La religione come mezzo di integrazione sociale

È difficile trovare una terminologia neutrale, che esprima la funzione-disfunzione della religione nelle sue relazioni con l’integrazione sociale. E la mancanza di una terminologia obiettiva indica indubbiamente che manca uno studio obiettivo di questi fenomeni. Probabilmente quasi tutti ritengono che integrare una società è cosa buona, sic et simpliciter, e non fanno distinzioni fra l’integrazione come fatto generale e uno schema specifico di integrazione. Da questo punto di vista la religione, come fonte principale di integrazione, è buona e necessaria, e perciò si difendono le pratiche e le credenze religiose del momento. Secondo altri la religione è ingrediente necessario delle società bene integrate, in seguito alle passioni e alla scarsa intelligenza delle masse, che vanno protette contro le proprie insufficienze. Idea antica, esposta per esempio da Polibio, il quale loda l’onestà dei romani, che temono i propri dèi, e riconosce che i greci suoi compatrioti:

...se venisse affidato loro soltanto un talento, non dimostrerebbero fidatezza nemmeno controllati da dieci revisori, altrettanti sigilli e due volte tanti testimoni. I romani invece sono riusciti a fabbricare il vincolo principale dell’ordine sociale con una cosa che il resto del mondo esecra: la superstizione… Ma secondo me i romani hanno fatto questo considerando le masse. Se fosse possibile avere un corpo elettorale composto soltanto di saggi, questi espedienti sarebbero forse superflui, ma è un fatto che le masse sono sempre variabili, piene di passioni sregolate, umori irrazionali e collere violente, sicché altro non si può fare che dominarle col timore dell’ignoto e simili commedie.¹

E. A. Ross espone la stessa cosa in forma moderna:

Il genio che porrà la sua impronta sulle generazioni future come la mano scrive sulla tavoletta di cera, non raccomanda il proprio ideale perché giova alla società, non lo pubblicizza come mezzo di ottenere il buon ordine, sa che gli uomini non faranno agli altri ciò che vorrebbero fatto loro, né perdoneranno le offese o subordineranno gli impulsi alla ragione, per amore di utilità soltanto. Il genio che raggiunge lo scopo parte dall’alto, fin da principio; il suo sistema non è soltanto un modo migliore di tirare avanti tutti insieme: dichiara che è l’unico possibile sentiero della vita, è il modo di vivere prescritto da Dio, dalla natura dell’uomo, è la meta della storia, il destino della razza. Così avviene che gli inventori del bene e del male, gli autori degli ideali, non solo dànno alla loro sociologia la veste della morale, ma vanno più oltre e dànno alla loro morale la veste della religione.²

Molti altri ammetterebbero sì che la religione puntella l’ordine sociale, ma non vi vedrebbero un oggetto di manipolazioni coscienti della classe dirigente e, come Platone, tratterebbero la religione con maggior rispetto.
Altri autori, partendo da premesse di valore diverse, pur ammettendo che la religione dà coesione alla società, parlerebbero di rigidità, non di coesione. Secondo questo punto di vista, le tendenze esplosive delle società sono tenute a freno dalle credenze e dalle pratiche religiose, ma questo avviene a beneficio dell’oligarchia dominante, e invece le energie creative della grande maggioranza sono represse. Naturalmente questa è l’interpretazione di Marx, con la sua tesi che “la religione è l’oppio del popolo”, ma un tal giudizio critico della religione tradizionale può appartenere anche ad altri, in netto contrasto con Marx circa il modo di affrontare la situazione. È sorta così una grande varietà di progetti per raggiungere con mezzi nuovi l’integrazione della società: vanno dall’umanismo scientifico al marxismo scientifico, ed è paradossale che il marxismo, malgrado la sua energica offensiva antireligiosa, si possa facilmente interpretare come movimento religioso. Lungi dal distruggere l’idea che è necessario un sistema integrante di valori, il marxismo si offre a sostituire tali sistemi.

[…]

Ogni società deve avere uno schema di coercizione “al di là della politica”, che riduca la necessità della coercizione e tenga a freno le autorità stesse. Questa suprema base dell’ordine sociale riposa su quel che il Davis chiama “i supremi fini comuni”, socializzati nei singoli membri della società come loro valori basilari. Sono valori posseduti in comune, immuni da concorrenza, termine di paragone di tutti gli altri beni derivati.

… questi fini si riferiscono non tanto ad uno stato futuro dell’individuo, quanto allo stato futuro di altri individui, e in ultima analisi al gruppo. ...Fra due gruppi diversi con serie del tutto diverse di fini supremi comuni, non c’è ricorso. Ma entro la stessa comunità questo tipo di fini rappresenta la caratteristica integrante.³

Come si colloca la religione entro questo quadro? Nelle società statiche ed isolate, la risposta è più chiara che nelle società in trasformazione: la religione, nella misura in cui è accettata, dà mediante i suoi riti ed i suoi simboli un sostegno emotivo ai valori fondamentali di una società; attenua la durezza della lotta per impadronirsi dei valori scarsi, insistendo su valori che tutti possono raggiungere (ad esempio, la salvezza). Diminuisce la tensione di chi non è riuscito a raggiungere il livello desiderato di valori della società con mezzi ammessi, mettendo in rilievo valori sopramondani. Ogni società possiede un sistema trascendente di unificazione dei valori, che va oltre l’integrazione nata dalla socializzazione e dal controllo sociale (nei loro aspetti laici), oltre l’integrazione politica ed economica, oltre la pratica di concentrare su capri espiatori o su nemici esterni, le ostilità disintegrative. Tale sistema trascendente va oltre la politica, anzi, spesso, oltre la storia. 

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¹ Citato da Homer Smith, Man and His Gods, pp. 166-167.
² E. A. Ross, Social Control, pp. 358-359.
³ R. Merton, Social Theory and Social Structure, p. 30.


J. Milton Yinger, Sociologia della religione, Boringhieri, 1961 (ed. or. 1957), pp. 70-71 e 75 (sottolineature mie).

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