Il bambino del rocchetto e il superamento del dolore per mezzo della creazione artistica

Un bambino di diciotto mesi che ancora non parla, ma solo si serve di alcune sue personali espressioni, intese soltanto nel suo ambiente familiare, si dedica ad un gioco apparentemente incomprensibile. Gli è stato dato per giocare un rocchetto a cui è stato attaccato un filo. Il bambino se ne serve  come di un giocattolo, ma non in quell'uso che apparirebbe più naturale, e che altri bambini della sua età o più grandicelli adotterebbero, e cioè non per trascinarsi dietro il rocchetto tirando il filo. Il bambino lancia invece il rocchetto lontano, in modo che sfugga dietro un mobile e sia invisibile, e poi tirando il filo a sé lo riprende. Il bambino ripete il gioco infinite volte, ed accompagna con espressioni verbali sue personali, sia lo scomparire che il riapparire del rocchetto. Dimostra in particolar modo contentezza quando il rocchetto si rifà visibile. Poi questo gioco è ripetuto con altri oggetti; è per così dire trasferito su altri oggetti. Ma l'elemento essenziale del gioco, l'elemento che viene particolarmente ripetuto, è il nascondere la cosa, il renderla invisibile.

L'analisi delle espressioni verbali primitive che il bambino adopera in questi suoi giochi le rivela identiche a quelle che adopera in altri casi, e cioè in relazione con lo scomparire e il riapparire della madre, quando essa esce, lasciando lui a casa, e quando poi rientra.

Questa ultima situazione era stata nel periodo anteriore al gioco del rocchetto, e all'adozione dell'uso di nascondere oggetti, particolarmente penosa per il bambino. L'esperienza comune mostra del resto come, per i bambini, l'essere lasciati a casa dalla madre che esce, è una delle situazioni che generano i primi grandi dolori della vita infantile. Non c'è bambino che non abbia passato un periodo in cui si è disperato ogni volta che la madre lo lasciava: e solo un po' alla volta i bambini si abituano a sopportare questi distacchi che in certo modo anticipano quelli più radicali e definitivi a cui il bambino dovrà adattarsi più tardi.

Da un lato la coincidenza cronologica della cessazione delle scene di disperazione per l'allontanamento della madre, con il gioco del rocchetto, dall'altra la coincidenza delle espressioni verbali usate dal bambino, hanno permesso a Freud di stabilire una connessione fra le due situazioni. Il rocchetto che scompare e riappare è assunto come simbolo della madre, e il bambino riproduce in questo gioco la partenza della madre.

Questa interpretazione può apparire arbitraria così enunciata; ma la rendono plausibile: da un lato la conoscenza della analogia di comportamento che vi è fra la coscienza infantile e l'inconscio dell'adulto, quale si esprime particolarmente nel comportamento nevrotico, dall'altro la conoscenza dello svariato simbolismo di cui si servono, nel nevrotico, le tendenze inconscie per manifestarsi.

Ammesso questo significato simbolico del gioco del rocchetto e delle sue successive trasformazioni, nel senso di nascondere gli oggetti più svariati, ancora non si comprende però perché il bambino faccia quel gioco, e cioè quale funzione abbia per lui una tale rappresentazione simbolica della situazione penosa della partenza della madre.

La spiegazione di una tale funzione si ha considerando come l'esercizio di questo gioco porti con sé, come conseguenza nel bambino, la scomparsa delle scene di disperazione che accompagnavano prima la partenza della madre. Il bambino riesce cioè ad adattarsi a quella situazione, a superare il dolore che vi è connesso, proprio nel momento in cui ha trovato maniera di riprodurla  col suo gioco.

Ma perché?

Vi è una differenza tra la situazione reale e la riproduzione che si effettua nel gioco.

La situazione reale è subita dal bambino, gli appare qualche cosa di imposto. Nel gioco quella situazione è invece legata alla sua iniziativa: egli stesso la provoca, la padroneggia, la ripete quante volte vuole.

Se si tien conto di questo, possiamo comprendere come precisamente attraverso tale meccanismo il bambino riesca a superare l'elemento doloroso connesso a questa situazione.

In fondo anche gli adulti si comportano talora in modo analogo a questo bambino: e spesse volte quando le circostanze esterne ci costringono ad una data situazione particolarmente penosa per noi, ci difendiamo dalla pena illudendoci di essere noi che volontariamente la affrontiamo e la provochiamo.

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[...] ritornando al gioco del bambino descritto da Freud, molte situazioni infantili sono analoghe. Così spesso bambini che ricevono proibizioni per qualche loro azione e che alla prima proibizione reagiscono con pianti e disperazioni, finiscono col trasformare la proibizione in gioco e così la accettano: accennano cioè ad iniziare quella azione e poi se ne ritraggono pronunciando la formula di divieto usata dagli adulti, o qualcosa di analogo. Simulano cioè di darsi da sé la proibizione: e così si pacificano e si adattano alla rinuncia.

In modo analogo ci si può rendere conto di altre situazioni apparentemente difficili da spiegare: quella ad esempio del poeta, o in genere dell'artista, che fa il proprio dolore o la propria sciagura oggetto di rappresentazione artistica.

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Attraverso l'espressione del dolore e delle proprie sciagure, l'artista si libera, almeno parzialmente, da quel dolore e parzialmente si sottrae alla sciagura. Se ne sottrae perché se ne rende padrone: perché cessa di sentirsi unicamente schiavo e preda della sventura, in quanto riesce a sdoppiarsi, a vedere se stesso che soffre ed a creare così a sé l'immagine si sé sofferente.

Per questo motivo quando l'artista pone mano all'opera sua è già salvato dalla disperazione; poiché nella disperazione vera e assoluta non si ha creazione artistica.


Cesare L. Musatti, Trattato di psicoanalisi, Boringhieri, 1974 (ed. or. 1949), vol. II, pp. 238-241 [Ho tralasciato tutte le note].

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