L'idea della trasmissibilità per via genetica di cognizioni acquisite da generazioni precedenti

Se studiamo le reazioni ai traumi del bambino piccolo, siamo spesso sorpresi di trovare che esse non si attengono strettamente all’effettiva esperienza individuale, ma si allontanano da essa in maniera che s’adatta assai meglio al modello di un evento filogenetico e che, in modo del tutto generale, può essere spiegata solamente mediante un suo influsso. Il contegno del bambino nevrotico verso i genitori nel complesso edipico e in quello di evirazione abbonda di tali reazioni, che individualmente appaiono ingiustificabili e divengono comprensibili solo filogeneticamente, poste in relazione con le esperienze di generazioni precedenti. Metterebbe conto presentare al pubblico l’intero materiale del quale mi posso qui valere. La sua evidenza è secondo me sufficiente per arrischiare ancora un passo e avanzare la tesi che l’eredità arcaica degli uomini non abbraccia solo disposizioni, ma anche contenuti, tracce mnestiche di ciò che fu vissuto da generazioni precedenti. Con questo sia l’estensione che l’importanza dell’eredità arcaica verrebbero accresciute in maniera significativa.

A una più attenta riflessione, debbo confessare che da tempo mi sono comportato come se l’ereditarietà di tracce mnestiche delle esperienze dei progenitori, indipendentemente dalla comunicazione diretta e dall’influsso che esercita l’educazione mediante l’esempio, fosse indiscutibile. Quando parlavo del persistere dell’antica tradizione in un popolo, del formarsi del carattere popolare, avevo in mente soprattutto una simile tradizione ereditata, e non una tradizione propagata per comunicazione. O almeno non ho fatto distinzione tra le due e non mi sono dato chiaramente ragione di quanto c’era di temerario in questa mia trascuratezza. Per la verità, la mia posizione è resa più difficile dall’atteggiamento attuale della scienza biologica, che non vuol sentir parlare di proprietà acquisite ereditate dai discendenti. Ma confesso in tutta modestia che ciò nonostante non posso rinunciare a questo fattore nello sviluppo biologico. Certo, nei due casi non si tratta della stessa cosa ma, nell’uno, di proprietà acquisite difficili a cogliersi, nell’altro di tracce mnestiche di impressioni esterne, per così dire palpabili. Ma può darsi che fondamentalmente non possiamo rappresentarci l’uno senza l’altro.

Se ammettiamo la permanenza di queste tracce mnestiche nell’eredità arcaica, abbiamo gettato un ponte sull’abisso tra psicologia individuale e collettiva e possiamo trattare i popoli come i singoli nevrotici. Pur concedendo che per le tracce mnestiche nell’eredità arcaica non abbiamo attualmente alcuna prova più valida di quei fenomeni residui del lavoro analitico che esigono di essere derivati dalla filogenesi, ciò non pertanto questa prova ci sembra abbastanza valida per postulare uno stato di cose siffatto. Se non è così, non procediamo d’un passo sulla via che abbiamo battuto, né nell’analisi né nella psicologia collettiva. È una temerarietà inevitabile.

Così facendo otteniamo anche qualcosa d’altro. Riduciamo la frattura che i vecchi tempi dell’umana arroganza hanno eccessivamente allargato tra l’uomo e l’animale. Se i cosiddetti istinti⁴²² degli animali, che consentono loro di comportarsi fin dall’inizio in una nuova situazione vitale come se fosse antica e da tempo familiare, se mai questa vita istintiva degli animali ammette una spiegazione, può essere solo perché essi portano con sé nella loro nuova esistenza le esperienze della loro specie, ossia hanno conservato in sé ricordi di ciò che avevano sperimentato i loro progenitori. Nell’animale umano le cose in fondo non sarebbero diverse. Agli istinti degli animali corrisponde l’eredità arcaica a lui propria, benché di altra estensione e contenuto.

Dopo tutta questa discussione non ho alcuno scrupolo a dichiarare che gli uomini hanno sempre saputo – nella particolare maniera suddetta – di aver avuto un padre primigenio e di averlo ucciso.

Resta da rispondere a due altre domande. La prima è a quali condizioni un simile ricordo penetri nell’eredità arcaica; la seconda, in quali circostanze possa divenire attivo, cioè pervenire, dal suo stato inconscio nell’Es, alla coscienza, anche se alterato e deformato. La risposta alla prima domanda è facile. Diremo: quando l’evento era abbastanza importante, o quando si ripeté abbastanza spesso, o le due cose insieme. Nel caso dell’uccisione del padre entrambe le condizioni sono soddisfatte. Alla seconda domanda bisogna osservare: possono entrare in gioco una serie di influssi, non necessariamente tutti noti, ed è anche concepibile un decorso spontaneo analogamente al processo di certe nevrosi. Di sicuro però ha importanza decisiva il risvegliarsi della traccia mnestica dimenticata a causa di una recente ripetizione reale dell’evento. Una siffatta ripetizione fu l’uccisione di Mosè; più tardi, lo fu il presunto assassinio giudiziario di Cristo, di modo che questi avvenimenti precedono ogni altra delle possibili cause. Si direbbe che la genesi del monoteismo non potesse farne a meno. Si ricorderà il detto del poeta:

Was unsterblich in Gesang soll leben,
Muss im Leben untergehen.

[Ciò che è destinato a vivere immortale nel canto,
Deve perire nella vita.]⁴²³

Infine un’osservazione che arreca un argomento psicologico. Una tradizione fondata solo sulla comunicazione non potrebbe produrre quel carattere coatto che è tipico dei fenomeni religiosi. Essa sarebbe ascoltata, criticata, fors’anche respinta come ogni altra notizia proveniente dall’esterno, e non otterrebbe mai il privilegio di sfuggire alla coazione del pensiero logico. Essa deve aver provato il destino della rimozione, la condizione d’indugio nell’inconscio, prima di essere in grado di sviluppare al suo ritorno effetti così potenti, prima di poter incantare le masse, come accade alla tradizione religiosa con nostro stupore e senza che finora siamo riusciti a spiegarcelo. E questa considerazione ha un grande peso nel farci credere che le cose si siano svolte effettivamente così come ci siamo sforzati di descriverle, o almeno in modo somigliante.⁴²⁴

________________________

⁴²² [Freud usa qui, e nel seguito del capoverso, il termine Instinkt, per lui inconsueto. Vedi cap. 2, par. H, in OSF, vol. 11.]
⁴²³ Schiller, Die Götter Griechenlands [Gli dèi della Grecia].
⁴²⁴ [Il problema generale di definire l’importanza per la vita psichica dell’ereditarietà da un lato, e dell’esperienza personale dall’altro, si pose a Freud fin dall’inizio della sua ricerca. Ma il nodo teorico più preciso, concernente l’effettiva trasmissibilità ereditaria di esperienze remote, comincia a delinearsi nei suoi scritti dell’epoca di Totem e tabù cit. Si veda ad esempio ivi cap. 2, par. 4 e cap. 4, par. 7. Il tema ricompare varie volte in brevi passaggi sparsi in opere successive – vedi il caso clinico dell’uomo dei lupi (1914), in Dalla storia di una nevrosi infantile, in OSF, vol. 7, par. 7, par. 8, nota 785 e par. 9, la Metapsicologia cit.: Pulsioni e loro destini, l’Introduzione alla psicoanalisi cit., lezioni 13, 22, 23, 24 e 25, “Un bambino viene picchiato” (1919), in OSF, vol. 9, par. 5, dove compare per la prima volta il termine “eredità arcaica”, la Prefazione a “Il rito religioso: studi psicoanalitici” di Theodor Reik (1919), in OSF, vol. 9, L’Io e l’Es cit., par. 3 – finché in queste pagine la discussione esplicita della “eredità arcaica” giunge alla massima ampiezza. Ma vedi ancora qui in Analisi terminabile e interminabile cit., par. 6.]


Sigmund Freud, "L'uomo Mosè e la religione monoteistica", in Opere complete (ed. digitale), Bollati Boringhieri, 2013, pp. 5808-5810.

Commenti