Relativisti vs anti-relativisti nella cultura d'oggi

I relativisti partono da un'ipotesi: i fatti di per sé non ci dicono nulla di preciso perché conta solo il modo di vederli; in altre parole, valgono le interpretazioni che noi ne diamo. I più radicali fra loro, vicini all'idealismo filosofico, sostengono addirittura che un fatto qualsiasi (un'eclisse, una gazzella che corre, un sasso che cade) non esiste indipendentemente da come lo recepiamo nella coscienza. Se noi diciamo che il fatto è là, essi affermano, è solo perché prima stava nella nostra mente. Nell'insieme, i relativisti tendono a valorizzare tutte le convinzioni soggettive e le credenze, anche quelle che appaiono più marginali, perché – dicono – non esiste un'unità di misura esterna alle credenze stesse, atta a valutarne la fondatezza.

Per quanto concerne le scienze esatte, sono convinti che le leggi di natura (per esempio: E=Mc²) non siano nelle cose, ossia nella natura, ma nella nostra testa; e che cioè siano nostre descrizioni, le quali possono variare a seconda dei tempi e delle culture. Il relativista, infatti, è portato a credere che le conoscenze siano soltanto modi concordati di vedere le cose e, al limite, siano soltanto opinioni; di conseguenza, ha scarsa fiducia in concetti come «prova» e «verifica». È, insomma, un possibilista estremo; oltre che, naturalmente, uno scettico.

Per le scienze umane, il ragionamento è molto simile. Il relativista ritiene che non esista alcun criterio per affermare che taluni assetti sociali – o taluni stili comportamentali – siano migliori di altri. Pochissimo incline a esprimere giudizi su popoli o su persone, il relativista non ama credere che vi siano intere collettività poco istruite, per esempio perché afflitte da analfabetismo, e neppure parla mai di persone ignoranti. A suo parere, invece, esistono solo tante culture, tutte uguali di dignità, alcune delle quali assai diverse da quella occidentale, così come esistono tanti individui alcuni dei quali seguono valori differenti dai nostri nella loro vita quotidiana. In quest'ottica nessuno è migliore di nessun altro, nessuno realmente svantaggiato, nessuno mai realmente diminuito nelle proprie caratteristiche di persona. Dunque l'idea è questa: abitualmente ci vediamo diversi solo perché abbiamo punti di vista diversi. Coerentemente a questo principio ultra-egualitarista, molti relativisti ritengono che sia sbagliato parlare di minorazioni, ossia di handicap, per esempio una mano amputata, due gambe paralizzate, la cecità, la sordità, una intelligenza inferiore alla norma; e negano che si possa parlare di soggetti minorati, o disabili o handicappati. Quelle sono persone, invece, «diversamente abili», ovvero abili se considerate da un altro punto di vista. (L'idea ha avuto molto successo ovunque, ma soprattutto negli Stati Uniti.)

Fra le giustificazioni a questo tipo di filosofia ve n'è una particolarmente semplice, sostenuta in genere dai giovani, che suona come segue. Se noi finalmente capissimo che tutti gli stili di vita esistenti al mondo hanno lo stesso valore, se noi ci convincessimo che non esistono idee giuste e idee sbagliate ma solo punti di vista differenti, se un bel giorno ci rendessimo conto che tutti gli esseri umani, anche quelli con l'etichetta di pazzi o di minorati, sono realmente uguali e che quelle etichette sono false, finalmente regnerebbe l'armonia. Fine delle discriminazioni, niente più intolleranza e neppure invidia.

[…]

Dal lato opposto della barricata troviamo, su una posizione anti-relativista, il realista, o meglio l'empirista, forse il meno raffinato dei due ma certamente il più concreto, al quale accade di dover fare dei discorsi un po' pedanti. Egli ricorda innanzitutto che gli antichi greci avevano già chiara la distinzione fra opinione (doxa) e conoscenza (epistème). Il realista spiega che la velocità della luce era sicuramente di 300.000 km/sec anche prima che la misurassimo e che la realtà naturale esisteva, con le sue regolarità e le sue leggi, molto prima di venire osservata dall'uomo. Anzi, sostiene che se gli abitanti di un lontano pianeta volessero costruire aerei e razzi dovrebbero essere giunti per proprio conto alle stesse identiche formule che noi troviamo scritte nei nostri libri di fisica. Inoltre fa osservare che concetti come «prova» e «verifica» sono talmente validi da costituire il fondamento della vita pratica di tutti noi, relativisti compresi, per esempio quando dobbiamo capire dov'è il guasto in una radio che non funziona o quando decidiamo se votare o no a favore di un primo ministro che ci ha raccontato delle frottole alla televisione. Su queste premesse, egli dà più ascolto al parere degli esperti e delle persone istruite che a quello di chi non si è documentato e non dispone di un buon livello di istruzione. Inoltre, sul terreno della vita collettiva, non pensa affatto che tutte le società siano uguali ed è anzi convinto che alcune siano migliori di altre, per cui ritiene che il liberalismo in economia, l'indipendenza della magistratura, la democrazia parlamentare, una netta separazione fra lo Stato e le Chiese e la promozione delle scienze garantiscano, nell'insieme, assetti sociali superiori a tutti gli altri finora escogitati dall'uomo. Infine, è convinto che sia giusto e necessario distinguere comportamenti più sani e normali da altri meno sani e meno normali.

Questo modo di vedere le cose presenta l'inconveniente di apparire rigido, selettivo e non discriminante, poco tollerante e anche un po' terra-terra: ma nell'insieme, come risulterà più chiaro da varie argomentazioni in questo libro, ciò che il realista sostiene è più fondato, e più giusto e vero, di ciò che sostiene il relativista. Ciò non toglie che […] il relativista possa disporre di argomenti efficaci: ma questo non significa che siano tutti validi. [pp. 35-39]

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Anche rimanendo fermi al terreno della quotidianità e magari all'atmosfera del salotto borghese, non soltanto il relativismo è la sola posizione filosofica che non viene mai messa in discussione dai relativisti, ma sembra che il relativista come singolo individuo, e soprattutto come filosofo, ci tenga a essere sempre un passo più avanti dei suoi interlocutori. Egli ama far credere che la saggezza stia nelle domande, non negli eventuali tentativi di risposta. Questo tipo di teorizzatore si fa incoraggiare, nel suo atteggiamento critico-destrutturante (o, come si usa dire, «decostruttivo»), da una motivazione psicologica che non è affatto distruttiva, e neppure sciocca: il risultato dell'intera operazione è autopromozionale e definisce un ruolo maieutico non privo di fascino. A volte gli è facile presentare la propria intelligenza come superiore alle altre; altre volte invece, qualora non desideri far leva sulla razionalità, utilizza un esibito «non sapere» e un «tutto accettare» per far capire di essere l'ultimo e il migliore dei saggi. Se le certezze sono tutte deboli, se ogni senso della realtà è debole [...], e se magari anche l'io è debole, allora sembra che qualcosa di forte venga pur sempre implicitamente salvato: un ruolo di guida. Se nulla è certo e tutto è in frantumi, il relativista come persona rimane l'unica guida nell'incertezza, l'arbitro nella frammentazione che egli stesso ha promosso.

E davvero, si potrebbe concluderne, se tutto ciò che era certo si è ormai «sciolto nell'aria» non resta che affidarsi ai santoni. Nel concreto della vita sociale, del resto, i relativisti non hanno ritegno a coltivare questa immagine. Difficilmente, poi, incontrano obbiezioni: è abbastanza raro che venga messo in discussione il loro diritto di porsi come guru intellettuali post-moderni. Come guide, del resto, capita che svolgano con qualche efficacia la loro funzione; noti personaggi – relativisti di successo – che predicavano un io debole, una volta conosciuti da vicino dimostravano di averne uno piuttosto forte. [pp. 64-65]



Giovanni Jervis, Contro il relativismo, Laterza, 2005.

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