I motivi del trionfo del cristianesimo

Uno dei motivi del trionfo del Cristianesimo fu semplicemente la debolezza e la stanchezza dei suoi oppositori: il paganesimo aveva perduto la fede sia nella scienza che in se stesso.

D'altro canto, si pensava che valesse la pena di vivere per il Cristianesimo perché si credeva che valesse la pena di morire per esso. È evidente che Luciano, Marco Aurelio, Galeno e Celso erano tutti, loro malgrado, impressionati dal coraggio dei cristiani di fronte alla morte e alla tortura. E questo coraggio dev'essere stato il motivo iniziale di molte conversioni (quello di Giustino non è che un esempio). Noi abbiamo imparato dall'esperienza moderna del martirio politico che il sangue dei martiri è realmente il seme della Chiesa, sempreché il seme  cada sul terreno adatto e non sia seminato troppo fitto. Ma i martiri pagani sotto il dominio cristiano furono pochi, non perché il Cristianesimo fosse più tollerante, ma perché il paganesimo era ormai troppo povera cosa per valere il sacrificio della vita.

Ci furono, naturalmente, altri motivi per il trionfo del Cristianesimo. Io non discuterò i meriti intrinseci del credo cristiano, ma finirò questo capitolo ricordando brevemente alcune delle condizioni psicologiche che favorirono il suo sviluppo e contribuirono alla sua vittoria.

In primo luogo, il suo assoluto esclusivismo, il suo rifiuto a concedere ogni valore a forme alternative di culto, che oggi è spesso sentito come una debolezza, era nelle circostanze del tempo una sorgente di forza. La tolleranza religiosa, che era la normale prassi greca e romana, aveva portato per accumulazione ad una massa spaventosa di alternative. C'erano troppi culti, troppi misteri, troppe filosofie della vita fra cui scegliere: si poteva accumulare un'insicurezza religiosa sull'altra, e non sentirsi ancora sicuri. Il Cristianesimo fece piazza pulita, e sollevò il fardello della libertà dalle spalle dell'individuo: una scelta, una sola irrevocabile scelta e la via della salvezza era sgombra. I critici pagani potevano farsi beffe dell'intolleranza cristiana, ma in un'epoca d'angoscia ogni credo « totalitario » esercita una potente attrattiva: si pensi soltanto al fascino del comunismo su tanti animi sgomenti ai giorni nostri.

In secondo luogo, il Cristianesimo era aperto a tutti. In via di principio, esso non faceva distinzioni sociali, accettava i lavoratori manuali, gli schiavi, gli esiliati, gli ex-criminali; e benché nel corso del nostro periodo [II-IV secolo dell'era volgare] assumesse gradualmente una forte struttura gerarchica, la sua gerarchia offriva ampie possibilità di carriera alle persone dotate. Soprattutto, il Cristianesimo non richiedeva, come il Neoplatonismo, una cultura. Clemente poteva sorridere delle bizzarre credenze dei simpliciores, Origene poteva dichiarare che la vera conoscenza di Dio era limitata a « pochissimo fra i pochi »; ma il concetto che « trenta e lode è la media, al servizio di Dio » (per servirci della espressione coniata una volta da Arthur Nock) era originariamente estraneo allo spirito del Cristianesimo, e nel complesso lo rimase. Nel secondo e anche nel terzo secolo la Chiesa cristiana era ancora in larga misura (sia pure con parecchie eccezioni) un esercito di diseredati.

In terzo luogo, in un periodo in cui la vita terrena era sempre più svalutata e i sentimenti di colpa largamente prevalenti, il Cristianesimo fece ai diseredati la promessa condizionata di un retaggio migliore in un altro mondo. Lo stesso facevano parecchi dei suoi antagonisti pagani, ma il Cristianesimo brandiva un bastone più grande, e una carota più saporita. Lo si accusava di essere una religione di paura, e tale indubbiamente era nelle mani dei rigoristi; ma era anche una religione di vive speranze, sia nei termini grossolani descritti ad esempio da Papias, sia nella versione razionalizzata offerta da Clemente e da Origene. Porfirio notava, come altri hanno fatto in seguito, che solo le anime malate hanno bisogno del Cristianesimo. Ma le anime malate erano numerose nel nostro periodo: Peregrino ed Elio Aristide non sono degli stravaganti isolati; Porfirio stesso era abbastanza malato da contemplare l'idea del suicidio, e ci sono prove per pensare che in questi secoli un buon numero di persone fossero consciamente o inconsciamente innamorate della morte. Per  uomini del genere l'occasione del martirio, che portava con sé la fama in questo mondo e la beatitudine nell'altro, non poteva che accrescere le attrattive del Cristianesimo.

E infine i vantaggi di una conversione al Cristianesimo non erano limitati al mondo di là. Una congregazione cristiana era fin dall'inizio una comunità in un senso molto più pieno di quanto lo fosse qualsiasi gruppo corrispondente di devoti isiaci o mitriaci. I suoi membri erano tenuti insieme non solo da riti comuni, ma anche da un modo di vivere comune, e, secondo l'acuta osservazione di Celso, dal loro comune pericolo. La loro prontezza nel portare aiuto materiale ai confratelli in cattività o in altre strettezze è attestata non soltanto dagli scrittori cristiani, ma da Luciano, un testimone non animato certo da grande simpatia. L'amore per il prossimo non è una virtù esclusivamente cristiana, ma si direbbe che nel nostro periodo i cristiani l'abbiano messa in pratica molto più concretamente di qualsiasi altro gruppo. La chiesa offriva le assicurazioni sociali fondamentali: si curava delle vedove e degli orfani, dei vecchi, dei disoccupati, degl'inabili; contribuiva alle spese per i funerali dei poveri e provvedeva al servizio di infermeria durante i periodi di epidemie. Ma ancor più importante, suppongo, che questi vantaggi materiali era il senso di appartenenza che poteva dare una comunità cristiana. I moderni studi sociologici ci hanno familiarizzato con l'universalità del « bisogno di appartenere » e dei modi inattesi in cui esso può influire sul comportamento umano, specialmente fra gli abitanti sradicati delle grandi città; e non vedo ragione di pensare che nell'antichità le cose andassero altrimenti. Epitteto ci ha lasciato la descrizione del terribile senso di isolamento che può ossessionare un uomo in mezzo ai suoi simili; e un isolamento del genere dev'essere stato sentito da milioni di persone: dai membri inurbati delle tribù, dai contadini venuti in città in cerca di lavoro, dai soldati smobilitati, dai reddituari rovinati dall'inflazione, dagli schiavi liberati. Per chi si trovasse in una situazione del genere, l'appartenenza a una comunità cristiana era l'unica maniera possibile di conservare il rispetto di sé e di dare alla propria vita una parvenza di significato. Dentro alla comunità c'era calore umano: qualcuno si interessava a loro, sia nella vita presente che in quella futura. Non meraviglia quindi che i primi e i più notevoli progressi del Cristianesimo siano stati compiuti nelle grandi città, ad Antiochia, a Roma ad Alessandria. I cristiani erano « membra dello stesso corpo » in un senso ben più che formale: e io penso che questa sia stata una causa importantissima, forse la più forte tra le cause singole, della diffusione del Cristianesimo1.

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1. Cfr. A. J. Festugière, « Rev. de Théol. et de Phil. » 1961, p. 31: « S'il n'y avait eu cela, le monde serait encore païen. Et le jour où il n'y aura plus cela, le monde redeviendra païen ». Sembra che Giuliano abbia avuto un'opinione analoga: egli attribuisce il successo dei cristiani alla « loro filantropia nei confronti degli estranei, al loro zelo nel seppellire i morti, e alla pretesa austerità del loro tenore di vita » (Epist. 84 a Bidez-Cumont, 429 d; [...]).


Eric R. Dodds, Pagani e cristiani in un'epoca di angoscia. Aspetti dell'esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, La Nuova Italia, 1990 (ed. or. 1965), pp. 130-136 [Ho omesso diverse note. Sottolineature mie]

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