La trasformazione della percezione del trascorrere del tempo nel corso della vita

[Il tempo e la percezione soggettiva del suo trascorrere è un argomento estremamente affascinante che implica riferimenti a diverse discipline: fisica, filosofia, psicologia, neurobiologia, ecc. La letteratura poi è ricchissima di riferimenti a questa tematica. Le pagine di Buzzati qui riprodotte rendono magistralmente la trasformazione che nel corso dell'esistenza un individuo può avere di questo trascorrere a partire da un certo momento in poi. Credo sia capitato a molti, riflettendo sul proprio passato, di individuare un momento particolare, quasi sempre coincidente con una svolta della propria esistenza, in cui il tempo ha cominciato inesorabilmente a correre. È il caso di Drogo, l'ufficialetto appena approdato alla fortezza Bastiani, ancora ignaro di tutto ciò, come lo sono in genere i giovani.]


Disteso sul lettuccio, fuori dall'alone del lume a petrolio, mentre fantasticava sulla propria vita, Giovanni Drogo invece fu preso improvvisamente dal sonno. E intanto, proprio da quella notte - oh, se l'avesse saputo, forse non avrebbe avuto voglia di dormire - proprio quella notte cominciava per lui l'irreparabile fuga del tempo.

Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita, dove gli anni scorrono lenti e con passo lieve, così che nessuno nota la loro partenza. Si cammina placidamente, guardandosi con curiosità attorno, non c'è proprio bisogno di affrettarsi, nessuno preme dietro e nessuno ci aspetta, anche i compagni procedono senza pensieri, fermandosi spesso a scherzare. Dalle case, sulle porte, la gente grande saluta benigna, e fa cenno indicando l'orizzonte con sorrisi di intesa; così il cuore comincia a battere per eroici e teneri desideri, si assapora la vigilia delle cose meravigliose che si attendono più avanti; ancora non si vedono, no, ma è certo, assolutamente certo che un giorno ci arriveremo.

Ancora molto? No, basta attraversare quel fiume laggiù in fondo, oltrepassare quelle verdi colline. O non si è per caso già arrivati? Non sono forse questi alberi, questi prati, questa bianca casa quello che cercavamo? Per qualche istante si ha l'impressione di sì e ci si vorrebbe fermare. Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada.

Così continua il cammino in un'attesa fiduciosa e le giornate sono lunghe e tranquille, il sole risplende alto nel cielo e sembra non abbia mai voglia di calare al tramonto.

Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle spalle nostre, chiudendo la via del ritorno. Allora si sente che qualcosa è cambiato, il sole non sembra più immobile ma si sposta rapidamente, ahimè, non si fa in tempo a fissarlo che già precipita verso il confine dell'orizzonte, ci si accorge che le nubi non ristagnano più nei golfi azzurri del cielo ma fuggono accavallandosi l'una all'altra, tanto è il loro affanno; si capisce che il tempo passa e che la strada un giorno dovrà pur finire.

Chiudono a un certo punto alla nostre spalle un pesante cancello, lo rinserrano con velocità fulminea e non si fa in tempo a tornare. Ma Giovanni Drogo dormiva ignaro e sorrideva nel sonno come fanno i bambini.

Passeranno dei giorni prima che Drogo capisca ciò che è successo. Sarà allora come un risveglio. Si guarderà attorno incredulo; poi sentirà un trapestio di passi sopraggiungenti alle spalle, vedrà la gente, risvegliatasi prima di lui, che corre affannosa e lo sorpassa per arrivare in anticipo. Sentirà il battito del tempo scandire avidamente la vita. Non più alle finestre si affacceranno ridenti figure, ma volti immobili e indifferenti. E se lui domanderà quanta strada rimane, loro faranno sì ancora cenno all’orizzonte, ma senza alcuna bontà e letizia. Intanto i compagni si perderanno di vista, qualcuno rimane indietro sfinito, un altro è fuggito innanzi, oramai non é più che un minuscolo punto all’orizzonte

Dietro quel fiume – dirà la gente – ancora dieci chilometri e sarai arrivato. Invece non è mai finita, le giornate si fanno sempre più brevi, i compagni di viaggio più radi, alle finestre stanno apatiche figure pallide che scuotono il capo.

Fino a che Drogo rimarrà completamente solo e all’orizzonte ecco la striscia di uno smisurato mare immobile, colore di piombo. Oramai sarà stanco, le case lungo la via avranno quasi tutte le finestre chiuse e le rare persone visibili gli risponderanno con un gesto sconsolato: il buono era indietro, molto indietro e lui ci è passato davanti senza sapere. Oh, è troppo tardi ormai per ritornare, dietro a lui si amplia il rombo della moltitudine che lo segue, sospinta dalla stessa illusione, ma ancora invisibile sulla bianca strada deserta.

Giovanni Drogo adesso dorme nell’interno della terza ridotta. Egli sogna e sorride. Per le ultime volte vengono a lui nella notte le dolci immagini di un mondo completamente felice. Guai se potesse vedere se stesso, come sarà un giorno, là dove la strada finisce, fermo sulla riva del mare di piombo, sotto un cielo grigio e uniforme, e intorno né una casa né un uomo né un albero, neanche un filo d’erba, tutto così da immemorabile tempo. [pp. 66-69]

[...]

Abitudine era diventato per lui il turno di guardia, che le prime volte pareva insopportabile peso; a poco a poco aveva imparato bene le regole, i modi di dire, le manie dei superiori, la topografia delle ridotte, i posti delle sentinelle, gli angoli dove non tirava vento, il linguaggio delle trombe. Dalla padronanza del servizio ricavava uno speciale piacere, valutando la crescente stima dei soldati e dei sottufficiali; persino Tronk si era accorto come Drogo fosse serio e scrupoloso, gli si era quasi affezionato.

Abitudine erano diventati i colleghi, oramai li conosceva così bene che anche i più sottili loro sottintesi non lo trovavano impreparato; e per lungo tempo alla sera stavano a chiacchierare insieme dei fatti della città che per la lontananza acquistavano smisurato interesse. Abitudine la mensa buona e comoda, l'accogliente camino del ritrovo ufficiali, giorno e notte sempre acceso; la premura dell'attendente, un buon diavolo di nome Geronimo, che a poco a poco aveva imparato i suoi speciali desideri.

Abitudine le gite fatte ogni tanto con Morel al paese meno lontano: due ore abbondanti di cavallo attraverso una stretta valle che oramai aveva imparato a memoria, una locanda dove si vedeva finalmente qualche faccia nuova, si preparavano pranzi sontuosi e si udivano fresche risate di ragazze con cui si poteva fare l'amore.

Abitudine le sfrenate corse a cavallo su e giù per la spianata dietro la Fortezza, in gara di bravura coi compagni nei pomeriggi di riposo, e le pazienti partite a scacchi, la sera che arrivavano ad alta voce, spesso vittoriose per Drogo (ma il capitano Ortiz gli aveva detto: "Sempre così, i nuovi arrivati dapprincipio vincono sempre. A tutti capita lo stesso, ci si illude di essere veramente bravi, invece è solo questione della novità, anche gli altri finiscono per imparare il nostro sistema e un bel giorno non si riesce più a niente"). Abitudine erano per Drogo la camera, le placide letture notturne, la fessura del soffitto, sopra il letto, che assomigliava alla testa di un turco, i tonfi della cisterna, col tempo diventati amici, la fossa scavata dal suo corpo nel materasso, le coperte nei primi giorni così inospitali ed ora docilmente pronte, il movimento, oramai eseguito istintivamente nella lunghezza esatta, per spegnere la lampada a petrolio o mettere il libro sul tavolino. Sapeva oramai come dovesse disporsi al mattino, quando si faceva la barba dinanzi allo specchio, perché la luce lo illuminasse in faccia con l'angolo giusto, come versare l'acqua della brocca nel catino senza spanderne fuori, come far scattare la serratura ribelle di un cassetto, tenendo la chiave piegata un po' in basso.

Abitudine lo scricchiolio della porta nei periodi di pioggia, il punto dove soleva battere il raggio di luna entrato dalla finestra e il suo lento spostarsi col passare delle ore, il tramestio nella stanza sotto la sua, ogni notte, alle una e mezzo in punto, quando l'antica ferita alla gamba destra del tenente colonnello Nicolosi si risvegliava misteriosamente, interrompendogli il sonno.

Tutte queste cose erano oramai diventare sue e lasciarle gli avrebbe causato pena. Drogo però non lo sapeva, non sospettava che la partenza gli sarebbe costata fatica né che la vita della Fortezza inghiottisse i giorni uno dopo l'altro, tutti simili, con velocità vertiginosa. Ieri e l'altro ieri erano eguali, egli non avrebbe più saputo distinguerli; un fatto di tre giorni prima o di venti finiva per sembrargli ugualmente lontano. Così si svolgeva alla sua insaputa la fuga del tempo. [pp. 90-92]



Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Oscar Mondadori, 1977 (prima ed. Rizzoli, 1940)

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