La necessità dello sfogo emotivo e l'origine delle nevrosi

[A queste considerazioni si possono ricollegare  le osservazioni di De Martino in "Morte e pianto rituale", a proposito della necessità dello sfogo "ordinato" offerto dall'istituzione del lamento funebre]

Ogni stato emotivo tende spontaneamente al proprio annullamento: non vi è dolore per quanto disperato che non si attenui col tempo e si annulli. Volendo tracciare il diagramma (naturalmente schematico e convenzionale) di quello che è il decorso normale, in funzione del tempo, della intensità della reazione emotiva sviluppatasi in base ad un fatto determinato, la curva che in tale diagramma rappresenta quel decorso, ha una prima fase ascendente¹ ed una successiva fase progressivamente discendente.

Ma perché si determini questa fase discendente che caratterizza il comportamento emotivo normale, è necessario che quella reazione non trovi ostacoli per defluire in elementi mimici, motori, e di espressione verbale. Appartiene all'esperienza comune il fatto che chi è oppresso da un grande dolore, ha bisogno di piangere, che il pianto gli concede un certo sollievo, che la impossibilità di piangere rende più intollerabile il dolore. E per altre reazioni emotive la situazione è analoga. Le nostre preoccupazioni ci appariscono più gravi (e noi stessi siamo dunque più preoccupati) se non le possiamo rivelare ad altri. Un accesso di ilarità, anche se causato da situazioni prive di un certo rilievo significativo e di una intrinseca comicità, può perdurare a lungo (ad esempio per tutta la durata di una lezione scolastica) se non ha modo di esplodere nel riso perché inibito: mentre si esaurirebbe in pochi secondi senza quella inibizione. 

Molte delle manifestazioni esteriori del dolore, che si trovano nei costumi dei vari popoli, e negli stessi nostri costumi, che per sé stesse sembrerebbero razionalmente ingiustificate perché consistenti in puri atti formali senza apparente utilità, hanno precisamente una giustificazione nel fatto che in quanto espressioni di dolore, fanno defluire il dolore stesso, ossia, come si dice, lo leniscono, e presentano in tal modo una effettiva utilità per chi soffre. 

Ma anche la semplice espressione verbale (il render partecipi gli altri delle nostre pene interiori) ha una analoga efficacia attenuatrice, per cui si suol dire che noi ci liberiamo, o ci scarichiamo, di ciò che ci opprime, comunicando ad altri il nostro stato di oppressione. Sta precisamente in ciò - anche a prescindere dallo specifico significato religioso che il credente le attribuisce, e da cui egli può in modo particolare attingere serenità di spirito - l'efficacia profilattica (nel senso della cosiddetta igiene mentale) della confessione cattolica.

Se si tien conto di una tale funzione delle manifestazioni esteriori degli stati emotivi - in esse comprese le manifestazioni verbali, e cioè la comunicazione ad altri dei nostri stati interiori - per il progressivo normale annullamento di quegli stati, la tesi di Freud e Breuer circa la possibilità che una situazione a forte rilievo emotivo divenga traumatica, in quanto quelle manifestazioni esteriori siano state inibite, ed in quanto perciò la carica emotiva connessa a quella situazione rimanga a distanza di tempo viva ed efficiente nella coscienza del soggetto, risulta assai più comprensibile.


¹ I grandi dolori, ad esempio, si avvertono nel modo più vivo solo con un certo ritardo rispetto al fatto che li provoca quasi come se il nostro organismo si difendesse dai dolori troppo acuti e troppo improvvisi ed avesse bisogno di una fase di preparazione e di assuefazione.


Cesare L. Musatti, Trattato di psicoanalisi, Boringhieri, 1974 (ed. or. 1949), Vol. I, pp. 35-37. [Ho omesso le altre note contenute in questo brano in quanto esclusivamente bibliografiche].

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