La condizione servile nell'economia agricola dell'Impero romano e le origini della crisi monetaria

Nel 1896 [Max Weber] scrisse uno studio su Le origini sociali del tramonto della cultura antica. Rileggerlo, dopo 62 anni, è una meraviglia: sembra scritto ieri [...] Max Weber [...] impostò il suo saggio sul grande tema che appassionava gli uomini della seconda metà dell'Ottocento: la concentrazione della proprietà immobiliare e il fondamento del lavoro salariato. [quello che segue è un brano tolto dall'opera di Weber appena citata dall'autore]

In base alle fonti, noi possiamo farci un'immagine, la più chiara possibile, della vita agricola del mondo romano nella tarda repubblica e nell'impero. La grande proprietà fondiaria è la forma essenziale di ricchezza; sulla sua base poggiano i patrimoni impiegati nelle speculazioni... Il campo è fondato sul lavoro a piantagioni, e i lavoratori di questo sono schiavi. La familia degli schiavi e i coloni, l'una accanto agli altri, sono, anche in età imperiale, i normali abitatori delle grandi proprietà. Consideriamo qui, in primo luogo, gli schiavi. Qual è la loro condizione?
Guardiamo lo schema ideale che ci viene tramandato dagli antichi autori di scritti sull'agricoltura. L'abitazione dello «strumento parlante» o instrumentum vocale (cioè degli schiavi) la troviamo vicina a quella degli animali o instrumentum semivocale. Essa si compone dei dormitori, del lazzaretto (valetudinarium), del carcere, dell'officina pei lavoratori o ergastulum; insomma risveglia subito l'immagine della caserma... Ed in realtà la vita dello schiavo è normalmente una vita di caserma. Dormono e mangiano insieme sotto la sorveglianza del villicus... Il lavoro è disciplinato in maniera rigidamente militare... Ciò era di fatto necessario; senza la frusta non si può ottenere un lavoro produttivo da uomini non liberi. Ma per noi è soprattutto importante un momento che si deduce da questa forma della vita di caserma: lo schiavo accasermato non soltanto non ha proprietà, ma non ha neanche famiglia. Solo il villicus vive stabilmente nella sua cella separata insieme con una donna in un matrimonio schiavile o contubernium: più o meno come il sottufficiale o il maresciallo d'alloggio nella caserma moderna; anzi, secondo gli scrittori di agricoltura, questa sistemazione del villicus è una regola obbligatoria nell'interesse del padrone. E poiché proprietà e vita familiare sono sempre in rapporto fra loro, così questo fenomeno può constatarsi anche nel caso del villicus: egli ha un suo peculium... Ma alla grande massa degli schiavi manca tanto il peculium quanto un normale rapporto di unione monogamica... E la mancanza della famiglia monogamica trae con sé delle conseguenze. L'uomo può fiorire solo in grembo alla famiglia. Dunque, la caserma di schiavi priva di famiglie schiavili, non poteva riprodursi da sola; per crescere e rinnovarsi essa dovette ricorrere al continuo acquisto di schiavi... L'antico sistema schiavistico divora gli uomini, come l'altoforno il carbone. Il mercato schiavistico, con continuo nuovo acquisto di materiale umano, è premessa necessaria per la caserma di schiavi...: perciò esso dipende dalla ininterrotta importazione di uomini nel mercato.
Gli scrittori più tardi di agricoltura danno l'impressione che il rincaro del materiale umano conducesse in un primo tempo al miglioramento della tecnica, per via della formazione di operai specializzati. Ma dopo la fine delle ultime guerre di aggressione del II secolo (le quali effettivamente avevano già assunto il carattere di cacce di schiavi), si ebbe la crisi delle grandi piantagioni, con i loro schiavi a cui erano negati matrimonio e proprietà.
Che ciò sia avvenuto e come sia avvenuto, ce lo mostra il confronto fra le condizioni degli schiavi di latifondi che ci vengono descritte dagli autori romani e le condizioni degli schiavi nei latifondi di età carolingia, come le conosciamo dal capitulare de villis imperialibus e dagli inventari dei monasteri di quel tempo. In entrambe le epoche troviamo lo schiavo come lavoratore di campagna, privo di diritti e soprattutto sottomesso all'assoluta autorità del padrone sul suo lavoro. Dunque, per questo rispetto non c'è alcuna differenza... Ma per un rispetto c'è una differenza, e radicale: gli schiavi romani vivono nella caserma «in comune» di schiavi; il servus dell'età carolingia vive invece nel mansus servilis, sulla terra che il signore gli ha concesso con l'obbligo di servizi personali. Così lo schiavo è ridato alla famiglia, e con la famiglia si è anche formato il possesso di beni da parte dello schiavo. Questa separazione dello schiavo dallo oikos si è compiuta in età tardoromana ed in realtà essa doveva essere una conseguenza del mancato incremento delle caserme di schiavi. E mentre allora lo schiavo salì socialmente fino alla posizione di contadino obbligato a servizi personali, nello stesso tempo il colono scese alla condizione di contadino legato alla terrra (servo della gleba).
D'altra parte, era impossibile produrre per la vendita con i semplici mezzi offerti dal lavoro di «corvata», o servizi personali, del colono; per una produzione volta alla vendita era necessaria la disciplinata caserma degli schiavi... Lo scopo precipuo dello οἶκος è, sempre più, quello di coprire i bisogni del proprietario attraverso la divisione del lavoro. I latifondi si staccano dal mercato della città.
Su questa decadenza della città (in epoca tardoromana) opera, determinandola, la politica finanziaria statale. Anche quest'ultima, con aumentate esigenze finanziarie, assume sempre più carattere di economia naturale ed il fisco diventa un οἶκος il quale per le sue esigenze ricorre al mercato nella misura minima possibile rendendo difficile per questa via, la formazione di patrimoni monetari... Piuttosto, con la decadenza delle città e delle comunicazioni, e col ricadere nell'economia naturale, andò sempre più perduta, per la campagna, la possibilità di una tassazione su base monetaria.
Quando poi, mezzo millennio dopo, Carlomagno, tardo esecutore testamentario di Diocleziano, di nuovo diede vita all'unità politica dell'Occidente, questa vicenda si verificò su base economica strettamente naturale... È scomparsa la città: l'età carolingia non conosce la città come concetto specificamente amministrativo. Portatrici della cultura sono le signorie fondiarie. La cultura è divenuta rurale.
La famiglia singola e la proprietà privata furono ridate alle masse dei non liberi; e questi da instrumentum vocale furono sollevati lentamente fino al cerchio dell'umanità, e la loro vita familiare fu circondata di garanzie morali ad opera del Cristianesimo... La vita spirituale dell'Occidente cadde in una notte oscura; ma il suo tramonto ricorda quel mitico gigante, il quale acquistava nuova forza, quando riposava sul seno della Madre Terra.

[...]

Il processo logico del suo ragionamento è chiaro: la vita cittadina e la connessa economia monetaria, fondata sui traffici commerciali, era possibile solo fino a quando le proprietà fondiarie fossero coltivate da schiavi in «caserme», senza moglie né figli; finite le guerre di conquista, e con esse le importazioni di schiavi, fu necessario ricorrere a schiavi accasati, con le loro compagne e i loro figli, oppure a liberi coloni legati alla gleba; ma quando lo schiavo ebbe una famiglia, l'economia rurale di οἶκος (cioè, economia chiusa) si sostituì all'economia monetaria, i traffici scomparvero, ed il fisco, divenuto anch'esso οἶκος, richiese una tassazione su base naturale. I punti dominanti in questa interpretazione weberiana sono due. Primo: l'economia di traffico fu possibile solo fino a quando ci furono caserme di schiavi senza famiglia, e dunque guerre di conquista che garantissero una continua importazione di essi. Secondo: il fisco è un οἶκος che potrebbe tendere a forme di economia naturale piuttosto che monetaria. esaminiamo entrambi questi due punti, cominciando dal primo.

È vero che, come il Weber ritiene, l'economia a schiavi accasermati (cioè schiavi senza donne e figli) tramontò per l'esaurimento delle guerre di conquista? E che la crisi di questa economia, costringendo a dare allo schiavo una donna e un peculium, fece stagnare i traffici e condusse, perciò, all'economia domestica? La risposta è possibile solo se consideriamo più da vicino questo importante e doloroso spettacolo che il mondo romano ci offre: la vita dello schiavo contadino. (Gli schiavi di città erano assai più fortunati: molto più facili per essi le manomissioni, molto più legati ad essi i padroni o le padrone.) Cerchiamo di interrogare l'animo di uno schiavo di campagna dell'età catoniana e varroniana, nel secondo e primo secolo avanti Cristo; ché questa fu la grande età dell'economia servile.

Per un principio che sempre dominò indiscusso, questo schiavo, come del resto ogni uomo di condizione servile, non ha diritto alcuno. Perciò non ha neanche diritto all'amore. Egli è veramente una bestia parlante, instrumentum vocale; Catone gli concede, a certe condizioni, amori occasionali e tristi - ma l'amore vero non mai, e tanto meno la compagna di sempre. (Solo allo schiavo che presiede ai lavori, il villicus o massaio, Catone dà la compagna, la villica.) Per questa parte, dunque, Max Weber ha senz'altro ragione: lo schiavo non ha famiglia. Ma, se interroghiamo ancora più a fondo l'animo dello schiavo di quell'epoca, cominciamo a intuire che egli sente il peso della sua vita da bestia. Reagisce. L'operetta di Catone ci dà l'immagine della schiavitù rurale nella prima metà del secondo secolo a. C.; già nella seconda metà di questo stesso secolo (precisamente nel 135-132 e 104-101) si hanno le due grandi rivoluzioni di schiavi in Sicilia. Gli schiavi, uomini che non possono amare, vedono nel lavoro una maledizione peggiore della morte. Non possono amare; e neanche bere vino; ché ad essi è riservata la lora, l'acquerello fatto con vinacce, che non è alcoolico e dovrebbe servire da surrogato, incapace di eccitar la protesta.

Ma nessun abbrutimento razionale può distruggere, nell'uomo, l'umanità. L'animo degli schiavi non ha perduto quella coscienza morale, che il diritto della conquista cercò di strappare ad essi; per esempio, i ribelli del 135 risparmiano la figlia generosa di un crudelissimo padrone. Solo il loro risentimento è duro come il metallo di cui si faranno, un giorno, i collari che li riportano, fuggitivi, nel carcere di fatica.

In queste condizioni, il lavoro degli schiavi in un sistema di economia a piantagioni non può essere così redditizio come potrebbe immaginarsi. I padroni romani cominciano ad accorgersi di una cosa importante: che lo schiavo accasato, con  moglie e figli, si affeziona alla terra e produce di più. Naturalmente, non ne traggono subito tutte le conseguenze. Ma non c'è dubbio che i più intelligenti fra essi abbiano fatto questa constatazione. Varrone, che compilò il suo lavoro sull'agricoltura nel 36 a. C., la trovava già in un suo predecessore, Cassio, che aveva pubblicato la sua opera nell'88 a. C. Ed anche in Cassio trovava la constatazione che è necessario impiegare, accanto agli schiavi, dei liberi salariati: evidentemente, già allora il lavoro libero appariva assai utile, in concorrenza col lavoro servile.

La caserma di schiavi era destinata dunque a tramontare, perché molte considerazioni suggerivano la necessità di cointeressare lo schiavo alla produzione, di dargli una famiglia e un peculio. In questo senso, dunque, potremo in parte rettificare il primo punto della dottrina di Weber. Vale a dire: non tanto la fine delle guerre di conquista, quanto la stessa esigenza di un maggior rendimento economico consigliò spesso la sostituzione dello schiavo accasato allo schiavo accasermato, e l'impiego sempre maggiore di manodopera o, come si diceva, di coloni. L'economia a piantagioni con caserme di schiavi fu in fondo un fenomeno dovuto all'influsso dell'agronomia cartaginese sulla romana; nel Maghreb dominato da Cartagine, essa era stata a lungo possibile, nel mondo romano fu scossa largamente dalle guerre servili del secondo e primo secolo avanti Cristo, e dalle sopravvenute esigenze culturali ed economiche. Forse si potrebbe dire, in un certo senso, che quell'economia a piantagioni fu piuttosto una parentesi (seppur di grande importanza) nella storia d'Italia; per esempio, l'Etruria era stata un paese classico di servi-coloni con famiglia (gli etera  e i lautn-etera) e tale continuò ad essere anche nel secondo e primo secolo, quando in essa si importò manodopera proveniente dai paesi ellenistici. Il sistema di coltivazione mediante schiavi accasati o liberi coloni potrebbe considerarsi, da questo punto di vista, la vittoria di una tradizione in un certo modo italica (per lo meno etrusca) sui metodi di coltivazione latifondistica nell'Africa cartaginese. In ogni modo, la crisi di quel sistema, lungi dal provocare un arresto dell'economia di traffico, coincise con un risveglio della sensibilità economica, sollecitata dalla borghesia dei nuovi ricchi, i Trimalcioni del primo secolo. Essi avranno pensato che l'allevamento degli schiavi è, in fondo, una spesa che vale la pena di affrontare, per avere manodopera cointeressata e non troppo ostile. erano uomini abbastanza intelligenti, i Trimalcioni del primo secolo dopo Cristo: venivano dalla gavetta, e sapevano fare i loro calcoli. Petronio ne ha ritratto uno in maniera indimenticabile.

Trimalcione  voleva danzare. Ma tutt'a un tratto entrò un ragioniere, che si mise a leggere solennemente, come se si trattasse della Gazzetta Ufficiale di Roma: «Giorno 7 avanti le Calende di Sestile; nel fondo cumano, che è di Trimalcione, son nati schiavetti 30, schiavette 40; portati in granaio dell'aia moggi di frumento 500.000; bovi aggiogati 500. Stesso giorno: Mitridate schiavo è stato crocifisso, perché bestemmiò il Genio del nostro (imperatore) Caligola. Stesso giorno: si portarono in cassaforte sesterzi 10.000.000 che non furono potuti impiegare. Stesso giorno: scoppiato incendio nei Giardini Pompeiani, partito dalla casa dello schiavo-massaro Nasta». «E che» interruppe Trimalcione «quando mai mi sono stati comprati giardini a Pompei?» «L'anno scorso», rispose il ragioniere, «e appunto perciò ancora non sono stati registrati nel libro mastro». Trimalcione andò su tutte le furie: «Ogni volta che mi comprano fondi, se non lo saprò entro il sesto mese, proibisco che siano registrati nei miei libri». Poi si lessero gli editti degli edili e i testamenti dei guardiaboschi... e l'elenco degli schiavi-massari...

Questa «Gazzetta Ufficiale» del latifondo di Trimalcione è spassosa, ma è anche indicativa. In realtà, il mondo del romanzo di Petronio è fatto di latifondi e di schiavi che lì nascono, crescono e fors'anche lì potrebbero far fortuna: nel secolo seguente, all'età di Marco e di Commodo, il romanzo di Apuleio ci presenta invece fondi coltivati non da schiavi ma da «coloni». Ormai lavoro servile e lavoro libero vivono insieme, l'uno accanto all'altro, e si avvicinano l'uno all'altro. Si afferma il principio che non è umano separare lo schiavo dalla sua compagna; e d'altra parte, il libero colono, che come uomo libero non potrà mai avere limitazioni ai suoi diritti di famiglia, e dopo il lavoro può sorridere ai suoi figli e alla compagna, deve tuttavia prestare servizi personali al padrone. Il lavoro servile aveva per il padrone questo vantaggio, che gli schiavi non potevano essere reclutati in servizio militare: un punto di grande rilievo, che ci sembra un'importante ragione del persistere della schiavitù. Ma il lavoro libero aveva anche i suoi lati di utilità. L'uno e l'altro finirono col conguagliarsi tra loro. La trasformazione non fu determinata dalla fine delle guerre di conquista.

Da Marco Aurelio in poi, sino a tutto il basso impero, molti barbari vinti divennero laeti. Così essi non venivano ridotti in schiavitù, ma stanziati nelle campagne a lavorare le terre dette appunto laeticae; stanziati, naturalmente, cum opibus liberisque, «con mezzi e figli». E tuttavia: ancora nell'estremo crepuscolo della grandezza romana, sotto Stilicone, la grande vittoria contro Radagaiso nel 406 gettò sul mercato un'enorme quantità di schiavi ostrogoti; in casi come questo, la guerra vittoriosa dava come risultato la schiavizzazione dei barbari, non già l'insediamento di essi come laeti. Ma il problema economico dell'impero non si risolveva né con l'introduzione di manodopera barbara libera né (tanto meno) con la schiavizzazione di barbari sconfitti. Esso era al di là del binomio lavoro libero e lavoro servile.

Se vogliamo ancor meglio esaminare la questione «weberiana» del rapporto tra guerre di conquista ed economia a schiavi, sarà opportuno volgere lo sguardo verso una regione di enorme importanza storica; la Pannonia [...] Com'erano coltivati i fondi di questo paese? Il grande storico russo Rostovzev pensò, con acuta intuizione, che i campi pannonici fossero coltivati a schiavi [...] E si capisce: la Pannonia in Europa, la Mauretania in Africa erano regioni di confine, dove operazioni di guerra o attività di commercio dovevano incrementare notevolmente, ancora nel basso impero, il mercato di schiavi.

Ma le conseguenze di questa economia a schiavi furono ancor una volta rovinose. La presenza di una forte manodopera servile tende a umiliare il lavoro libero: finisce col sopprimere la differenza salariale tra il colono teoricamente libero e il contadino-schiavo di robusta provenienza barbarica. Difatti, i coloni di Pannonia continuamente vorrebbero fuggire dai fondi, sicché gli imperatori sono costretti a insistere (nel 371) sull'obbligo dei coloni pannonici alla servitù della gleba. Si verificava, dunque, nella Pannonia del basso impero, quel fenomeno che già si era verificato in Italia e in Sicilia cinque secoli prima: stanchezza e insofferenza degli schiavi; e si aggiungeva ad essa, gravissima, l'insofferenza dei coloni che qui, più assai che in altre regioni, erano conguagliati agli schiavi.

La crisi dell'impero non fu dunque dovuta al ristagno dell'importazione di schiavi; ma, se mai, fu proprio più acuta nelle regioni che avevano una forte presenza di manodopera schiava. Difatti i contadini pannonici sono uomini presi dalla disperazione. Non riescono a pagare le tasse. Invocano la presenza dei barbari come una liberazione; nel 406, in questo momento cruciale dell'età stiliconiana, essi muovono dalla Pannonia verso la lontana Gallia, alla conquista dell'impero, insieme coi barbari invasori. Vinsero; uniti ai barbari devastarono l'Occidente. [...]

Questa dei Pannoni è la ribellione degli oppressi, che hanno scelto la via suggerita dalla disperazione. [...]

Ormai possiamo dire con certezza che la fine del mondo antico non fu determinata dalla rinunzia alle guerre di conquista, con il loro strascico di masse infelici tratte in schiavitù. Per questo punto, insomma, ci siamo allontanati da Weber. Ma resta viva, dell'opera weberiana, l'intuizione centrale: la campagna ha acquistato un'importanza sempre maggiore. L'economia è divenuta, sempre più, economia di οἶκος, e la signoria fondiaria ha staccato la città dalla campagna.


Santo Mazzarino, La fine del mondo antico. Le cause della caduta dell'impero romano, Bollati Boringhieri, 2015 (ed. or. 1959), pp. 139-151 [ho omesso le note].

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