umano; li avevo ripresi, mi sentivo più libero, più aereo, il pulsare del sangue nelle vene aveva una vibrazione speciale. Nei miei sogni spesso mi pareva di poter volare, abbandonavo la gravità con una meraviglia incantevole e sorvolavo sugli oggetti e le persone. Ora cercavo nella religione degli effetti magici dello stesso genere. Non avevo amore per gli uomini, le loro pene raramente mi commovevano e quando mi commovevano era per un istinto naturale di estetismo e di ribrezzo per le loro piaghe, per le loro rughe, per la loro pallidezza, per la miseria delle loro membra contorte o rognose, una compassione che era repulsione, senza nessun desiderio di prender parte al loro male. Il mio desiderio non era cristiano. Lo dicevo a me stesso: «Voglio esser cattolico, non cristiano». Il Dio che immaginavo era un cielo sereno coperto di stelle ghiacciate che non si commuove per nulla delle miserie del mondo. È impossibile, dicevo, che Cristo abbia sofferto sulla croce, se era Dio. La Grazia di Dio non può consistere nel soffrire, ma nel silenzio assurdo delle sfere celesti, nalla partecipazione alla inesorabilità dei suoi decreti, alla matematica dei suoi disegni; il suo pensiero deve essere una equazione che include tutte le possibili incognite elevate alla massima potenza e risolta con una sola cifra. Essere cattolico è compiere tutte le operazioni del cristiano senza crederci, ma acquistando l'invulnerabilità al mondo di chi si sente appartenere ad un corpo che ha nella fede la sua giustificazione. Tutte le assurdità del cristiano saranno accettate da me, dicevo, pur di non sentirmi solo. Una società universale mi appoggerà. Uno sbaglio formidabile, partecipato da una massa di credenti, svilupperà per me una verità. L'avrò conquistata a rovescio, ma sarà mia.

Ora, oggi, mi trovo davanti al mio tavolo da lavoro e guardo davanti a me, nel vuoto che faccio con la mia mente di ogni rappresentazione, e cerco di recuperare il passato, e mi domando strettamente la verità. Quel passato risorge nella mia mente come un grande vuoto, dove s'agitan dei fantasmi, un dei quali era il Dio che io pregavo, e che non mi rispose.

[...]

Le cose son proprio quello che sono

Eccomi dunque qui solo, disperato, senza verità, senza appoggio, senza nessuna voce che mi dica dove sono, dove vado, donde vengo. Non so chi interrogare.

Quello che trovo, ora, oggi, in me stesso è che nulla ha importanza, nulla ha un significato, non c'è nel mondo nessun mistero. Ecco la tremenda verità:  le cose son proprio quello che sono e la loro mancanza di valore è spaventosa. **

È possibile che la mia stanza, il tavolino davanti al quale sono seduto, la cara persona che lavora accanto a me, e sento il fruscio del suo vestito quando si muove, e con la coda dell'occhio ne indovino i movimenti, e le immagini di coloro che ho incontrato ieri e ieri l'altro e un anno e anni fa, non siano altro che accidenti meccanici di un mondo che si svolge senza requie e senza scelte in un silenzio spirituale assoluto dove il grido del paziente operato non conta più del gemito d'amore nella gioia dell'unione?


[* È la celebre raccomandazione contenuta del passo della "scommessa" pascaliana: "Vous voulez aller à la foi et vous n’en savez pas le chemin. Vous voulez vous guérir de l’infidélité et vous en demandez les remèdes. Apprenez de ceux qui ont été liés comme vous et qui parient maintenant tout leur bien, ce sont gens qui savent ce chemin que vous voudriez suivre et guéris d’un mal dont vous voulez guérir. Suivez la manière par où ils ont commencé. C’est en faisant tout comme s’ils croyaient, en prenant de l’eau bénite, en faisant dire des messes, etc. Naturellement même cela vous fera croire et vous abêtira."

** Ed è proprio per questo che le religioni sussistono, bene o male, ancor oggi nelle nostre civiltà del disincanto: riempiono dei vuoti di senso, arginano l'angoscia che ne deriva. ]


Giuseppe Prezzolini, Dio è un rischio, Club degli Editori (su licenza Rusconi), 1981, pp. 30-32, 35-40, 45. Commenti miei in blu tra parentesi quadre.

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