La mentalità primitiva: coscienza, pensiero, mito.

La mentalità primitiva si distingue da quella civilizzata soprattutto per il fatto che in essa la coscienza è assai meno sviluppata in termini di estensione e intensità. In particolare, funzioni come il pensare, il volere ecc. non sono ancora differenziate, sono bensì preconsce; ciò che per esempio nel pensare si manifesta col fatto che non si pensa “coscientemente”, ma i pensieri semplicemente “affiorano”. Il primitivo non può dire che pensa, bensì che “in lui si pensa”. La spontaneità dell’atto cogitativo non dipende causalmente dalla sua coscienza, ma dal suo inconscio. Ugualmente, egli è incapace di un cosciente sforzo di volontà, ma deve prima porsi, o venir posto, nello “stato d’animo volitivo”: di qui i suoi rites d’entrée et de sortie. La sua coscienza è minacciata da un inconscio ultrapotente: donde la sua paura di influssi magici che potrebbero in qualsiasi momento intralciare i suoi disegni, il suo sentirsi circondato da potenze sconosciute alle quali deve in qualche modo adattarsi. Dato il cronico stato crepuscolare della sua coscienza, spesso è quasi impossibile stabilire se egli ha soltanto sognato una cosa o se l’ha realmente vissuta. L’automanifestazione dell’inconscio, con i suoi archetipi, invade l’intera coscienza, e il mitico mondo degli antenati, per esempio l’altjira o bugari degli Australiani, ha un’esistenza equivalente se non superiore a quella della natura materiale. Non è il mondo così come lo conosciamo che parla dal suo inconscio, bensì l’ignoto mondo della psiche di cui sappiamo che riflette soltanto in parte il mondo empirico, mentre per l’altra parte lo plasma conformemente ai propri presupposti. L’archetipo non proviene dai fatti fisici; esso piuttosto illustra il modo in cui la psiche vive il fatto fisico: e la psiche si comporta perlopiù in modo talmente tirannico da negare la realtà tangibile e avanzare tesi che con questa realtà sono in aperto contrasto.

La mentalità primitiva non “inventa” i miti: li “vive”. I miti sono, originariamente, rivelazioni della psiche preconscia, involontarie attestazioni di eventi psichici inconsci, e tutt’altro che allegorie di processi fisici. Allegorie del genere non sarebbero che giochi oziosi di un intelletto non scientifico. I miti, invece, hanno un significato vitale. Essi non soltanto esprimono, ma “sono” la vita psichica della tribù primitiva che immediatamente si disgrega e tramonta non appena perde la sua eredità mitica, come un uomo che perda la propria anima. La mitologia di una tribù è la sua religione viva, la cui perdita comporta sempre e ovunque, anche per l’uomo incivilito, una catastrofe morale. La religione è però un rapporto vivo con i processi psichici che non dipendono dalla coscienza ma che si svolgono, al di là di questa, nell’oscurità dello sfondo psichico. Molti di questi processi inconsci sono, è vero, indirettamente occasionati dalla coscienza, mai però per scelta cosciente. Altri sembrano nascere spontaneamente, vale a dire senza cause che si possano riconoscere e segnalare nella coscienza.


Carl Gustav Jung, Gli archetipi e l'inconscio collettivo, Bollati Boringhieri, 2014 (ediz. digitale formato epub), pp. 158-159/578. (Ho omesso le note).

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