Il simbolismo delle pietre

Per la coscienza religiosa del primitivo, la durezza, la ruvidità e la permanenza della materia sono una ierofania. Non v’è nulla di più immediato e di più autonomo nella pienezza della sua forza, e non v’è nulla di più nobile e di più terrificante della roccia maestosa, del blocco di granito audacemente eretto. Innanzitutto, la pietra è. Rimane sempre se stessa e perdura; cosa più importante di tutte, colpisce. Ancor prima di afferrarla per colpire, l’uomo urta contro la pietra, non necessariamente col corpo, ma per lo meno con lo sguardo. In questo modo ne constata la durezza, la ruvidità e la potenza. La roccia gli rivela qualche cosa che trascende la precarietà della sua condizione umana: un modo di essere assoluto. La sua resistenza, la sua inerzia, le sue proporzioni, come i suoi strani contorni, non sono umani: attestano una presenza che abbaglia, atterrisce e minaccia. Nella sua grandezza e nella sua durezza, nella sua forma o nel suo colore, l’uomo incontra una realtà e una forza appartenenti a un mondo diverso da quel mondo profano di cui fa parte.

Non saprei dire se gli uomini hanno mai adorato le pietre in quanto tali. La devozione del primitivo si riferisce sempre, in ogni caso, a qualche cosa di diverso, che la pietra incorpora ed esprime. Una roccia, un ciottolo sono oggetto di rispettosa devozione perché rappresentano o imitano qualche cosa, perché vengono da qualche posto. Il loro valore sacro è dovuto esclusivamente a questi qualche cosa e qualche posto, mai alla loro stessa esistenza. Gli uomini hanno adorato le pietre soltanto nella misura in cui rappresentavano una cosa diversa da esse. Le hanno adorate o se ne sono serviti come strumenti di azione spirituale, come centri di energia destinati alla difesa propria o a quella dei loro morti. E ciò avveniva, è bene dirlo subito, perché le pietre con incidenza cultuale erano in maggioranza utilizzate come strumenti: servivano a ottenere qualche cosa, ad assicurarne il possesso. La loro funzione era magica più che religiosa. Fornite di certe virtù sacre dovute all’origine o alla forma, erano non adorate ma utilizzate.

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Di conseguenza, il culto non è rivolto alla pietra in quanto sostanza materiale, bensì allo spirito che l’anima, al simbolo che la consacra. La pietra, la roccia, il monolito, il dolmen, il menhir ecc. diventano sacri grazie alla forza spirituale di cui portano il segno. Dato che ci troviamo nello spazio culturale dell’«antenato», del morto «fissato» nella pietra per diventare strumento di difesa e di accrescimento della vita, aggiungiamo ancora qualche esempio. In India, gli sposi si rivolgono ai megaliti per avere figli. Le donne sterili di Salem (India meridionale) credono che nei dolmen abitino gli antenati capaci di fecondarle, e per questo si strofinano contro la pietra dopo aver deposto offerte (fiori, sandalo e riso cotto). Le tribù dell’Australia centrale hanno concezioni simili. Spencer e Gillen citano il caso di una grande roccia chiamata Erathipa, che ha un’apertura laterale da cui le anime dei bambini, rinchiuse nella roccia, spiano il passaggio delle donne, per poter rinascere in loro. Quando le donne che non vogliono figli si trovano nelle vicinanze della roccia, si fingono vecchie e camminano appoggiate al bastone, gridando: «Non venire da me, sono vecchia!» Le donne sterili della tribù Maidu (California settentrionale) toccano una roccia che somiglia a una donna gravida. Nell’isola di Kai (Sud-Ovest della Nuova Guinea) la donna che desidera figli unge di grasso una pietra. La stessa usanza la ritroviamo nel Madagascar. È interessante notare che le stesse «pietre fecondatrici» sono unte d’olio anche dai commercianti, perché i loro affari prosperino. In India c’è la credenza che certe pietre sono nate e si riproducono da sé (svayambhū = «autogenesi»); per questo sono ricercate e venerate dalle donne sterili, che recano loro offerte. In certe regioni d’Europa e del mondo, gli sposi novelli camminano sopra una pietra perché la loro unione sia feconda. I Samoiedi pregano davanti a una pietra di forma strana, che si chiama pyl-paja («la donna-pietra») e gli fanno offerte di oro.

L’idea implicita in tutti questi riti è che certe pietre possono fecondare le donne sterili, sia grazie allo spirito dell’antenato che vi abita, sia in virtù della loro forma («donna gravida», «donna di pietra») o della loro origine (svayambhū, «autogenesi»). Ma la «teoria» che diede origine a queste pratiche o le giustificò, non sempre si è conservata nella coscienza di chi ancora continua a osservarle. Talvolta la «teoria» originaria è stata sostituita o modificata da una teoria diversa; qualche volta è completamente caduta in dimenticanza, in seguito a qualche rivoluzione religiosa. Ricordiamo qualche esempio di quest’ultimo caso. Deboli vestigia di un culto dei megaliti, rocce o dolmen, sopravvivenza delle pratiche di «fecondazione» per contatto con pietre, sussistono ancora ai giorni nostri nelle credenze popolari europee. Questa devozione è molto vaga; nel cantone di Moutiers (Savoia), la popolazione manifesta «un timore religioso e un pio rispetto» per la «Pierra Chevetta» (Pietra della Civetta), senza sapere di lei altro che questo: protegge il villaggio e, finché durerà, né il fuoco né l’acqua potranno farle del male. Nel cantone di Sumène (dipartimento del Gard) i contadini temono i dolmen e li evitano. Le donne del cantone di Annecy-sud dicono un Pater e un’Ave Maria quando passano accanto a un mucchio di pietre che si chiama «il Morto». Ma questo timore si spiega con la credenza che vi sia seppellito qualcuno.

Nella stessa regione, le donne si inginocchiano, si fanno il segno della croce e gettano un sasso sopra il tumulo che coprirebbe il cadavere di un pellegrino assassinato, o sepolto da una frana. Si incontra un’usanza simile in Africa. Gli Ottentotti gettano sassi sulla tomba del demiurgo Heitsi Eibib e le popolazioni bantu meridionali praticano lo stesso rituale per il demiurgo Unkulunkulu. Dai precedenti esempi risulta che la devozione o il timore religioso ispirato dai megaliti è sporadico in Francia, e dovuto, nella maggior parte dei casi, a ragioni diverse dalla magia della pietra (per es. alla «morte violenta»). La concezione arcaica della fertilità delle pietre consacrate, dolmen, menhir, è del tutto diversa. Ma le pratiche si sono conservate un po’ dappertutto, fino ai nostri giorni.

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L’usanza detta «scivolata» è nota: per avere figli le donne scivolano lungo una pietra consacrata. Altra usanza rituale ancora più diffusa è la «frizione», praticata per ragioni di salute, ma specialmente dalle donne sterili. A Decines (Rodano), ancora in tempi recenti, queste donne si ponevano a sedere sopra un monolito che sta in un campo nella località Pierrefrite. A Saint-Renan (Finisterre) la donna che desiderava un figlio si coricava per tre notti consecutive sopra una grande roccia, «la cavalla di Pietra». Parimenti i novelli sposi, nelle prime notti dopo le nozze, venivano a strofinare il ventre contro quella pietra. La pratica si ritrova in molte regioni. Altrove, ad esempio nel villaggio di Moédan, cantone di Pont-Aven, le donne che strofinavano il ventre contro la pietra erano sicure di avere figli maschi. Ancora nel 1923 le contadine che venivano a Londra abbracciavano le colonne della cattedrale di San Paolo per avere figli.


Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, 2014 (ed. or. fr. 1948), pp. 195-201. [Ho omesso le note]

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