Il ruolo della cultura nello sviluppo della coscienza di sé

La differenza principale fra l'autocoscienza degli scimpanzé e quella di cui sono capaci gli esseri umani è probabilmente un'altra. Uno scimpanzé si percepisce certamente come soggetto agente, nella singolarità dell'appartenenza a se stesso in quello spazio ambiguo che è il corpo proprio: ma ciò non significa che sia pienamente in grado di applicare il medesimo processo di monitoraggio autoriflessivo, oltre che al corpo, anche a quell'universo più astratto che è dato dall'insieme delle proprie emozioni e delle proprie rappresentazioni. Le sue prestazioni non ci dimostrano che egli possa considerare dal di fuori - e al tempo stesso come propri - oltre che il corpo, anche i desideri, le fantasie, le immagini, i sogni che costituiscono e popolano la sua vita psichica.

Ci si può chiedere però se una capacità del genere sia molto sviluppata negli esseri umani. L'autocoscienza non è soltanto autorizzata dalle caratteristiche biologiche della specie, ma anche costruita dalla cultura. Questo fatto è messo in luce dallo studio delle popolazioni preletterate. Un individuo che appartenga a una società di cacciatori e raccoglitori o a una comunità agricola primitiva, o anche un pastore o un contadino illetterato di una zona povera dell'area mediterranea odierna, dispongono di un tipo di autocoscienza prevalentemente fisica e sociale piuttosto che psicologica. La loro identità soggettiva si basa su una consapevolezza molto acuta del proprio aspetto fisico e su una consapevolezza estremamente esplicita e chiara del loro ruolo sociale e del proprio potere nella scala gerarchica del loro gruppo di appartenenza: ma l'aspetto psicologico dell'identità di persona rimane in ombra, in particolare per quanto riguarda la coscienza critica dell'interiorità. A questo corrisponde da un lato una grande difficoltà a rappresentarsi riflessivamente e oggettivamente la propria vita emozionale, e quindi a esaminarla dal di fuori; e da un altro lato una difficoltà spesso altrettanto grande a considerare le passioni, i sogni, le fantasie come prodotti della propria personale attività invece che come accadimenti oggettivi, in qualche modo perfino esterni alla persona. Esiste insomma una carente autoappropriazione della soggettività. Anche gli stati di sofferenza psicologica non sono mai vissuti come tali ma vengono avvertiti a seconda dei casi o come malattia fisica e incapacità drammatica a localizzazione strettamente corporea, oppure come effetti altrettanto drammatici di possessione da parte di furori, demoni, e influenzamenti magici. Il concetto di ansia, ad esempio, non ha qui alcun senso, e non viene affatto compreso da queste persone.

Per ciò che posso giudicare sulla base della mia conoscenza delle culture tradizionali residue dell'Italia meridionale, tutto questo non dipende solo dal fatto che la tematica psicologica viene descritta secondo una semantica diversa da quella della cultura dell'occidente industrializzato, e neppure solo dal fatto che i temi esistenziali e morali vengono proiettati ed elaborati in particolari universi di valori magico-religiosi. Il problema sembra dipendere, più radicalmente, anche dalla carenza degli strumenti che sono necessari a esercitare un monitoraggio autoriflessivo, o introspettivo, su ciò che si chiama abitualmente vita psichica. È bene sottolineare che una persona in questa situazione è pienamente e acutamente autocosciente, perché accede di continuo a una serie di immagini efficaci e valide della propria persona; i suoi atti hanno valore soggettivo in quanto emanano coerentemente dalle caratteristiche stabili di quelle immagini. Per riprendere la terminologia di William James, il suo sé materiale, o corporeo, e il suo sé sociale sono ben definiti e chiari; ma non così il sé spirituale. Questa persona presenta dei limiti cognitivi, che consistono ad esempio in una difficoltà a distinguere il progettare dal fantasticare, o anche il pensare dal parlare. «Io penso» significa qui essenzialmente «io dico», o «io mi dico», ed è atto concreto a carattere fondamentalmente somatico e pubblico. Il pensare può venire ritenuto un fatto privato non tanto perché viene trattenuto nell'ambito di un'interiorità autoriflessiva naturalmente vissuta, quanto perché viene eventualmente considerato un enunciato per pochi, cioè un discorso riservato, a carattere vagamente cospirativo. Già nel 1931-32, Aleksandr Lurija aveva compiuto una serie di osservazioni e ricerche sulla struttura dei processi cognitivi di popolazioni preletterate dell'Asia sovietica giungendo ad alcune conclusioni molto simili a queste.

Il fatto che la consapevolezza di pensare non sia affatto automatica, ma costituisca un'acquisizione culturale raffinata, è sottolineato fra gli altri da Gilbert Ryle: egli considera che poter separare il pensare dal parlare, e quindi riuscire a tenere i pensieri per sé, è uno «special artifice» e un «sophisticated accomplishment», e sostiene che ancora nel Medio Evo non era concepibile leggere se non ad alta voce. Il pensare viene dunque colto riflessivamente in primo luogo come un parlare interiorizzato: ma questo non costituisce affatto una prova valida a favore dell'ipotesi che il pensiero sia veramente linguaggio. Il pensiero si presenta falsamente come linguaggio «interiore» proprio per la difficoltà a cogliere gli aspetti più astratti di esperienze prevalentemente inconsce, separandoli dalle mediazioni corporee e sociali che li descrivono.

La coscienza vigile è dunque il modo della conoscenza primaria, fenomenica, o esperienziale semplice; l'autocoscienza, in quanto presenza della soggettività a se stessa, cioè in quanto coscienza della coscienza, è metaconoscenza. La metaconoscenza, o conoscenza secondaria, è il sapere di sapere qualcosa, e consiste nel disporre dell'accesso ai repertori di conoscenza, cioè nel disporre della capacità di esaminare e manipolare il patrimonio di immagini che costituisce l'insieme delle conoscenze primarie. Ne deriva la possibilità di rendere conto delle proprie conoscenze non solo a se stessi ma anche agli altri. Se la conoscenza fenomenica primaria è mappa, modello o rappresentazione della realtà, si può dire che quella secondaria è rappresentazione della rappresentazione.

La metaconoscenza, conoscenza teorico-riflessiva, riguarda un oggetto particolare: quest'oggetto non è la sostanza concreta della realtà esterna, ma l'impalpabile immagine di essa. L'immagine-oggetto, riproduzione pensata dell'oggetto esteso, può essere nuovamente resa tangibile attraverso l'opera delle mani sotto forma di disegno, schizzo topografico, statua, e così via; oppure può venire designata e descritta attraverso strutture simboliche, come quelle del linguaggio. Nelle società preletterate l'immagine dell'oggetto tende a essere considerata come sua emanazione o duplicazione: in un sogno la figura di un umano sembra provenire da quella persona, non dal sognatore; in un disegno la riproduzione della forma di un animale si presenta come cattura delle sue proprietà vitali. Nella cultura dell'epoca moderna l'immagine dell'oggetto viene invece esperita più facilmente nella sua autonomia di oggetto «interno»: viene cioè cioè considerata non come qualcosa che è prodotta dalle vicende del mondo, ma come il frutto di un'attività mentale. Qui la metaconoscenza diviene pienamente operante perché vincolata non più all'oggetto, ma alla produttività immaginativa di un soggetto percepito come tale.

Il modo in cui si costruiscono forme semplici di metaconoscenza può essere esemplificato da atti banali della vita, ad esempio dal rapporto di una persona con l'interruttore della luce all'interno della propria stanza. Si danno qui vari casi. La persona può non sapere affatto dov'è l'interruttore, per cui lo deve cercare; oppure, pur credendo di non saperlo, ogni volta lo trova subito con esattezza nella stanza buia anche variando i propri gesti, ad esempio cercandolo con la mano sinistra invece che con la destra: e dunque ne possiede la rappresentazione; o anche può sapere di saperlo, ma solo nel senso che sa bene di trovarlo subito, senza però poter dire che sia a destra o a sinistra della porta, in alto o in basso; infine, può saper descrive o disegnare dov'è.

[Sul concetto di coscienza giova riportare quanto Jervis dice in precedenza alle pagg.150-51]

Un chiarimento dei termini in cui si pone oggi il problema della coscienza può essere tentato a partire dallo studio della coscienza animale. La prima osservazione è che il termine coscienza ha due significati che si sovrappongono nel linguaggio comune, ma che è utile separare.

Il più semplice è quello di vigilanza, o coscienza lucida, o coscienza semplice. È pienamente cosciente chi è ben sveglio e immediatamente responsivo rispetto agli stimoli ordinari. Una definizione del genere si applica a qualsiasi organismo che stia intrattenendo con il proprio ambiente i rapporti attivi che gli sono propri. Ciò vale dunque anche per un canarino o per un pesce rosso; fra l'altro si può studiare il sonno degli uccelli e supporre fondatamente  che anche i pesci dormano a periodi; questi animali non sono dunque sempre coscienti.

Un secondo significato identifica la coscienza con la consapevolezza, intesa come coscienza di sé (self-awareness). Questa viene tradizionalmente presentata come una caratteristica psicologico-morale propria della specie umana. In italiano e in francese la stessa parola designa anche la coscienza morale (ingl. conscience; ted. Gewissen). La coscienza come consapevolezza viene considerata da John Locke paradigmatica della persona; la persona è tale perché, essendo capace di riflessione (reflection), cioè di attenzione responsabile verso se stessa, prende coscienza del fatto di essere cosciente. Già in Locke questa consapevolezza umana ha due aspetti inscindibili, o scindibili solo in modo artificioso: da un lato è coscienza di sé, cioè coscienza del sé (self), o della persona, come oggetto globale rappresentato nel campo della coscienza; da un altro lato è coscienza della coscienza lucida degli oggetti esterni alla persona.


Giovanni Jervis, Presenza e identità. Lezioni di psicologia, Garzanti, 1992 (ed. or. 1984), pp. 172-176 e 150-151 [ho omesso le note al testo].

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