Il rito come ripetizione del gesto archetipico

[Eliade è tornato più volte su questo concetto in diverse opere (e De Martino ha usato la tesi eliadiana del rito come ripetizione del gesto archetipico per es. nelle spiegazioni date alle funzioni degli incantesimi in "Sud e magia"). Questo post pertanto si arricchirà col tempo di altre aggiunte. Abbreviazioni usate nei riferimenti alle opere da cui sono tratti i brani: TSR (Trattato di storia delle religioni); MER (Il mito dell'eterno ritorno); MR (Mito e realtà). Siccome ho letto inizialmente queste opere in versione elettronica e solo in un secondo momento ho avuto tra le mani le versioni cartacee, per quanto riguarda il Trattato non posso fornire riferimenti precisi alle pagine perché queste variano in base al tipo di dispositivo usato per la lettura dell'ebook. Pertanto fornirò per ogni brano solo i riferimenti al capitolo e al paragrafo in cui si trova. Non ho riportato le note presenti nel testo, che sono comunque solo riferimenti bibliografici. Ho evidenziato in rosso per comodità alcune definizioni chiave all'interno di ciascun brano] [Devo rettificare quanto detto sopra a proposito dell'ascendenza eliadiana del rito come gesto archetipico. Si tratta in realtà di un concetto che tanto Eliade quanto De Martino hanno preso da K. Kerényi. Devo questa notizia alla lettura di P. Angelini, L'uomo sul tetto. Mircea Eliade e la «storia delle religioni », Bollati-Boringhieri, 2001, pp. 45-46]

[...] siccome il rito consiste sempre nella ripetizione di un gesto archetipico, compiuto in illo tempore (ai primordi della «storia») dagli antenati o dagli dèi, si tenta di «onticizzare», per mezzo della ierofania, gli atti più banali e insignificanti. Il rito coincide, per la ripetizione, col suo «archetipo», il tempo profano è abolito. Si può dire che assistiamo allo stesso atto compiuto in illo tempore, in un momento cosmogonico aurorale. Trasformando, di conseguenza, tutti gli atti fisiologici in cerimonie, l’uomo arcaico si sforza di «passare oltre», di proiettarsi oltre il tempo (del divenire), nell’eternità. Non è questo il momento di insistere sulla funzione del rito, ma dobbiamo notare fin d’ora la tendenza normale del «primitivo» a trasformare gli atti fisiologici in rituale, dando loro così un valore spirituale. Mangiando o facendo l’amore, il primitivo si inserisce in un piano che non è, in ogni caso, quello della nutrizione o della sessualità. Questo avviene tanto nelle esperienze iniziali (primizie, primo atto sessuale), come nel corso dell’intera attività sessuale o alimentare. Possiamo dire che in queste circostanze si tratta di esperienza religiosa indistinta, strutturalmente diversa dalle esperienze distinte rappresentate dalle ierofanie dell’insolito, dello straordinario, del mana ecc. Ma la parte rappresentata da questa esperienza nella vita dell’uomo arcaico non è per questo minore, quantunque, per la sua stessa natura, sia un’esperienza che sfugge agli osservatori. Questo spiega la nostra affermazione precedente: la vita religiosa dei popoli primitivi si estende oltre le categorie del mana, delle ierofanie e delle cratofanie folgoranti. Tutta un’esperienza religiosa, dal punto di vista strutturale indistinta, nasce dal tentativo dell’uomo di inserirsi nel reale, nel sacro, per mezzo di atti fisiologici fondamentali, da lui trasformati in cerimonie.

D’altra parte, la vita religiosa di qualsiasi gruppo umano nella sua fase etnografica contiene sempre un certo numero di elementi teorici (simboli, ideogrammi, miti cosmogonici e genealogici ecc.). Avremo occasione di vedere che queste «verità» sono considerate ierofanie dagli uomini delle culture arcaiche. Non soltanto perché rivelano modalità del sacro, ma anche perché, con l’aiuto di tali «verità», l’uomo si difende contro l’insignificante, il nulla; in breve, sfugge alla sfera del profano. Si è spesso parlato di debolezza dei primitivi dal punto di vista della teoria. Anche se così fosse (e moltissimi osservatori la pensano diversamente), troppo spesso si è dimenticato che il pensiero arcaico non procede esclusivamente per concetti o elementi concettuali, ma si serve anche e anzitutto di simboli. Più avanti avremo occasione di vedere che i simboli vengono «maneggiati» secondo una logica simbolica. Di conseguenza, l’apparente povertà concettuale delle culture primitive non implica l’incapacità di teorizzare; dipende invece dal fatto che quelle culture fanno capo a uno stile di pensiero del tutto diverso dallo «stile» moderno, che è basato sugli sforzi speculativi ellenici. Ora noi siamo in grado di individuare, anche nei gruppi meno evoluti dal punto di vista etnografico, un insieme di verità, integrate in modo coerente in un sistema, in una teoria (per esempio, presso gli Australiani, i Pigmei, i Fuegini ecc.). Questo insieme di verità non forma soltanto una Weltanschauung, ma anche un’ontologia pragmatica (potremmo anche dire soteriologica), nel senso che, con l’aiuto di quelle «verità», il primitivo tenta di salvarsi integrandosi nel reale.

Per citare un solo esempio, vedremo che la maggioranza degli atti compiuti dall’uomo delle culture arcaiche è, nelle sue intenzioni, soltanto la ripetizione di un gesto primordiale, compiuto al principio del tempo da un essere divino o da una figura mitica. L’atto ha un certo senso solo nella misura in cui replica un modello trascendente, un archetipo. Quindi lo scopo della ripetizione è di raggiungere la normalità dell’atto, di legalizzarlo conferendogli così uno statuto ontologico, poiché se diventa reale, ciò accade unicamente in quanto ripete un archetipo. Ora, tutte le azioni compiute dal primitivo presuppongono un modello trascendente; perciò queste azioni sono efficaci soltanto nella misura in cui sono reali, esemplari. L’azione è nello stesso tempo una cerimonia (nella misura in cui integra l’uomo nella zona sacra) e un inserimento nel reale. Tutte queste osservazioni comportano sfumature che risulteranno molto più chiare quando potremo commentare gli esempi forniti dai capitoli che seguono. Nondimeno è necessario annunciarne fin da ora le implicazioni, mettendo in luce un aspetto teorico della vita religiosa «primitiva» generalmente trascurato. [TSR, I, 10]

[...]

Il mito, quale che sia la sua natura, è sempre un precedente e un esempio, non soltanto rispetto alle azioni («sacre» o «profane») dell’uomo, ma anche rispetto alla propria condizione; meglio: il mito è un precedente per i modi del reale in generale. «Dobbiamo fare quel che gli dèi hanno fatto in principio»; «così fecero gli dèi, così fanno gli uomini». Affermazioni di questo genere traducono esattamente la condotta dell’uomo arcaico, ma non si può dire che esauriscano il contenuto e la funzione dei miti: infatti tutta una serie di miti, mentre riferisce che cosa hanno fatto in illo tempore gli dèi o gli esseri mitici, rivela una struttura del reale inaccessibile all’apprendimento empirico-razionalistico. [TSR, 12, 158]

[...]

Ogni mito, indipendentemente dalla sua natura, enuncia un avvenimento che avvenne in illo tempore e per questo costituisce un precedente esemplare per tutte le azioni e «situazioni» che, in seguito, ripeteranno l’avvenimento. Ogni rituale, ogni azione che abbia un senso, eseguiti dagli uomini, ripetono un archetipo mitico; ora abbiamo visto (§ 150) che la ripetizione ha per conseguenza l’abolizione del tempo profano e la proiezione dell’uomo in un tempo magico-religioso che non ha nulla a che vedere con la durata propriamente detta, ma costituisce l’«eterno presente» del tempo mitico. Il che significa che, congiuntamente ad altre esperienze magico-religiose, il mito reintegra l’uomo in un’epoca a-temporale che è, di fatto, un illud tempus, cioè un tempo aurorale, «paradisiaco», oltre la storia. Chi compie un rito qualsiasi, trascende il tempo e lo spazio profano; allo stesso modo, chi «imita» un modello mitico o soltanto ascolta ritualmente (partecipandovi) la recitazione di un mito, è sottratto al divenire profano e ritrova il Grande Tempo. Nella prospettiva dello spirito moderno, il mito (e con esso tutte le altre esperienze religiose) abolisce la «storia» (§ 150). Ma bisogna notare che i miti, in genere, per il solo fatto di enunciare quel che avvenne in illo tempore, sono essi stessi una storia esemplare del gruppo umano che li ha conservati e del Cosmo di quel gruppo. Perfino il mito cosmogonico è anch’esso una storia, in quanto racconta tutto quel che avvenne ab origine. Evidentemente con questa riserva, che non si tratta di «storia» nel senso moderno della parola – di avvenimenti irreversibili e non ripetibili – ma di una storia esemplare che può ripetersi (periodicamente o no) e che trova il suo significato e il suo valore nella ripetizione stessa. La storia che è stata in origine deve ripetersi, perché ogni epifania primordiale è ricca, in altre parole non si lascia esaurire da una sola manifestazione. D’altra parte, i miti sono ricchi del loro contenuto, che è esemplare e, come tale, offre un senso, crea qualche cosa, annuncia qualche cosa ecc.

La funzione di storia esemplare che hanno i miti è resa sensibile anche dal bisogno che l’uomo arcaico sente di mostrare le «prove» dell’avvenimento registrato nel mito. Prendiamo un tema mitico noto: essendo avvenuta la tal cosa, gli uomini diventarono mortali, oppure le foche perdettero le dita, oppure la luna si coprì di macchie ecc. Questo tema è perfettamente «dimostrabile», per la mentalità arcaica, dal fatto che l’uomo è realmente mortale, che le foche non hanno dita, che la luna ha realmente delle macchie. Il mito che rivela come l’isola Tonga sia stata pescata in fondo all’oceano, fornisce la prova della sua veridicità col fatto che si vede ancora la canna adoperata per pescarla e la roccia su cui si impigliò l’amo. Questo bisogno di dimostrare la veridicità del mito ci aiuta a decifrare il senso che avevano storia e «documenti storici» nella mentalità arcaica. Tradisce infatti l’importanza attribuita dall’uomo primitivo alle cose che sono realmente avvenute, agli avvenimenti successi in modo concreto intorno a lui; l’appetito del suo spirito per il «reale», per quel che «è» pienamente. Ma, contemporaneamente, la funzione esemplare attribuita a questi avvenimenti dell’illud tempus permette di indovinare l’interessamento dell’uomo arcaico per le realtà significative, creatrici, paradigmatiche. Interessamento che sopravvive ancora nei primi storici del mondo antico, per i quali il «passato» aveva un senso unicamente in quanto era un esempio da imitare, e formava quindi la summa pedagogica dell’umanità intera. Questa missione di «storia esemplare» assegnata al mito dev’essere accostata, per intenderla bene, alla tendenza dell’uomo arcaico a realizzare concretamente un archetipo ideale, a vivere «sperimentalmente» l’eternità fin da questa vita terrena. Aspirazione che abbiamo posto in chiaro analizzando il tempo sacro (§ 155). [TSR, 12, 164]

[…]

Più l’uomo è religioso, più è reale, più si sottrae all’irrealtà di un divenire senza significato. Onde la tendenza dell’uomo a «consacrare» la vita intera. Le ierofanie sacralizzano il Cosmo; i riti sacralizzano la Vita. Questa sacralizzazione si può parimenti ottenere in modo indiretto, trasformando cioè la vita in rituale. «La fame, la sete, la continenza sono nell’uomo (quel che è) la consacrazione (nel sacrificio), dīkṣā. I cibi, le bevande, il piacere corrispondono per lui alle (cerimonie dette) upasada; le risa, la buona tavola, l’amore corrispondono ai cantici e alle recitazioni (stuta-śāstra). La mortificazione (tapas), l’elemosina, l’onestà, il rispetto della vita (ahimsā) e della verità sono per lui donazioni (ai sacerdoti officiantị)». [...]. L’ideale dell’uomo religioso, evidentemente, è di compiere ogni sua azione in maniera rituale, di farne, in altri termini, un sacrificio. In ogni società arcaica o tradizionale, esercitare la propria vocazione significa, per ciascun uomo, compiere un sacrificio di questo genere. Da questo punto di vista, ogni atto si presta a diventare un atto religioso, come ogni oggetto cosmico si presta a diventare ierofania. Come a dire che qualsiasi istante può inserirsi nel Grande Tempo e proiettare l’uomo in piena eternità. L’esistenza umana si realizza dunque simultaneamente su due piani paralleli: quello temporale, del divenire, dell’illusione, e quello dell’eternità, della sostanza, della realtà. [TSR, Conclusioni]


La differenza principale tra l'uomo delle società arcaiche e tradizionali e l'uomo delle società moderne, fortemente segnato dal giudeo-cristianesimo, consiste nel fatto che il primo si sente solidale con il cosmo e con i ritmi cosmici, mentre il secondo si considera solidale solamente con la storia. Certamente, anche per l'uomo delle società arcaiche il cosmo ha una « storia », se non altro perché il cosmo è la creazione degli dèi e si ritiene che sia stato organizzato da Esseri soprannaturali o da eroi mitici. Ma questa « storia » del cosmo e della società umana è una « storia sacra », conservata e trasmessa dai miti; anzi, è una « storia » indefinitamente ripetibile, nel senso che i miti servono da modelli a cerimonie che riattualizzano periodicamente gli avvenimenti grandiosi accaduti agli inizi del tempo. I miti conservano e trasmettono i modelli esemplari di tutte le attività responsabili degli uomini; in virtù dell'imitazione rituale di questi modelli paradigmatici, rivelati agli uomini nel Tempo mitico, il Cosmo e la società sono periodicamente rigenerati. Si vedranno più avanti le conseguenze che questa riproduzione fedele dei paradigmi e questa ripetizione rituale degli avvenimenti mitici avranno per l'ideologia religiosa dei popoli arcaici; e non è difficile comprendere perché una tale ideologia renda impossibile il sorgere di ciò che noi chiamiamo oggi una « coscienza storica ». [MER, Prefazione all'edizione italiana]

[...]

consideriamo solo un fatto: ogni territorio occupato con lo scopo di abitarvi o di utilizzarlo come « spazio vitale » è prima di tutto trasformato da « caos » in « cosmos »; cioè, per effetto del rituale gli viene conferita una « forma » che lo fa così divenire reale. Evidentemente la realtà si manifesta, per la mentalità arcaica, come forza, efficacia e durata. Perciò il reale per eccellenza è il sacro, poiché soltanto il sacro è in un modo assoluto, agisce efficacemente, crea e fa durare le cose. Gli innumerevoli gesti di consacrazione — degli spazi, degli oggetti, degli uomini, ecc. — tradiscono l'ossessione del reale, la sete del primitivo per l'essere. [MER, pp. 24-25]

[...]

Ogni rituale ha un modello divino, un archetipo; questo fatto è sufficientemente noto, così che possiamo limitarci a richiamare pochi esempi. « Dobbiamo fare quello che gli dèi fecero all'inizio » (Qatapatha Bràhmana, 7,2,1,4). « Così hanno fatto gli dèi, così fanno gli uomini » (Taittiriya Bràhmana, 1,5,9,4). Questo effato indù riassume tutta la teoria soggiacente ai rituali di tutti i paesi, teoria che troviamo sia presso i popoli così detti « primitivi » che nelle culture evolute. Gli aborigeni del sud-est dell'Australia, per esempio, praticano la circoncisione con un coltello di pietra perché così i loro antenati mitici hanno loro insegnato; anche i negri Amazulu fanno così perché Unkulunkulu (eroe civilizzatore) ha stabilito in illo tempore: « Gli uomini devono essere circoncisi per non essere simili ai bambini ». La cerimonia Hako degli indiani Pawnee è stata rivelata ai sacerdoti da Tirawa, il Dio supremo, all'inizio dei tempi. Presso i Sakhalaves del Madagascar, « tutte le usanze e le cerimonie familiari, sociali, nazionali e religiose devono essere osservate in conformità del lilin-draza, cioè dei costumi stabiliti e delle leggi non scritte ereditate dagli antenati... ». È inutile moltiplicare gli esempi; si suppone che tutti gli atti religiosi siano stati fondati dagli dèi, dagli eroi civilizzatori o dagli antenati mitici. Di passaggio sottolineiamo che presso i « primitivi » non soltanto i rituali hanno il loro modello mitico, ma qualsiasi azione umana acquista la propria efficacia nella misura in cui ripete esattamente un'azione compiuta all'inizio dei tempi da un dio, da un eroe, o da un antenato. Ritorneremo alla fine di questo capitolo sulle azioni esemplari che gli uomini ripetono incessantemente.

Tuttavia, diremmo noi, una tale « teoria » non giustifica soltanto il rituale nelle culture « primitive ». Nell'Egitto degli ultimi secoli, per esempio, la potenza del rito e del verbo che possedevano i sacerdoti era dovuta all'imitazione del gesto primordiale del dio Thot, che aveva creato il mondo con la forza del suo Verbo. La tradizione iranica sa che le feste religiose sono state instaurate da Ohrmazd per commemorare la tappa della creazione del cosmo, che durò un anno. Alla fine di ogni periodo, che rappresenta rispettivamente la creazione del cielo, delle acque, della terra, delle piante, degli animali, e dell'uomo, Ohrmazd si riposò per cinque giorni istituendo così le principali feste mazdee (cfr. Bundahishn, 1,A,18 ss.). L'uomo non fa che ripetere l'atto della creazione, il suo calendario religioso commemora nello spazio di un anno tutte le fasi cosmogoniche che vi sono state ab origine. Infatti l'anno sacro riprende incessantemente la creazione, l'uomo diviene contemporaneo della cosmogonia e dell'antropogonia perché il rituale lo proietta all'epoca mitica dell'inizio. Un seguace di Bacco, con i suoi riti orgiastici, imita il dramma patetico di Dionisio; un orfico, con il suo cerimoniale iniziatico, ripete i gesti originali di Orfeo, ecc.

Anche il sabato giudaico-cristiano è ancora una imitatio Dei; il riposo del sabato riproduce il gesto primordiale del Signore, poiché il settimo giorno della creazione Dio « si riposò di tutta l'opera che aveva compiuta » (Gen. 2,1). Il messaggio del Salvatore è prima di tutto un esempio che chiede di essere imitato. Dopo aver lavato i piedi degli apostoli Gesù disse loro: « Vi ho dato un esempio affinché voi facciate come io ho fatto a voi » (Gv. 13,15). L'umiltà non è che una virtù; ma quella che si esercita secondo l'esempio del Salvatore è un atto religioso e un mezzo di salvezza: « Come io vi ho amato, anche voi amatevi gli uni gli altri » (Gv. 13,34; 15,12). Questo amore cristiano è consacrato dall'esempio di Gesù, la sua pratica attuale annulla il peccato della condizione umana e divinizza l'uomo. Colui che crede in Gesù può fare ciò che egli ha fatto; i suoi limiti e le sue impotenze vengono abolite: « Colui che crede in me, farà anch'egli le opere che faccio io »... (Gv. 14,12). La liturgia è precisamente una commemorazione della vita e della passione del Salvatore. Vedremo poi come questa commemorazione è in effetti una riattualizzazione « di quel tempo ». [MER, pp. 39-41]

[...]

Ognuno degli esempi citati in questo capitolo ci rivela la medesima concezione ontologica « primitiva »: un oggetto o un atto diventa reale soltanto nella misura in cui imita o ripete un archetipo. Così, la realtà si acquista esclusivamente in virtù di ripetizione o di partecipazione; tutto quello che non ha un modello esemplare è « privo di senso », cioè manca di realtà. Gli uomini avrebbero quindi tendenza a divenire archetipici e paradigmatici. Questa tendenza può sembrare paradossale, nel senso che l'uomo delle culture tradizionali si riconosce come reale soltanto nella misura in cui cessa di essere se stesso (per un osservatore moderno) e si contenta di imitare o di ripetere i gesti di un altro. In altre parole, egli si riconosce come reale, cioè come « veramente se stesso », soltanto nella misura in cui cessa proprio di esserlo. Si potrebbe quindi dire che questa ontologia « primitiva » ha una struttura platonica e Platone potrebbe essere considerato in questo caso come il filosofo per eccellenza della « mentalità primitiva », cioè come il pensatore che è riuscito a valorizzare filosoficamente i modi d'essere e di comportamento dell'umanità arcaica. Evidentemente l'« originalità » del suo genio filosofico non ne viene per nulla sminuita; infatti il grande merito di Platone consiste nello sforzo di giustificare teoricamente questa visione dell'umanità arcaica con i mezzi dialettici che la spiritualità della sua epoca gli offriva.

Ma lo scopo che ci siamo prefìssi non riguarda questo aspetto della filosofia platonica, ma mira all'ontologia arcaica. Riconoscere la struttura platonica di questa ontologia non potrebbe condurci lontano. Molto importante è la seconda conclusione che si sprigiona dall'analisi dei fatti citati nelle pagine precedenti, cioè l'abolizione del tempo per mezzo dell'imitazione degli archetipi e della ripetizione dei gesti paradigmatici. Per esempio, un sacrificio non soltanto riproduce esattamente il sacrificio iniziale rivelato da un dio ab origine, all'inizio dei tempi, ma avviene anche in quel medesimo momento mitico primordiale; in altri termini, ogni sacrificio ripete il sacrificio iniziale e coincide con esso. Tutti i sacrifici sono compiuti nel medesimo istante mitico dell'Inizio; per mezzo del paradosso del rito il tempo profano e la durata sono sospesi. Ed è così anche per tutte le ripetizioni, cioè per tutte le imitazioni degli archetipi: attraverso questa imitazione l'uomo è proiettato nell'epoca mitica in cui gli archetipi sono stati rivelati per la prima volta. Cogliamo quindi un secondo aspetto dell'ontologia primitiva: nella misura in cui un atto (o un oggetto) acquista una determinata realtà per mezzo della ripetizione di gesti paradigmatici e solamente per questo, vi è l'abolizione implicita del tempo profano, della durata, della « storia » e colui che riproduce il gesto esemplare si trova così trasportato nell'epoca mitica, in cui avvenne la rivelazione di quel gesto esemplare.

L' abolizione del tempo profano e la proiezione dell'uomo nel tempo mitico avvengono, naturalmente, soltanto a intervalli essenziali, cioè nel momento in cui l'uomo è veramente se stesso: al momento dei rituali o degli atti importanti (nutrizione, generazione, cerimonie, caccia, pesca, guerra, lavoro, ecc.). Il resto della sua vita scorre nel tempo profano e svuotato di significato: nel « divenire ». I testi bramanici pongono molto chiaramente in luce la eterogeneità dei due tempi, sacro e profano, e della modalità degli dèi, legata alla « immortalità », e di quella dell'uomo, legata alla « morte ». Nella misura in cui ripete il sacrificio archetipico, il sacrificante in piena operazione cerimoniale abbandona il mondo profano dei mortali e si inserisce nel mondo divino degli immortali. Lo dichiara peraltro in questi termini: « Io ho raggiunto il cielo, gli dèi, sono divenuto immortale! » (Taittirîya Samhitâ, 1,7,9). Se egli discendesse allora nel mondo profano, che ha abbandonato durante il rito, senza una determinata preparazione, morrebbe sul colpo; per questo vari riti di desacralizzazione sono indispensabili per reintegrare il Sacrificante nel tempo profano. È così anche per l'unione sessuale cerimoniale; l'uomo cessa di vivere nel tempo profano e privo di senso, poiché imita un archetipo divino (« Io sono il cielo, tu sei la terra », ecc.: Brhaddranyaka Upanìsad, 6,4,20). Il pescatore melanesiano, quando prende il largo, diventa l'eroe Aori e si trova proiettato nel tempo mitico, nel momento in cui avvenne il viaggio paradigmatico. Come lo spazio profano viene abolito dal simbolismo del centro che proietta un qualunque tempio, palazzo o edificio nello stesso punto centrale dello spazio mitico, così una qualsiasi azione, fornita di senso, compiuta dall'uomo arcaico, qualsiasi azione reale, cioè qualsiasi ripetizione di un gesto archetipico, sospende la durata, abolisce il tempo profano e partecipa del tempo mitico.

Questa sospensione del tempo profano corrisponde a una necessità profonda per l'uomo arcaico e avremo occasione di constatarlo nel capitolo seguente, quando esamineremo una serie di concezioni parallele in relazione con la rigenerazione del tempo e con il simbolismo dell'anno nuovo. Comprenderemo allora il significato di questa necessità e vedremo per prima cosa che l'uomo delle culture arcaiche difficilmente sopporta la « storia » e si sforza di abolirla periodicamente. [MER, pp. 55-58]

[...]

Sia nell'Oriente antico che in tutte le tradizioni mediche « popolari », dell'Europa o altrove, un rimedio diventa efficace soltanto se si conosce la sua origine e se, di conseguenza, si rende la sua applicazione contemporanea al momento mitico della sua scoperta. Ecco perché, in un così grande numero di incantesimi, si ricorda la « storia » della malattia o del demone che la provoca, evocando contemporaneamente l'istante in cui una divinità o un santo è riuscito a domare il male. Così, ad esempio, un incantesimo assiro contro il mal di denti ricorda che « dopo che Anu ebbe fatti i cieli, i cieli fecero la terra, la terra fece i fiumi, i fiumi fecero i canali, i canali fecero gli stagni, gli stagni fecero il verme ». E il verme si presenta « in lacrime » davanti a Shamash e ad Ea e chiede loro che cosa gli verrà dato da mangiare, da « distruggere ». Gli dèi gli offrono frutti ma il verme domanda loro dei denti umani. « Poiché hai parlato così, o verme, Ea ti distrugga con la sua mano potente! ». Assistiamo in questo caso non solamente a una semplice ripetizione del gesto guaritore paradigmatico (distruzione del verme da parte di Ea) che assicura l'efficacia del trattamento, ma anche alla « storia » mitica della malattia, con il ricordo della quale il medico proietta il paziente in illo tempore. [MER, pp. 113-114, E. De Martino in “Sud e magia” ripropone questa tesi a propostito degli incantesimi magici che hanno come base una storia archetipica esemplare]

[...]

Ai livelli arcaici di cultura, la religione mantiene l'« apertura » verso un Mondo sovrumano, il mondo dei valori assiologici. Questi sono « trascendenti », essendo stati rivelati da Esseri divini oppure da Antenati mitici. Essi sono, di conseguenza, valori assoluti, paradigmi di tutte le attività umane. Come si è visto, questi modelli sono mantenuti nei miti, a cui spetta soprattutto risvegliare e conservare la coscienza di un altro mondo, di un aldilà, mondo divino, o mondo degli Antenati. Questo altro « mondo » rappresenta un piano sovrumano, « trascendente », quello delle realtà assolute. Nell'esperienze del sacro, nell'incontro con una realtà sovrumana, nasce l'idea che qualcosa esiste realmente, che esistono dei valori assoluti, capaci di guidare l'uomo e di dare un significato all'esistenza umana. Attraverso l'esperienza del sacro, dunque, si mettono in luce le idee di realtà, di verità, di significato, che saranno ulteriormente elaborate e sistematizzate dalle speculazioni metafisiche.

Il valore apodittico del mito è riconfermato periodicamente dai rituali. Il ricordo e la riattualizzazione dell'avvenimento primordiale aiutano l'uomo « primitivo » a distinguere e a conservare il reale. In virtù della ripetizione continua di un gesto paradigmatico, qualche cosa si rivela come fissa e durevole nel flusso universale. Con la ripetizione periodica di ciò che è stato fatto in illo tempore, si impone la certezza che qualche cosa esiste in modo assoluto. Questo « qualche cosa » è « sacro », cioè sovrumano e sovramondano, ma accessibile all'esperienza umana. La « realtà » si svela e si lascia costruire partendo da un livello « trascendente », ma da un « trascendente » suscettibile di essere vissuto ritualmente e che finisce per fare parte integrante della vita umana.

Questo mondo « trascendente » degli Dei, degli Eroi e degli Antenati mitici è accessibile perché l'uomo arcaico non accetta l'irreversibilità del Tempo. L'abbiamo constatato spesso: il rituale abolisce il Tempo profano, cronologico, e ricupera il Tempo sacro del mito. Si ridiventa contemporanei delle gesta che gli Dei hanno compiuto in illo tempore. La rivolta contro l'irreversibilità del Tempo aiuta l'uomo a « costruire la realtà » e, d'altra parte, lo libera dal peso del Tempo morto, gli dà la certezza che è in grado di abolire il passato, di ricominciare la sua vita e di ricreare il suo Mondo.

L'imitazione dei gesti paradigmatici degli Dei, degli Eroi e degli Antenati mitici non si traduce in una « eterna ripetizione della stessa cosa », in un'immobilità culturale completa. L'etnologia non conosce neppure un popolo che non abbia cambiato nel corso del tempo, che non abbia avuto una « storia ». A prima vista, l'uomo delle società arcaiche non fa che ripetere indefinitamente lo stesso gesto archetipico. In realtà, egli conquista infaticabilmente il mondo, lo organizza, trasforma il paesaggio naturale in ambiente culturale. In virtù del modello esemplare rivelato dal mito cosmogonico, l'uomo diviene, a sua volta, creatore. Mentre sembrerebbero destinati a paralizzare l'iniziativa umana, presentandosi come modelli intangibili, i miti in realtà spingono l'uomo a creare, aprono continuamente nuove prospettive al suo spirito inventivo. [cfr. il demartiniano "stare nella storia come se non ci si stesse", tag "destorificazione"]

Il mito garantisce all'uomo che ciò che si accinge a fare è già stato fatto, lo aiuta a scacciare i dubbi che potrebbe concepire sul risultato della sua iniziativa. Perché esitare davanti a una spedizione marittima, dal momento che l'Eroe mitico l'ha già compiuta in un tempo favoloso? Non si deve fare altro che seguire il suo esempio. Allo stesso modo: perché aver paura di stanziarsi in un territorio sconosciuto e selvaggio, dal momento che si sa ciò che si deve fare? Basta, molto semplicemente, ripetere il rituale cosmogonico, e il territorio sconosciuto (= il « Caos ») si trasforma in Cosmo, diventa un'imago mundi, un'« abitazione » ritualmente legittimata. L'esistenza di un modello esemplare non ostacola affatto il processo creativo: il modello mitico può avere applicazioni illimitate.

L'uomo delle società in cui il mito è cosa vivente, vive in un mondo « aperto », anche se « cifrato » e misterioso. Il Mondo « parla » all'uomo e, per comprendere questo linguaggio, basta conoscere i miti e decifrare i simboli. Attraverso i miti e i simboli della Luna l'uomo coglie la misteriosa connessione fra temporalità, nascita, morte e risurrezione, sessualità, fertilità, pioggia, vegetazione e così via. Il Mondo non è più una massa opaca di oggetti arbitrariamente gettati assieme, ma un Cosmo vivente, articolato e significativo. In ultima analisi, il Mondo si rivela come linguaggio. Parla all'uomo con il proprio modo d'essere, con le sue strutture e i suoi ritmi.

L'esistenza del Mondo è il risultato di un atto divino di creazione, le sue strutture e i suoi ritmi sono il prodotto degli avvenimenti che sono accaduti agli inizi del Tempo. La Luna ha la sua storia mitica, ma l'hanno anche il Sole e le Acque, le piante e gli animali. Ogni oggetto cosmico ha una « storia ». Ciò vuol dire che è capace di « parlare » all'uomo. E, poiché « parla » di se stesso, in primo luogo della sua « origine », dell'avvenimento primordiale, in seguito al quale è venuto ad esistenza, l'oggetto diventa reale e significativo. Non è più uno « sconosciuto », un oggetto opaco, insondabile e sprovvisto di significato, in breve, irreale, ma partecipa dello stesso « Mondo » dell'uomo.

Una tale compartecipazione rende il Mondo non solamente « familiare » e intelligibile, ma anche trasparente. Attraverso gli oggetti di questo Mondo si colgono le vestigia degli Esseri e delle potenze di un altro mondo. Per questa ragione dicevamo più sopra che per l'uomo arcaico il Mondo è nello stesso tempo « aperto » e misterioso. Parlando di se stesso, il Mondo rinvia ai suoi autori e protettori, e racconta la sua « storia ». L'uomo non si trova in un mondo incerto e opaco e, d'altra parte, decifrando il linguaggio del Mondo, è messo a confronto col mistero. La Natura infatti svela e traveste nello stesso tempo il « soprannaturale », e in ciò consiste, per l'uomo arcaico, il mistero fondamentale e irriducibile del Mondo. I miti rivelano tutto ciò che è accaduto, dalla cosmogonia fino alla fondazione delle istituzioni socio-culturali, ma queste rivelazioni non costituiscono una « conoscenza » nel senso stretto del termine, non esauriscono assolutamente il mistero delle realtà cosmiche e umane. E ciò perché l'uomo, apprendendone il mito d'origine, giunge a padroneggiare diverse realtà cosmiche (il fuoco, i raccolti, i serpenti, ecc.), ma non a trasformarle in « oggetti di conoscenza »; queste realtà continuano a conservare la loro condizione ontologica originaria.

[...]

In un mondo simile, l'uomo non si sente rinchiuso nel suo modo d'esistenza; anch'egli è « aperto », comunica con il Mondo, perché utilizza lo stesso linguaggio: il simbolo. Se il Mondo gli parla attraverso i suoi astri, le sue piante e i suoi animali, i suoi fiumi e i suoi monti, le sue stagioni e le sue notti, l'uomo gli risponde con i suoi sogni e la sua vita immaginativa, con i suoi Antenati oppure i suoi totem — ad un tempo Natura, sovranatura ed esseri umani, — con la sua capacità di morire e risuscitare ritualmente nelle cerimonie di iniziazione (né più, né meno della Luna e della vegetazione), con il suo potere di incarnare uno spirito mettendosi una maschera, ecc. Se il Mondo è trasparente per l'uomo arcaico, anche questo si sente « guardato » e compreso dal Mondo. La selvaggina lo guarda e lo comprende (spesso l'animale si lascia catturare perché sa che l'uomo ha fame), come pure la roccia, o l'albero, o il fiume. Ciascuno ha la sua storia da raccontargli, un consiglio da dargli.

Pur sapendosi essere umano e accettandosi come tale, l'uomo delle società arcaiche sa anche di essere qualche cosa di più. E, per esempio, sa che il suo Antenato è stato un animale, oppure che può morire e ritornare alla vita (iniziazione, trance sciamanica), che può influenzare i raccolti con le sue orgie (che può comportarsi con la sua sposa come il Cielo con la Terra o che può avere la parte del vomere e sua moglie quella del solco). Nelle culture più complesse, l'uomo sa che i suoi respiri sono Venti, che le sue ossa sono simili a montagne, che un fuoco brucia nel suo stomaco, che il suo ombelico può diventare un « Centro del Mondo », ecc.

Non bisogna immaginare che questa « apertura » verso il Mondo si traduca in una concezione bucolica dell'esistenza. I miti dei « primitivi » e i rituali che ne dipendono non ci rivelano un'Arcadia arcaica. Come si è visto, i paleocoltivatori, assumendosi la responsabilità di far prosperare il mondo vegetale, hanno accettato ugualmente la tortura delle vittime a vantaggio dei raccolti, l'orgia sessuale, il cannibalismo, la caccia di teste.

Si tratta di una concezione tragica dell'esistenza, risultato della valorizzazione religiosa della tortura e della morte violenta. [MR, pp. 173-178]
 

Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, 2014 (1 ed. or. francese, 1948); Il mito dell'eterno ritorno, Borla, 1975 (1 ed. francese, 1949); Mito e realtà, Borla,1966 (1 ed. americana, 1964)

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