Ernesto De Martino nel ricordo di G. Jervis

Negli ultimi mesi del 1958 incontrai l'etnologo e storico delle religioni Ernesto De Martino, che cercava uno psichiatra con cui andare in Puglia a studiare i tarantolati. Avendo letto un paio dei suoi scritti ne discussi con lui, e decise di prendermi con sé. Se ne parlo qui, è solo perché negli anni in cui lavorai con De Martino il problema dei denti di Aristotele [*] (che è poi il problema generale delle verifiche) mi si ripresentò ad un livello di complessità enormemente maggiore, a cui vorrei introdurre il lettore.

Prima, però, devo spiegare il senso dell'insegnamento di De Martino, perché ha a che fare col tema di questo libro. Il suo merito principale, di cui gli fui subito grato, fu di cercare un equilibrio fra due esigenze ugualmente valide, ma contrastanti.

La prima esigenza lo portava a un atteggiamento di rispetto se non di simpatia verso i miti e le ritualità, e in particolare verso quel mondo magico-religioso che in tutte le terre del nostro pianeta edifica valori culturali e conferisce significato al vivere. Questo era il suo mestiere, ed era anche la sua passione. L'esigenza opposta lo radicava nella cultura scettica, laica e razionalista dell'Occidente.

Su un piano più personale, poi, la divisione era altrettanto presente: da un lato egli era affascinato dall'irrazionale (era anche un po' superstizioso, e incline a credere in una qualche efficacia dei poteri magici), mentre dal lato opposto era un consapevole illuminista. Se dunque per certi versi avvertiva un senso di sincera partecipazione verso i tentativi di arricchire la realtà con una qualche forma di mistero e di trascendenza, per altri versi non dimenticava mai di definirsi, quale era di fatto, fermamente ateo.

De Martino, era un meridionalista e un socialista, credeva nell'emancipazione delle masse, e riteneva di doversi battere per il superamento della subordinazione, anche psicologica, dei miserabili e degli oppressi di tutti i paesi. Eppure, al tempo stesso, era consapevole del fatto che nel corso della graduale sparizione delle culture preletterate sotto la marcia trionfante della plastica e della Coca-Cola qualcosa di prezioso sarebbe andato perduto.

Chi gli fu vicino non poté che restare affascinato dalla sua capacità di cercare chiarezza fuori dagli schemi. Negli ultimi anni della sua vita si distaccò dall'idealismo del periodo giovanile, quando aveva subito l'influenza di Benedetto Croce; ammirava Marcel Mauss, alle cui idee doveva molte delle proprie, e Antonio Gramsci, mentre diffidava di Mircea Eliade (al quale però nelle discussioni si riferiva spesso) e dichiarava scarsa simpatia nei confronti di Nietzsche, di Heidegger e dei loro nipotini ideologici. In più era un uomo simpatico e spesso divertente.

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[*] Jervis si riferisce alla boutade di B. Russell, il quale in un suo libro citò l'esempio di Aristotele - che sosteneva che le donne hanno meno denti degli uomini - per sottolineare la tendenza spesso presente tra gli studiosi a non fare verifiche su tesi ritenute "indiscutibili".


Giovanni Jervis, Contro il relativismo, Laterza, 2005, pp. 5-6.

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