Che cosa si prova a sentirsi pipistrelli? La soggettività degli animali

La formulazione del titolo di Nagel [Che cosa si prova ad essere un pipistrello, Castelvecchi, 2013] contiene però un’ambiguità di cui non si può propriamente far carico all’autore, ma che non viene pienamente chiarita dal testo dello scritto. Ciò che quella formulazione suggerisce è che il quesito possa essere interpretato anche secondo la dizione: «Che cosa si prova a sentirsi pipistrelli?» La domanda è impropria. Il pipistrello non si sente tale perché non sa cosa significhi essere pipistrelli, non sa di essere un pipistrello, e con ogni evidenza non sa neppure di esistere. Il suo campo cognitivo è dotato di oggetti, ma è estremamente improbabile che includa anche il soggetto: esso comprende modelli di luoghi, rappresentazioni di altri pipistrelli, e anche mappe di itinerari propri, ma nulla fa pensare che contenga anche una rappresentazione di quella piccola zona dell’universo da cui ha origine la sua rappresentazione dell’universo.

Gli animali in generale soffrono della limitazione che Flaubert attribuisce a Catoblepa, uno dei mostri che insidiano Sant’Antonio: oltre a guardare sempre in terra, come dice il suo nome, questa bestia non si separa dal resto del panorama e avendo fame si è mangiate le proprie zampe anteriori.

Beninteso, nessuno potrebbe sopravvivere se non fosse programmato in modo tale da doversi occupare della difesa dei confini corporei. Forse però il Catoblepa non è stupido, ma solo insensibile: qualsiasi animale si guarda bene dal rosicchiare i propri arti perché è condizionato a rispettare una parte di mondo da cui provengono molteplici particolari sensazioni, eventualmente anche dolorose. Se però a un carnivoro viene anestetizzata una zampa, si può constatare che l’autofagia diviene un fatto reale.

Lo studio della psicologia animale ci suggerisce che in quasi tutte le specie il campo cognitivo non comprende l’immagine di se stessi. Un gatto, un macaco Rhesus, costruiscono senza dubbio rappresentazioni dei propri arti e del corpo e hanno probabilmente una sia pur vaga immagine spazializzata della propria testa, anche se non l’hanno mai vista: ma molti dati ci autorizzano a ritenere che essi non abbiano una rappresentazione globale del loro aspetto fisico. Ciò che è più importante, non sembrano in grado di compiere una separazione netta fra lo spazio corporeo e quello extracorporeo. Una separazione del genere implicherebbe la presenza di una capacità cognitiva particolare, di cui non sono in possesso: la capacità di percepire un dentro oltre che un fuori, un sé oltre che un non sé. È importante sottolineare che negli animali in genere, e con ogni probabilità anche nei bambini piccoli, non esiste propriamente una confusione fra soggetto e oggetto, fra corpo e mondo, fra percezione di sé e percezione delle cose, fra dentro e fuori: bensì un’assenza dell’esperienza del soggetto, del corpo proprio, del sé, del dentro. Nulla di sostanziale distingue la cura della gatta per il proprio corpo dalla cura per i piccoli nati da poco; inseguire la punta della propria coda non è un gioco ironico né il frutto di un malinteso, perché è lo stesso che inseguire un tappo di sughero che dondola da un filo. Capaci di riconoscersi perfettamente fra loro alla vista, cani, gatti o macachi sono incapaci di riconoscere se stessi allo specchio o in un film. Le scimmie non antropomorfe, come appunto i macachi o i babbuini, apprendono a usare molto bene gli specchi, a esempio per raggiungere e manipolare oggetti a cui non hanno diretto accesso visivo; inoltre quando vedono l’immagine riflessa di una persona o di un cibo sanno benissimo dove andare a cercarli; ma nonostante mesi e mesi di addestramento intensivo e paziente non riescono assolutamente a riconoscere la propria immagine. Se a esempio vengono posti di fronte allo specchio dopo che il loro volto è stato segnato a loro insaputa con una macchia di colore vistoso, non danno segno di capire che quella macchia li riguarda.

Questi animali non hanno idea della loro soggettività non perché ne siano privi, ma al contrario perché essendone totalmente immersi non hanno gli strumenti concettuali per oggettivizzarla. Il loro mondo non è quello dell’incoscienza, ma quello dell’irriflessività. Sono capaci di relazioni con gli altri ma non intrattengono rapporti con se stessi. Per poter divenire consapevoli di sé dovrebbero essere in grado di sottrarsi a una parte del loro soggettivismo, restituendolo oggettivizzato alla coscienza.

Ben diversa la situazione nelle grandi scimmie antropomorfe e in particolare nello scimpanzé, studiato più a fondo che l’orango e il gorilla. Questo animale condivide con la specie umana la capacità di imparare a riconoscersi in una fotografia o allo specchio e quindi di usare spontaneamente quest’ultimo per ammirarsi, esplorare parti nascoste del proprio corpo o per farsi le boccacce. Se viene macchiato in viso a sua insaputa con un colore e poi posto di fronte al suo specchio, lo scimpanzé immediatamente tocca la macchia.

Nella specie umana, il bambino al di sotto dei 15-18 mesi non è in grado di riconoscersi allo specchio. Il suo mondo è quello di una soggettività primaria inconsapevole, o di un egocentrismo acritico primitivo. Lo specchio non gli dice nulla, perché il quesito del corpo e dell’interiorità non gli si è neppure posto. È vero che già al di sotto di un anno egli può esprimere giubilo alla propria immagine, ma ciò non significa che vi si riconosca; al contrario, è molto più probabile che vi veda un altro bambino. Così, vari autori osservano che l’entusiasmo decresce quando il soggetto riconosce se stesso come tale. Secondo Lewis e Brooks, che hanno usato fra l’altro il sistema di Gallup della macchia di colore sul viso, l’inizio dell’autoriconoscimento avviene in genere verso i 15 mesi, ed è completo nella maggior parte dei bambini di 21 mesi.


Giovanni Jervis, Presenza e identità. Lezioni di psicologia, Garzanti, 1992 (ed. or. 1984), pp. 158-160 [ho omesso le note al testo, sottolineature mie].

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