Tempo sacro, tempo mitico, tempo profano

Il problema trattato in questo capitolo è fra i più ardui della fenomenologia religiosa; difficoltà che non dipende soltanto da una differenza di struttura fra il tempo magico-religioso e il tempo profano, ma anche dal fatto che, presso i popoli primitivi, l’esperienza stessa del tempo, come tale, non sempre equivale all’esperienza del tempo di un occidentale moderno. Sicché da una parte il tempo sacro si contrappone alla durata profana, dall’altra questa durata presenta essa stessa tipi diversi di struttura, a seconda che si tratti di società arcaiche o di società moderne. Non è agevole per ora decidere se tale differenza derivi dal fatto che presso i primitivi l’esperienza del tempo profano non si è staccata ancora dalle categorie del tempo mitico-religioso. Ma è un dato di fatto che tale esperienza del tempo lascia al primitivo un’«apertura» permanente, per così dire, sul tempo religioso. Semplificando l’esposizione e anticipando qualcuno dei risultati del nostro studio, potremmo dire che la struttura stessa dell’esperienza temporale del primitivo lo aiuta a trasformare la durata in tempo sacro. Ma poiché il problema interessa anzitutto l’antropologia filosofica e la sociologia, ce ne occuperemo soltanto nella misura in cui ce lo imporrà la discussione del tempo ierofanico.

Il problema che dobbiamo ora affrontare è il seguente: in cosa un tempo sacro si distingue dalla durata «profana» che lo precede e lo segue? Il termine «tempo ierofanico», come si vedrà fra poco, corrisponde a realtà svariatissime. Può indicare il tempo in cui è situata la celebrazione di un rituale, e che per questo è un tempo sacro, cioè un tempo essenzialmente diverso dalla durata profana che lo precede. Può anche designare il tempo mitico, ora recuperato mediante un rituale, ora realizzato con la pura e semplice ripetizione di azioni che mettono capo a un archetipo mitico. Infine «tempo ierofanico» può designare i ritmi cosmici (ad esempio le ierofanie lunari), in quanto questi ritmi sono considerati rivelazioni — intendiamo manifestazioni, azioni – di una sacralità fondamentale, soggiacente al Cosmo. In questo modo, un momento o una porzione di tempo può diventare ierofanica in qualsiasi momento: basta che vi si produca una cratofania, una ierofania o una teofania, perché esso sia trasfigurato, consacrato, commemorato per effetto della sua ripetizione, e quindi ripetibile all’infinito. Qualsiasi tempo è «aperto» sopra un tempo sacro; in altri termini può rivelare quel che chiameremmo, con formula comoda, l’assoluto, vale a dire il soprannaturale, il sovrumano, il sovrastorico.

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Nella religione, come nella magia, periodicità significa anzitutto utilizzazione indefinita di un tempo mitico, reso presente. Tutti i rituali hanno la capacità di svolgersi adesso, all’istante. Il tempo che vide l’evento commemorato o ripetuto dal rituale è reso presente, «ri-presentato», potremmo dire, per quanto sia immaginato remoto nel tempo. La Passione di Cristo, la sua morte e risurrezione non sono soltanto commemorati durante la Settimana Santa; avvengono realmente allora sotto gli occhi dei fedeli. E un vero cristiano deve sentirsi contemporaneo di tali eventi sovrastorici, poiché il tempo teofanico, ripetendosi, gli diviene presente.

Altrettanto si può dire della magia. Abbiamo visto (§ 111) la fattucchiera che parte in cerca di semplici dicendo: «Andiamo a cogliere le erbe per metterle sulle piaghe del Signore». In virtù del rito magico, la fattucchiera diventa contemporanea della Passione; le erbe che ha colto debbono la loro efficacia al fatto che sono poste (in ogni caso possono essere poste) sulle piaghe del Redentore, o spuntare ai piedi della Croce. La cornice temporale dell’incantesimo appartiene al presente: si racconta che la guaritrice incontra la Madonna o i santi; che la Vergine è informata della malattia di qualcuno e indica il rimedio ecc. Citeremo un solo esempio, tratto dal tesoro particolarmente abbondante del folclore rumeno: «Si riunirono nove fratelli, di nove padri diversi, tutti vestiti compagni, con nove zappe arrotate, con nove accette affilate; andarono fino a mezza strada del ponte di bronzo; là incontrarono Santa Maria; scendeva da una scala di cera e cominciò a interrogarli: "Dove andate, o nove fratelli di nove padri diversi, tutti vestiti compagni? – Andiamo al Monte di Galilea a tagliare l’Albero del Paradiso. – Lasciate stare l’Albero del Paradiso. Andate da Ion per le sue pustole; tagliatele, troncatele e buttatele in fondo al mare”».

La scena è collocata in un tempo mitico, quando l’Albero del Paradiso non era stato ancora tagliato, eppure avviene adesso, nel preciso momento in cui Ion soffre di pustole. L’incantesimo non si contenta d’invocare l’intervento della Vergine, perché tutte le potenze, anche divine, si diluiscono e si perdono appena vengono esercitate entro la durata profana; l’incantesimo instaura un altro tempo, quello magico-religioso, tempo nel quale gli uomini possono andare a tagliare l’Albero del Paradiso, e la Madonna scende in persona da una scala celeste. E l’instaurazione non è allegorica, è reale: Ion e la sua infermità sono contemporanei dell’incontro fra la Vergine e i nove fratelli. Tale contemporaneità con i grandi momenti mitici è condizione indispensabile dell’efficacia magico-religiosa, di qualsiasi natura. [v. analoghe considerazioni di De Martino sugli incantesimi in Sud e magia] Considerato in questa luce, lo sforzo di Kierkegaard per tradurre la condizione di cristiano con la formula «essere contemporaneo di Gesù» si dimostra meno rivoluzionario di quanto a prima vista non sembri; Kierkegaard altro non ha fatto che formulare in termini nuovi un atteggiamento generale e normale dell’uomo arcaico.

Periodicità, ripetizione, eterno presente: questi tre caratteri del tempo magico-religioso concorrono a illuminare il significato della non-omogeneità di questo tempo cratofanico e ierofanico rispetto alla durata profana. Come tutte le altre attività essenziali della vita umana (pesca, caccia, raccolta dei frutti, agricoltura ecc.) che in seguito divennero attività «profane» (mai però completamente), i riti furono rivelati dagli dèi o dagli «antenati». Ogni volta che si ripete il rito, o un atto significativo (caccia ecc.), si imita il gesto archetipale del dio o dell’antenato, il gesto che avvenne all’origine dei tempi, vale a dire in un tempo mitico.

Ma questa ripetizione ha insieme l’effetto di instaurare il tempo mitico degli dèi e degli antenati. Così nella Nuova Guinea, quando un capo marinaro va per mare, personifica il mitico eroe Aori: «porta il costume che vestiva Aori secondo il mito; come lui, ha la faccia tinta di nero e nei capelli un love simile a quello che Aori tolse dalla testa di Iviri. Balla sulla piattaforma e apre le braccia come Aori distendeva le ali... Un pescatore mi disse che quando tirava ai pesci con l’arco, si spacciava per il mitico eroe Kivavia. Non implorava il suo aiuto o il suo favore, si identificava con lui». In altri termini, il pescatore vive nel tempo mitico di Kivavia, come il marinaio che s’identifica con Aori vive nel tempo metastorico dell’eroe. O che diventi l’eroe stesso, o che si faccia soltanto suo contemporaneo, il Melanesiano vive in un presente mitico che non è possibile confondere con nessuna durata profana. Ripetendo un gesto archetipale, si inserisce in un tempo sacro a-storico, inserimento che può avvenire soltanto se il tempo profano è abolito. La notevole importanza di questa abolizione per l’uomo arcaico risulterà più oltre.

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Per mezzo di qualsiasi rituale, e di conseguenza per mezzo di qualsiasi gesto significativo (pesca, caccia ecc.), il primitivo si inserisce nel «tempo mitico». Infatti «l’epoca mitica, dzugur, non deve essere pensata soltanto come un tempo passato, ma anche come un presente e un futuro: come uno stato, oltre che come un periodo». Questo periodo è «creatore», nel senso che allora, in illo tempore, avvenne la creazione e l’organizzazione del Cosmo, nonché la rivelazione, a opera degli dèi, o degli antenati, o degli eroi civilizzatori, di tutte le attività archetipali. In illo tempore, nell’epoca mitica, tutto era possibile. Le «specie» allora non erano ancora fissate, e le forme erano «fluide». (Il ricordo di questa fluidità ha sopravvivenze perfino nelle tradizioni mitologiche elaborate; nella mitologia greca, ad esempio, l’epoca di Urano, quella di Kronos ecc.: cfr. § 23. D’altra parte, la stessa fluidità delle «forme» costituisce, all’estremità opposta del tempo, una delle sindromi dell’eschaton, del momento in cui la «storia» avrà fine e il mondo intero comincerà a vivere in un tempo sacro, nell’eternità. «Allora il lupo abiterà con l’agnello e il leopardo giacerà con il capretto ecc.», Isaia, II, 6 sgg. Allora nec magnos metuent armenta leones, «le mandrie non temeranno più i grandi leoni», Virgilio, Egloga IV, 22).

Non si insisterà mai abbastanza sulla tendenza – osservabile in qualsiasi società, quale che sia il suo grado di evoluzione – a restaurare «quel tempo», il tempo mitico, il Grande Tempo. Poiché tale restaurazione è il risultato di ogni rito e di ogni gesto significativo, senza distinzione. Secondo Van der Leeuw, «un rito è la ripetizione di un frammento del tempo primordiale». E «il tempo primordiale è esemplarmente prima di ogni tempo. Ciò che è accaduto una volta si ripete sempre. Basta conoscere il mito per comprendere la vita». A proposito dell’articolazione e del significato del mito, misureremo l’esatta proporzione di verità contenuta nella formula di Van der Leeuw «basta conoscere il mito per comprendere la vita». Prendiamo atto, per ora, di queste due caratteristiche del tempo mitico (o, secondo i contesti, sacro, magico-religioso, ierofanico): i) la sua ripetibilità (nel senso che ogni azione significativa lo riproduce); 2) il fatto che, quantunque considerato metastorico, posto oltre ogni contingenza, in un certo senso nell’eternità, questo tempo sacro ha nella storia un «principio», cioè il momento in cui la divinità creò il mondo o lo organizzò, il momento in cui l’eroe civilizzatore, l’antenato, hanno rivelato una qualsiasi attività ecc.

Dal punto di vista della spiritualità arcaica, ogni inizio è un illud tempus, e quindi un’apertura sul Grande Tempo, sull’eternità. Marcel Mauss ha veduto bene che «le cose religiose, che avvengono nel tempo, sono legittimamente e logicamente considerate accadenti nell’eternità». Infatti ognuna di queste «cose religiose» ripete all’infinito l’archetipo, cioè ripete quel che avvenne in «principio», nel momento in cui un rito, un gesto religioso, essendo rivelati, si manifestarono contemporaneamente nella storia.

Come dimostreremo più lungamente in seguito, la storia, nella prospettiva della mentalità primitiva, coincide col mito: ogni avvenimento (ogni congiuntura che abbia un senso), per il fatto stesso di prodursi nel tempo, rappresenta una rottura della durata profana e un’invasione del Grande Tempo. Ogni avvenimento, appunto in quanto è avvenuto, è comparso nel tempo, è una ierofania, una «rivelazione». Il paradosso di questo «avvenimento = ierofania» e di questo «tempo storico = tempo mitico» è tale solo in apparenza; per dissipare il paradosso basta mettersi nelle speciali condizioni della mentalità che li concepì. Perché il primitivo, in fondo, trova significato e interesse nelle azioni umane (ad es. lavori agricoli, costumanze sociali, vita sessuale, cultura ecc.) soltanto nella misura in cui dette azioni ripetono i gesti rivelati dalle divinità, dagli eroi civilizzatori o dagli antenati. Tutto quel che non rientra nell’ambito di queste azioni significative, che è privo di un modello trans-umano, non ha nome né importanza. Ma tutte queste azioni archetipali furono rivelate allora, in illo tempore, in un tempo che non potrebbe essere localizzato cronologicamente, nel tempo mitico. Però queste azioni rivelandosi hanno anche creato un «principio», un «avvenimento», che viene a inserirsi nella prospettiva grigia e uniforme della durata profana (durata in cui appaiono e scompaiono gli atti insignificanti) e costruisce così la «storia», la serie degli «avvenimenti che hanno un senso», ben distinta dalla dispersione dei gesti automatici e senza significato. Sicché, per paradossale che sembri, quel che potremmo chiamare la «storia delle società primitive si riduce esclusivamente agli avvenimenti mitici accaduti in illo tempore e che non hanno mai cessato di ripetersi fino ai nostri giorni. Tutto quel che agli occhi di un moderno è realmente «storico», cioè unico e irreversibile, il primitivo lo considera senza importanza, perché non ha un precedente mitico-storico.

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Questa ossessione di rigenerazione si esprime anche nei miti e nelle dottrine del tempo ciclico che abbiamo studiato in Le mythe de l’Éternel Retour. Le credenze in un tempo ciclico, nell’eterno ritorno, nella distruzione periodica dell’Universo e dell’umanità, preparazione di un nuovo Universo e di una nuova umanità «rigenerata», tutte queste credenze dimostrano anzitutto il desiderio e l’aspirazione di una rigenerazione periodica del tempo trascorso, della storia. In fondo questo ciclo è un Grande Anno, per riprendere un’espressione ben nota alla terminologia greco-romana: il Grande Anno cominciava con una Creazione e si chiudeva con un Caos, cioè con una fusione completa di tutti gli elementi. Un ciclo cosmico contiene una «Creazione», un’«esistenza» (= «storia», esaurimento, degenerazione) e un «ritorno al Caos» (ekpyrōsis, ragna-rök, pralaya, «Atlantide», «apocalisse»). Quanto alla struttura, un «Grande Anno» sta all’«anno come questo al «mese» e al «giorno». Ma quel che ci interessa a questo proposito è anzitutto la speranza di una rigenerazione totale del tempo, evidente in tutti i miti e le dottrine che implicano cicli cosmici; ogni ciclo comincia in modo assoluto, perché ogni passato e ogni «storia» sono stati definitivamente aboliti grazie a una reintegrazione folgorante nel «Caos».

Incontriamo dunque nell’uomo, a tutti i livelli, lo stesso desiderio di abolire il tempo profano e di vivere nel tempo sacro. Meglio ancora, ci troviamo di fronte al desiderio e alla speranza di rigenerare il tempo nella sua totalità, cioè di poter vivere – «vivere umanamente», «storicamente» – nell’eternità, mediante la trasfigurazione della durata in un istante eterno. Questa nostalgia dell’eternità è in un certo senso simmetrica alla nostalgia del Paradiso che avevamo scoperto nel capitolo precedente (§ 146). Al desiderio di trovarsi perpetuamente e spontaneamente in uno spazio sacro, corrisponde il desiderio di vivere in perpetuo, grazie alla ripetizione dei gesti archetipali, nell’eternità. La ripetizione degli archetipi evidenzia il desiderio paradossale di conseguire una forma ideale (= l’archetipo) entro le condizioni stesse dell’esistenza umana, di stare nella durata senza portarne il peso, cioè senza subirne l’irreversibilità. [cfr. in De Martino l'espressione "stare nella storia come se non ci si stesse". De Martino è debitore di Eliade su diversi punti] Tale desiderio, osserviamo, non si potrebbe interpretare come atteggiamento «spiritualistico», per il quale l’esistenza terrestre, con tutto ciò che implica, sarebbe svalutata a vantaggio di una «spiritualità» di distacco dal mondo. Anzi, al contrario, quel che potremmo chiamare «nostalgia dell’eternità» attesta che l’uomo aspira a un Paradiso concreto e lo crede conquistabile quaggiù , sulla terra, e adesso, nel momento presente. In questo senso i miti e i riti arcaici legati allo spazio sacro e al tempo sacro si lasciano ricondurre, parrebbe, ad altrettanti nostalgici ricordi di un «Paradiso terrestre» e di una specie di eternità «sperimentale», a cui l’uomo crede di poter ancora rivendicare l’accesso.


Mircea Eliade, Trattato di storia delle religioni, Bollati Boringhieri, 2014 (ed. or. fr. 1948), pp. 351-360 e 370-71 [Ho omesso le note. Sottolineature mie]

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