Jung legge il Libro di Giobbe: le contraddizioni di Yahwèh

[...] non si deve pretendere che un dio arcaico soddisfi le esigenze dell'etica moderna. Per l'uomo dell'antichità più lontana le cose erano un po' diverse: le sue divinità fiorivano e s'inturpidivano di tutte le virtù e di tutti i vizi. Si poteva perciò punirle, incatenarle, aizzarle  l'una contro l'altra senza che, perlomeno a lunga scadenza, il loro prestigio ne soffrisse minimamente. L'uomo di quegli eoni era talmente assuefatto alle contraddizioni del comportamento divino che il loro insorgere non lo turbava minimamente. Per Yahwèh, tuttavia, il caso era già un po' diverso in quanto nel rapporto religioso tra lui e l'uomo il fattore del legame personale e morale era giunto molto presto a sostenere un ruolo importante. In tali circostanze una violazione del patto costituiva un'offesa oltre che sul piano personale anche su quello morale, come appare dal modo in cui reagisce Davide. Egli dice:

                                Fino a quando, Signore,
                                continuerai a tenerti nascosto,
                                arderà come fuoco la tua ira?
                                Ricorda quant'è breve la mia vita.
                                Perché quasi un nulla hai creato ogni uomo?
                                ...
                                Dove sono, Signore, le tue grazie di un tempo,
                                che per la tua fedeltà hai giurato a Davide?

Rivolto ad un essere umano il discorso si sarebbe svolto pressapoco in questi termini: "Adesso controllati, e falla finita con queste collere assurde. È veramente troppo grottesco che uno come te se la prenda talmente con queste piante che, è vero, non vogliono crescere diritte ma, certamente, non senza che anche tu ne sia in parte responsabile. Avresti anche potuto essere un po' più ragionevole prima e aver cura del giardino che ti sei piantato, invece di calpestarlo tutto, ora."

L'interlocutore non può tuttavia osare di protestare a viso aperto contro il suo partner onnipotente per la violazione del patto, per quanto sappia molto bene quel che gli sarebbe toccato sentire se fosse stato lui, misero, a violare il contratto. Egli deve invece, siccome unatteggiamento diverso lo porrebbe in pericolo di morte, ripiegare  a un livelo più alto di ragionevolezza, dando così prova, senza saperlo e senza volerlo, di essere leggermente superiore al suo partner divino sia intellettualmente che moralmente. Yahwèh non si accorge di venire trattato come un malato, nello stesso modo in cui non comprende le ragioni che lo spingono a esigere di venire sempre magnificato come il "Giusto". Egli esige dal suo popolo di venire "lodato" e propiziato, con lo scopo evidente di venir mantenuto di buon umore a qualsiasi costo.

Il carattere che si delinea così corrisponde a una personalità la quale riesce a procurarsi la sensazione della propria esistenza soltanto in virtù di un oggetto esterno ad essa. La dipendenza dall'oggetto è assoluta quando il soggetto non possiede alcuna autoriflessione e di conseguenza alcuna autopercezione. Sembra allora che esso esista soltanto in seguito alla circostanza di avere a propria disposizione un oggetto il quale gli fornisca la sicurezza di esistere. Se Yahwèh, come ci si potrebbe attendere perlomeno da un essere umano capace di autopercezione, fosse realmente cosciente di sé stesso, dovrebbe, tenendo conto della situazione reale, perlomeno porre un freno a questa sua pretesa di lodi al suo senso di giustizia. Ma egli è troppo incosciente per essere "morale". La morale presuppone la coscienza. Con ciò, ovviamente, non si vuole affermare che Yahwèh sia forse imperfetto o malvagio come un demiurgo gnostico. Egli è ogni qualità nella sua totalità, perciò la giustizia assoluta ma, allo stesso tempo, anche il suo contrario, pure questo altrettanto perfetto. Così perlomeno bisogna immaginarlo, Yahwèh, se ci si vuol costruire un'immagine unitaria della sua natura. Facendo ciò, bisogna però rimanere coscienti di non aver fatto nulla di più del tratteggiare un'immagine antropomorfa la quale, oltre a tutto, non è neanche particolarmente evidente. Il modo di manifestarsi dell'essere divino permette di riconoscere che le sue diverse proprietà sono insufficientemente connesse le une con le altre, in maniera da disintegrarsi in atti reciprocamente contraddittori. Così vediamo, ad esempio, che Yahwèh rimpiange di aver creato gli uomini, mentre la sua onniscienza doveva sapere sin dall'inizio, con la massima esattezza, quanto sarebbe accaduto con gli esseri umani fatti a quel modo.

[...] Siccome l'Onnisciente scruta in tutti i cuori, e gli occhi di Yahwèh "scrutano tutta la terra", è di gran lunga meglio che l'interlocutore del Salmo 89 non prenda troppo prontamente coscienza della sua lieve superiorità morale rispetto al Dio meno cosciente di lui, o addirittura la nasconda a sé stesso, poiché Yahwèh non apprezza i pensieri critici, che potrebbero ridurre in qualche modo il flusso di lodi che Egli esige. Quanto forte risuona la sua potenza attraverso gli spazi cosmici, altrettanto esigua è la base dell'essere di questa, che ha bisogno del riflesso di una coscienza, per esistere veramente. L'essere è valido, naturalmente, soltanto nella misura in cui qualcuno ne ha coscienza. È questo il motivo per cui il Creatore, quantunque tentato, a causa della sua incoscienza, di ostacolarne la presa di coscienza, ha bisogno dell'uomo cosciente. È questo il motivo per cui Yahwèh prova l'assoluta necessità dell'applauso di un piccolo gruppo di esseri umani. È facile a immaginarsi quello che succederebbe se a questo gruppo venisse in mente di sospendere le dimostrazioni della propria approvazione: Yahwèh cadrebbe prima in preda a uno stato di eccitazione caratterizzato da una cieca furia di distruzione, per sprofodare poi in una solitudine infernale e nel più tormentoso non-essere, che verranno seguiti dal progressivo lento risvegliarsi di un'inesprimibile nostalgia verso quel qualcosa che rende l'essere percettibile a sé stesso. È questa infatti la ragione per cui tutte le cose alla loro origine, anche l'uomo prima di divenire una "canaglia", sono o erano di una bellezza penetrante e incantevole, perché allo statu nascendi, "ognuno a suo modo", rappresenta qualcosa di prezioso, l'immagine di un'aspirazione alimentata nel più profondo dell'essere, dell'infinita delicatezza delle cose in boccio, rivela, insomma, l'impronta dell'amore e della bontà infinita del Creatore.

[...]

Il Libro di Giobbe colloca l'uomo pio e fedele, ma duramente provato da Dio, su di un palcoscenico aperto alla vista di tutti, da dove egli presenta agli occhi e agli orecchi del mondo intero la sua causa. È infatti con una facilità sconcertante e senza alcun valido motivo che Yahwèh si è lasciato influenzare da uno dei suoi figli, da un Pensiero di dubbio, e indurre così a dubitare della fedeltà di Giobbe. Con la sua suscettibilità e diffidenza la stessa possibilità del dubbio era sufficiente a metterlo in collera e a indurlo ad assumere quel singolare comportamento di cui aveva già dato prova nel paradiso, cioè quel modo di trattare ambiguo in cui erano presenti insieme un sì e un no, e con cui egli aveva attirato l'attenzione della prima coppia umana sull'albero del bene e del male vietando loro contemporaneamente di mangiarne i frutti. Aveva provocato così il peccato, che in realtà non aveva previsto. Ora è il fedele servo Giobbe che deve venire sottoposto senza alcun motivo e senza alcuna utilità a una prova di resistenza morale, per quanto Yahwèh sia convinto della sua fedeltà e della sua irremovibilità e inoltre possa, volendo fare appello alla propria onniscienza, averne una certezza senza dubbio. Perché allora condurre questa prova e fare una scommessa senza posta contro un mettimale privo di scrupoli ai danni di una creatura impotente a reagire? In realtà lo spettacolo della prontezza con la quale Yahwèh abbandona allo spirito maligno il suo fedele servitore e dell'estrema indifferenza e assenza di pietà con cui lo lascia sprofondare in un abisso di tormenti fisici e morali è tutt'altro che edificante. Il comportamento di Dio, considerato dal punto di vista umano è talmente rivoltante, che si è indotti a chiedersi se dietro a ciò non si nasconda un motivo profondo. In Yahwèh esiste forse una segreta resistenza contro Giobbe? Ciò potrebbe spiegare la facilità con cui ha ceduto a Satana. Ma allora, quale cosa possiede l'uomo che Dio non abbia? A causa della sua esiguità, della sua debolezza e della sua mancanza di difesa nei confronti dell'Onnipotente, egli possiede, come abbiamo già accennato, una coscienza un po' più acuta grazie alla sua capacità di autoriflessione: egli infatti sa che per sopravvivere deve rimanere sempre cosciente della sua impotenza nei confronti del Dio onnipotente. Questi, invece, non ha la necessità di valersi di cautele di tal genere perché non incontra da nessuna parte un  ostacolo insormontabile, ostacolo che potrebbe indurlo a esitare e a riflettere così su sé stesso. Yahwèh aveva forse concepito il sospetto che l'uomo possedesse una luce infinitamente piccola, è vero, ma più concentrata di quella che possedeva Lui, Dio? Una gelosia di questo genere potrebbe forse spiegare la condotta di Yahwèh. Sarebbe comprensibile che una tale deviazione, solo intuita e non compresa, dalle capacità attribuite per definizione a una semplice creatura umana, avesse eccitato il suo sospetto. Anche troppo spesso gli uomini si erano comportati in maniera del tutto diversa da quella che Egli si aspettava. Anche il fedele Giobbe poteva in fondo tramare qualcosa... Dal che la sconcertante prontezza nel dare ascolto alle insinuazioni di Satana anche contro la Sua stessa convinzione!

Giobbe si vede immediatamente rubare le sue greggi; i suoi servi, i suoi figli e le sue figlie vengono massacrati ed egli stesso viene colto da una malattia che lo porta sino sull'orlo della tomba. E per privarlo anche della sua pace morale vengono scatenati contro di lui sua moglie e i suoi migliori amici, che dicono cose non giuste. La sua legittima protesta non ha eco presso questo Giudice tanto reputato per la sua giustizia. Ogni diritto gli viene rifiutato affinché Satana non venga disturbato nel suo gioco.

Bisogna rendersi conto che qui in un breve tratto di tempo sono stati perpetrati i più atroci misfatti: rapina, omicidio, lesioni personali premeditate, diniego di giustizia. E quale circostanza aggravante appare il fatto che Yahwèh non ha manifestato alcuno scrupolo, rimorso o simpatia, ma ha dato soltanto prova di crudeltà e della più assoluta mancanza di considerazione. Non si può accettare sino a questo punto la giustificazione dell'incoscienza, perché Yahwèh viola in maniera flagrante perlomeno tre delle leggi che egli stesso aveva dettato sul monte Sinai.

Ad aumentare le sue sofferenze, gli amici di Giobbe fanno del loro meglio per aggiungervi altre torture morali, invece di offrire a quest'uomo abbandonato slealmente da Dio almeno il calore del loro affetto, lo affliggono facendogli la morale in una chiave troppo umana, con considerazioni ottuse, negandogli così anche l'estremo aiuto della compassione e della comprensione umana, atteggiamento nel quale non è possibile escludere del tutto il sospetto di una connivenza divina.

Non è facile comprendere perché le sofferenze di Giobbe e la scommessa di Dio s'interrompano tutt'a un tratto. Finché Giobbe non muore, le sue inutili sofferenze potrebbero continuare. Noi non dobbiamo però perdere di vista lo sfondo contro il quale si svolgono questi avvenimenti: non sarebbe impossibile che in questo sfondo qualcosa fosse divenuto a poco a poco più chiaro, si fosse avuta cioè una specie di compensazione per le sofferenze ingiustamente inflitte, la quale, anche se intuita da Yahwèh soltanto in maniera vaga, non poteva lasciarlo indifferente. L'essere umano ingiustamente tormentato era stato infatti, senza saperlo né volerlo, innalzato silenziosamente e progressivamente a un livello della conoscenza della divinità che Dio stesso non possedeva. Certamente, se Yahwèh avesse fatto appello alla sua onniscienza, Giobbe non l'avrebbe superato. In questo caso, comunque, tante altre cose non sarebbero mai accadute [Il va sans dire. La creazione in primis! Insomma, Jung sembra dire che l'onniscienza di Yahwèh è una specie di optional, un dispositivo disinseribile, non sempre attivo, come si pretenderebbe! Ovvio che qui si sottolinea ironicamente come a prendere alla lettera le narrazioni bibliche, tutti gli attributi divini verrebbero costantemente messi a dura prova da un dio fin troppo umano nel suo procedere a scatti d'ira, ad accessi di gelosia, a manifestazioni di incredibile ottusità e di scandalosa ingiustizia

Giobbe individua l'antinomia interna di Dio, e con ciò la luce della sua conoscenza personale raggiunge essa stessa una numinosità divina. È lecito supporre che la possibilità di un tale sviluppo sia dovuta al fatto che l'uomo è modellato a immagine di Dio, rassomiglianza che non va ricercata certo nella morfologia dell'uomo. Yahwèh stesso aveva prevenuto la possibilità di tale errore con la proibizione di rappresentarlo in immagine. Giobbe, non lasciandosi distogliere dal sottomettere il suo caso a Dio, anche senza la speranza di venire ascoltato, gli si è posto di fronte e ha creato così quell'ostacolo scontrando il quale l'essenza di Yahwèh deve rendersi manifesta. A questo punto culminante del dramma, Yahwèh interrompe il suo gioco crudele. Ma chi si aspetta di vedere la sua ira ritorcersi contro il calunniatore rimarrà profondamente deluso. Yahwèh né pensa a fare i conti col figlio dal quale si è lasciato abbindolare né gli viene in mente di concedere a Giobbe una certa soddisfazione morale giustificando in qualche modo il suo comportamento. Al contrario, invece, giunge nel turbine di tutta la sua onnipotenza e tuona rimproveri contro il verme umano mezzo schiacciato:

                     Chi è costui che oscura il consiglio
                     con parole insipienti?

[...]

Quali sono le parole insipienti? Yahwèh, evidentemente, non si riferisce ai discorsi degli amici, bensì rimprovera Giobbe. In che consiste perciò la sua colpa? La sola cosa che gli si può rimproverare è l'ottimismo che lo induce a credere di poter fare appello alla giustizia divina. In questo egli ha effettivamente torto, come ce lo dimostrano chiaramente i successivi discorsi di Yahwèh. Dio non vuole assolutamente essere giusto. Egli magnifica la sua potenza, più importante della giustizia. Era proprio questo che non riusciva ad entrare in capo a Giobbe, perché egli considerava Dio un essere morale. Egli non aveva mai dubitato dell'onnipotenza di Dio, ma sperava anche nella sua giustizia. D'altra parte egli stesso aveva già ravvisato questo suo errore quando la percezione della contraddittorietà divina gli aveva permesso di collocare al loro giusto posto la giustizia e la bontà di Dio. Non si può perciò parlare di una mancanza di discernimento da parte di Giobbe.

La risposta alla domanda di Yahwèh è perciò questa: è Yahwèh stesso che rende oscuri i suoi consigli e che manca di discernimento. Egli inverte, per così dire, i ruoli e accusa Giobbe di quanto invece commette Egli stesso. Egli non ammette che all'essere umano sia concesso di nutrire un'opinione sul suo conto e specialmente che gli sia concesso di accedere a una comprensione che a Lui manca. Per settantuno versetti Yahwèh magnifica la potenza del Creatore del mondo alla sua vittima che, seduta in mezzo alla cenere, si gratta le piaghe, già da tempo anche troppo profondamente convinta di essere alla mercè della violenza di un essere dai poteri sovrumani. Giobbe non avrebbe alcun bisogno di venire impressionato ancora una volta, sino alla nausea, dalla descrizione di questa potenza. Yahwèh, grazie alla sua onniscienza, potrebbe ben sapere, naturalmente, quanto inopportuno sia il suo tentativo di intimidazione in una situazione del genere. Egli avrebbe potuto vedere facilmente che Giobbe, dopo le prove inflittegli, crede esattamente come prima alla sua onnipotenza e non l'ha mai messa in dubbio e tantomeno gli è mai divenuto infedele. Egli prende addirittura talmente poco in considerazione quello che Giobbe è in realtà, che appare giustificato il chiedersi se non esista per Lui un altro motivo più importante, se Giobbe non sia per caso solo l'occasione esterna per una spiegazione che Dio deve avere con sé stesso nel proprio intimo. Yahwèh parla dimenticando in maniera talmente evidente di parlare con Giobbe e di Giobbe, che è tutt'altro che difficile rendersi conto di sino a qual punto Egli si preoccupi di sé stesso. Il mettere in rilievo con tale enfasi la sua onnipotenza e grandezza è del tutto privo di senso con un uomo come Giobbe che non potrebbe venire convinto più di quello che già non sia: sarebbe comprensibile soltanto di fronte ad un ascoltatore che ne dubiti. Questo pensiero di dubbio è Satana, che, messa a esecuzione la sua opera malvagia, è rientrato in seno al Padre per continuarvi la sua azione di sobillamento. Yahwèh deve avere ben visto che la fedeltà di Giobbe non era mia stata scossa e che Satana aveva perso la sua scommessa. Egli deve anche essersi reso conto di aver fatto di tutto per indurre all'infedeltà il suo servo fedele, permettendo addirittura che si giungesse a perpetrare tutta una lunga serie di delitti, soltanto perché si era lasciato allettare a prendere parte alla scommessa. Ma non è niente di simile a un rimorso né tanto meno a una rivolta del senso morale a pungere la sua coscienza, ma piuttosto una oscura intuizione che mette in forse la sua onnipotenza. (A questo proposito Yahwèh è particolarmente sensibile, in quanto il "potere" è per lui l'argomento più importante.) Quest'intuizione si riferisce naturalmente alla costatazione oltremodo incresciosa che Yahwèh però non è pienamente conscio di questa debolezza, e infatti vediamo che tratta Satana con una pazienza e dei riguardi veramente sorprendenti. È chiaro che questa benevola tolleranza nei riguardi di questo intrigo andrà tutta ai danni di Giobbe.

[...] I discorsi di Yahwèh hanno lo scopo, certamente irriflesso, ma non perciò meno trasparente, di dimostrare all'uomo il brutale potere dominatore del Demiurgo: "Ecco cosa sono Io, il Creatore di tutte le invincibili, spietate forze della natura, che non sono state sottomesse a nessuna legge morale; anch'Io stesso sono una potenza amorale della natura, una personalità del tutto fenomenica, che non vede il proprio rovescio."

Ciò è, o potrebbe perlomeno essere, una soddisfazione morale di prim'ordine per Giobbe, perché attraverso questa dichiarazione l'uomo, nonostante la sua impotenza, viene elevato al rango di giudice della divinità. Noi non sappiamo se Giobbe se ne sia reso conto, ma sappiamo positivamente da innumerevoli commenti del Libro di Giobbe, che tutti i secoli successivi sono stati ciechi al modo in cui Yahwèh era dominato da una Μοῖρα o Δίκη [potenza del destino] che lo spingeva a lasciarsi andare in tal modo. Chiunque osi farlo si accorgerà come Yahwèh abbia involontariamente innalzato Giobbe, trascinandolo nella polvere. E così, concedendo effettivamente all'uomo quella soddisfazione di cui noi sentiamo tanto profondamente la mancanza nel Libro di Giobbe, Yahwèh emette il giudizio contro sé stesso.

[...]

Se si considera il comportamento di Yahwèh nel suo complesso [...] colpisce il fatto incontestabile che il suo modo d'agire sia accompagnato soltanto da una coscienza inferiore. Si avverte sempre di nuovo l'assenza di riflessione e di un riferimento al sapere assoluto. Il suo stato di coscienza non sembra essere molto più elevato di una awareness primitiva (parola per la quale purtroppo non esiste un termine corrispondente in tedesco). Si può tradurre questo concetto con un "essere cosciente semplicemente percettivo". L'awareness non conosce né riflessione né moralità. L'essere che si trova in questo stato si limita a percepire e agisce ciecamente, vale a dire senza coinvolgere il soggetto, la cui esistenza individuale non è problematica. Oggi si qualificherebbe un tale stato psicologicamente come "inconscio" e giuridicamente come uno stato di "irresponsabilità". Il fatto che la coscienza non compia atti di pensiero non significa che questi non esistano. Essi si svolgono semplicemente in maniera inconscia e possono venir osservati indirettamente in sogni, visioni, rivelazioni e modificazioni "istintive" della coscienza, la natura delle quali ci permette di riconoscere che ci giungono da un sapere "inconscio", passando attraverso atti di giudizio e conclusioni inconsce.

Osserviamo qualcosa di questo genere nel singolare mutamento sopravvenuto nel comportamento di Yahwèh dopo l'episodio di Giobbe. Non è possibile dubitare che la sconfitta morale che Dio si è tirata addosso di faccia a Giobbe abbia raggiunto inizialmente la sua coscienza. Nella sua onniscienza, comunque, questo fatto era già accertato da sempre e non è impensabile che l'esserne a conoscenza lo abbia inconsciamente portato, a poco a poco, ad agire con Giobbe in maniera talmente priva di scrupoli per divenire un po' più cosciente e per acquistare una nuova conoscenza. Satana, al quale più tardi, e non a torto, venne imposto il nome di "Lucifero", sapeva come impiegare l'onniscienza meglio e più spesso di suo padre. Sembra che egli fosse il solo tra i figli di Dio a sviluppare una tale capacità d'iniziativa. Era certamente lui quello che disseminava lungo la via di Yahwèh tutti quegli incidenti imprevisti noti nell'onniscienza come necessari o addirittura indispensabili allo sviluppo e alla conclusione del dramma divino. Il caso decisivo di Giobbe, che era uno di questi incidenti, non si era infatti prodotto che in seguito all'intervento di Satana.

La vittoria del più debole, della vittima che ha sofferto la violenza, è illuminante: Giobbe era moralmente superiore a Yahwèh. L'essere creato aveva superato il creatore. Come sempre, quando un avvenimento esterno tocca una conoscenza inconscia, questa può divenire cosciente. Si riconosce l'avvenimento come un déjà vu e ci si ricorda di una conoscenza preesistente. Qualcosa del genere deve essere avvenuto con Yahwèh. La superiorità di Giobbe non può venire più eliminata. Si è creata così una situazione che ora esige realmente meditazione e riflessione. È per questo motivo che la Sophia interviene. È a lei che si deve la necessaria meditazione su sé stesso attraverso la quale Yahwèh può giungere alla decisione di divenire Lui stesso un uomo. Questa è una decisione gravida di conseguenze: egli si innalza al di sopra del suo stato di coscienza primitivo riconoscendo indirettamente che l'uomo Giobbe gli è moralmente superiore e che perciò egli deve ancora raggiungere il livello del modo di essere umano. Se non avesse preso questa decisione si sarebbe posto in flagrante contraddizione con la sua onniscienza. Yahwèh deve divenire uomo, perché è ai danni di questi che Egli ha commesso ingiustizia. Lui, il guardiano della giustizia, sa che ogni ingiustizia deve venire espiata e la Sapienza sa che anche Lui è sottomesso alla legge morale. Siccome la sua creatura l'ha superato Egli deve rinnovarsi. [E dunque la vera risposta a Giobbe sarebbe posticipata nell'incarnazione del Dio che si fa uomo e che si sacrifica per l'umanità. Giustizia è fatta e l'inferiorità morale di Yahwèh nei confronti della sua creatura è colmata. Nasce un Dio versione 2.0, tutt'altra cosa da quello ancora incosciente e primitivo dell'Antico Testamento]



Carl Gustav JungOpere. 11. Psicologia e religione, Boringhieri, 1979, pp. 348-385 (con ampi tagli e omissione delle note)

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