Il mito della "dependencia" come giustificazione del sottosviluppo dell'America Latina

[Il capitolo 9 del libro di Fukuyama intitolato "La vittoria del VCR" lo riporto per intero data la sua straordinaria chiarezza con cui l'autore confuta la fallacia delle teorie della "dependencia" sudamericane]

Il fatto che il capitalismo sia stato in un certo senso inevitabile per i paesi avanzati, e che il socialismo marxista-leninista abbia costituito un grosso ostacolo alla creazione di ricchezza e di una civiltà tecnologica moderna, è potuto sembrare, in quest’ultimo decennio del secolo XX, un luogo comune. Meno ovvi erano invece, per i paesi meno sviluppati che non avevano ancora raggiunto il livello di industrializzazione rappresentato dall’Europa degli anni cinquanta, i meriti che il socialismo aveva rispetto al capitalismo. Per i paesi poveri, per i quali l’era del carbone e dell’acciaio era ancora un sogno, il fatto che l’Unione Sovietica non fosse la punta di diamante delle tecnologie dell’era dell’informazione colpiva molto meno del fatto che in una sola generazione essa avesse creato una società industriale e urbana. La pianificazione centralizzata socialista continuava ad affascinare perché essa offriva un mezzo rapido per l’accumulazione del capitale e un modo “razionale” per indirizzare le risorse nazionali verso uno sviluppo industriale “bilanciato”. L’Unione Sovietica era riuscita a fare tutto questo comprimendo il suo settore agricolo con il terrore degli anni venti e trenta, mentre per portare a termine questo processo gli imprenditori industriali dell’Inghilterra e degli Stati Uniti ci avevano messo un paio di secoli.

L’argomento che individuava nel socialismo la strategia più adatta per lo sviluppo dei paesi del Terzo mondo era notevolmente rafforzato dall’incapacità apparentemente cronica del capitalismo di produrre un prolungato sviluppo economico in regioni come l’America Latina. In realtà si può affermare con tutta tranquillità che se non fosse stato per il Terzo mondo il marxismo sarebbe morto molto prima. Ma la persistente povertà del mondo sottosviluppato ha soffiato nuova vita in questa dottrina, permettendo alla sinistra di attribuire le colpe della povertà prima al colonialismo, poi, quando il colonialismo non c’era più, al “neocolonialismo”; e infine al comportamento delle società multinazionali. Il tentativo più recente di tenere in vita nel Terzo mondo una forma di marxismo è stata la cosiddetta teoria della dependencia (“dipendenza”). Elaborata soprattutto nell’America Latina, essa ha dato negli anni sessanta e settanta una coerenza intellettuale alle rivendicazioni del Sud povero del mondo nei confronti del Nord ricco e industrializzato. Alleata del nazionalismo di questo Sud, la teoria della dipendenza ha assunto un’importanza maggiore di quanto le consentissero le sue puntellature intellettuali, e ha avuto, per quasi un’intera generazione, un effetto corrosivo sulle prospettive di sviluppo economico in molte parti del Terzo mondo. Il vero padre della teoria della dipendenza è stato lo stesso Lenin. Nel suo ben noto opuscolo del 1914, L’imperialismo come fase suprema del capitalismo, egli cercò di spiegare come mai il capitalismo europeo non avesse portato a un impoverimento continuo della classe operaia, ma avesse in realtà permesso un innalzamento del suo livello di vita e il sorgere, tra i lavoratori europei, di una mentalità tradunionista, cioè di gente abbastanza soddisfatta. E spiegava che il capitalismo aveva guadagnato tempo esportando lo sfruttamento nelle colonie, dove la manodopera indigena e le materie prime potevano assorbire il capitale europeo «in eccedenza». La concorrenza tra «capitalisti monopolistici» aveva portato alla divisione politica del mondo sottosviluppato, e infine al conflitto, alla guerra e alla rivoluzione tra i medesimi.

Lenin affermava, contrariamente a Marx, che la contraddizione finale che avrebbe abbattuto il capitalismo non sarebbe stata la lotta di classe all’interno del mondo sviluppato, ma quella tra il Nord sviluppato e l’«intero proletariato» del mondo sottosviluppato.

Negli anni sessanta emersero diverse correnti della teoria della dipendenza; ma tutte avevano una comune origine nell’opera dell’economista argentino Raúl Prebisch. Prebisch, che negli anni cinquanta fu a capo della Commissione economica delle Nazioni Unite per l’America Latina (ECLA), e successivamente della Conferenza delle Nazioni Unite per il Commercio e lo Sviluppo (UNCTAD), faceva notare che nella «periferia» del mondo il commercio era in declino rispetto al «centro», e affermava che il lento sviluppo di regioni del Terzo mondo – quali l’America Latina – era la conseguenza del sistema capitalista che le teneva in stato di perpetuo «sviluppo dipendente». La ricchezza del Nord era perciò legata direttamente alla povertà del Sud.

Secondo la teoria liberale classica degli scambi, la partecipazione a un sistema aperto di scambi mondiali dovrebbe massimizzare i vantaggi di tutti, anche se un paese vende caffè e un altro computer. I paesi arretrati venuti per ultimi a far parte di questo sistema dovevano in realtà essere avvantaggiati nel loro sviluppo economico, dato che potevano importare la tecnologia semplicemente da quelli più sviluppati, senza doverla creare da sé. Invece secondo la teoria della dipendenza il ritardo nello sviluppo condannava un paese a un’arretratezza perpetua. I paesi avanzati controllavano il commercio mondiale e, attraverso le loro multinazionali, costringevano i paesi del Terzo mondo a quello che venne chiamato «sviluppo sbilanciato», cioè all’esportazione di materie prime e di prodotti che richiedevano poca lavorazione. Il Nord sviluppato aveva messo i cancelli al mercato mondiale di manufatti sofisticati quali le auto e gli aerei, e aveva praticamente lasciato al Terzo mondo il ruolo di «spaccare legna e attingere acqua» per il resto dell’umanità. Molti dependencistas collegavano il sistema economico internazionale ai regimi autoritari che sulla scia della rivoluzione cubana erano andati di recente al potere nell’America Latina.

Le politiche emerse dalla teoria della dipendenza erano decisamente illiberali. I dependencistas più moderati cercarono di ignorare le multinazionali occidentali e di incoraggiare l’industria locale erigendo alte barriere tariffarie contro le importazioni, una prassi nota come sostituzione d’importazioni. Le soluzioni raccomandate dai teorici più radicali della dipendenza miravano invece a minare l’assetto economico mondiale incoraggiando la rivoluzione, il ritiro dal sistema capitalistico degli scambi e l’integrazione, sull’esempio di Cuba, nel blocco sovietico. Così, agli inizi degli anni settanta, quando in paesi come la Cina e l’Unione Sovietica ci si stava rendendo conto che le idee marxiste costituivano la rovina della società, intellettuali del Terzo mondo e delle università americane ed europee le resuscitavano quale formula per il futuro dei paesi sottosviluppati.

Ma mentre gli intellettuali di sinistra continuano a baloccarsi con la teoria della dipendenza, essa – come modello teoretico – è ormai finita, e a farla saltare è stato un grande fenomeno che forse essa non può spiegarsi: lo sviluppo economico verificatosi nell’Asia orientale dopo l’ultima guerra. A parte i benefici materiali che in ogni caso ha apportato ai paesi dell’Asia, questo successo economico ha avuto l’effetto salutare di seppellire una volta per tutte teorie rovinose come quella della dependencia, che confondendo le idee sulle cause dello sviluppo economico stava diventando un ostacolo allo sviluppo stesso. Se infatti, come affermava questa teoria, il sottosviluppo del Terzo mondo fosse dovuto all’ingresso dei paesi meno sviluppati nel sistema capitalista mondiale, come spiegarsi lo sviluppo economico fenomenale verificatosi in paesi come la Corea del Sud, Taiwan, Hong Kong, Singapore, la Malaysia e la Thailandia? Semplicemente col fatto che dopo la guerra quasi tutti questi paesi si erano rifiutati di seguire politiche autarchiche e la sostituzione d’importazioni che allora erano in voga nell’America Latina, e avevano invece perseguito con fermezza un unico obiettivo: lo sviluppo basato sulle esportazioni, cercando nello stesso tempo di collegarsi, tramite le multinazionali, con i mercati e i capitali stranieri. Inoltre nessuno potrebbe affermare che questi paesi fossero partiti avvantaggiati dal possesso di risorse naturali o di capitali accumulati in passato. Infatti, diversamente dai paesi ricchi di petrolio del Medio Oriente e da certi paesi dell’America Latina ricchi di minerali, essi sono entrati in lizza senz’altra ricchezza che il capitale umano delle loro popolazioni.

L’esperienza asiatica del dopoguerra ha dimostrato che i tardi modernizzatori si sono trovati in realtà avvantaggiati rispetto alle potenze industriali più stabilizzate, proprio come avevano predetto le prime teorie liberali degli scambi. Infatti i tardi modernizzatori asiatici, a cominciare dal Giappone, hanno potuto acquistare dagli Stati Uniti e dall’Europa le tecnologie più up-to-date e, senza il peso di un’infrastruttura vecchia e inefficiente, sono riusciti nel giro di una generazione o due a diventare competitivi (molti americani direbbero troppo competitivi) anche nel campo dell’alta tecnologia. E questo si è rivelato valido non solo per l’Asia in rapporto all’Europa e al Nord America, ma anche all’interno dell’Asia stessa, dove quei paesi che come la Thailandia e la Malaysia hanno iniziato il loro processo di sviluppo più tardi del Giappone e della Corea del Sud non si sono affatto trovati in una posizione di svantaggio. Le multinazionali occidentali si sono comportate né più né meno di come prescrivono i manuali di economia liberale: hanno cioè “sfruttato” la manodopera asiatica meno costosa, ma in cambio hanno fornito mercati, capitali e tecnologia, e la diffusione della tecnologia da esse operata ha finito col permettere l’autofinanziamento dello sviluppo delle economie locali. Forse è questo che ha fatto dire a un alto funzionario della Repubblica di Singapore che le tre abominazioni che il suo paese non tollerava erano «gli hippies, i capelloni e i critici delle multinazionali».

I record battuti da questi tardi modernizzatori in fatto di sviluppo sono davvero stupefacenti. Negli anni sessanta il Giappone è cresciuto al tasso annuo del 9,8 per cento e del 6 per cento negli anni settanta; le “quattro tigri” (Hong Kong, Taiwan, Singapore, Corea del Sud) sono cresciute nello stesso periodo al tasso del 9,3 per cento; e i paesi dell’ASEAN (Association of South East Asian Nations) al tasso di oltre l’8 per cento. In Asia è possibile fare un raffronto diretto dei risultati ottenuti dai contrapposti sistemi economici. Taiwan e la Repubblica Popolare Cinese hanno iniziato tutte e due la loro separata esistenza nel 1949 con un livello di vita pressoché identico. Sotto il sistema di mercato, il PIL di Taiwan è cresciuto dell’8,7 per cento all’anno, portando nel 1989 a un PIL pro capite di 7500 $. Quello della Cina è stato invece di circa 350 $, dovuti in gran parte a quasi un decennio di riforme in senso liberista. Nel 1960 la Corea del Nord e quella del Sud avevano grossomodo eguali livelli di PIL pro capite. Ma nel 1961 la Corea del Sud abbandonò la politica della sostituzione delle importazioni e allineò i prezzi interni a quelli internazionali, per cui la sua economia arrivò in breve tempo a una crescita annua dell’8,4 per cento, raggiungendo nel 1989 il PIL pro capite di 4550 $, cioè più del quadruplo di quello della Corea del Nord. E non è che i successi economici siano stati conseguiti a spese della giustizia sociale interna. Si diceva che in Asia i salari fossero terribilmente bassi e che i governi locali avessero inaugurato politiche draconiane per soffocare la domanda di beni di consumo e costringere a economizzare al massimo. Ma dopo che, uno dopo l’altro, questi paesi ebbero raggiunto un certo livello di prosperità, la distribuzione del reddito cominciò a livellarsi rapidamente. Nel corso dell’ultima generazione Taiwan e la Corea del Sud hanno effettivamente ridotto la disparità dei redditi: mentre nel 1952 a Taiwan il 20 per cento più ricco aveva un reddito pari a 15 volte quello del 20 per cento più povero, verso il 1980 il multiplo è sceso a 4,5 volte. Se la crescita continuerà a un tasso più o meno vicino all’attuale, non c’è alcun motivo di pensare che nella prossima generazione anche gli altri paesi dell’ASEAN non seguano la stessa strada.

Nel tentativo disperato di salvare la teoria della dipendenza, alcuni dei suoi sostenitori hanno cercato di dimostrare che il successo delle economie industrializzatesi di recente (NIE) è dovuto alla pianificazione, e che alla base di tale successo non c’è il capitalismo ma la politica industriale. Ora è vero che la pianificazione economica ha in Asia un ruolo maggiore che negli Stati Uniti, ma è anche vero che i settori delle economie asiatiche in cui sono stati mietuti più successi sono in genere quelli che consentono un più alto grado di competitività nei mercati interni e di integrazione in quelli internazionali. Inoltre la maggior parte di coloro che nella sinistra citano l’Asia come un esempio positivo dell’intervento statale nell’economia non sarebbero capaci di digerire la pianificazione semiautoritaria di stile asiatico, tutt’altro che morbida nei confronti dei lavoratori e delle loro richieste. Il genere di pianificazione preferito da questa sinistra che interviene a favore delle vittime del capitalismo ha avuto storicamente risultati economici molto più ambigui.

Quello che dimostra il miracolo economico postbellico dell’Asia è che il capitalismo è una via allo sviluppo economico che tutti i paesi possono percorrere. Nessun paese sottosviluppato del Terzo mondo è svantaggiato per il solo fatto di aver iniziato il processo di sviluppo più tardi dell’Europa, né le potenze industriali già affermate possono bloccare lo sviluppo di chi arriva dopo, a condizione che questo paese segua le regole del liberalismo economico.

Ma se il sistema capitalistico “mondiale” non costituisce un ostacolo allo sviluppo economico nel Terzo mondo, perché altre economie extra-asiatiche basate sul mercato non sono cresciute con la stessa rapidità? Perché il fenomeno della stagnazione economica nell’America Latina e in altre parti del Terzo mondo non è meno reale del successo economico asiatico, ed è soprattutto a questo che si deve la nascita della teoria della dipendenza. Se noi respingiamo spiegazioni neomarxiste come la teoria della dipendenza, due altre sono le risposte possibili.

La prima è una spiegazione culturale: diversamente da quanto succede in Asia o in Europa, sarebbero cioè gli usi, i costumi, le religioni e la struttura sociale dei popoli di regioni quali l’America Latina che in qualche modo impediscono il raggiungimento di alti livelli di sviluppo economico. Ma l’argomentazione culturale è di tale importanza che vi torneremo sopra nella Parte quarta. Se però esistessero ostacoli culturali tali da rendere impossibile in certe società il funzionamento dell’economia di mercato, allora l’universalità del capitalismo come via alla modernizzazione economica sarebbe tutta da vedere.

La seconda spiegazione si basa sulle scelte politiche: il capitalismo non avrebbe mai funzionato nell’America Latina e in altre parti del Terzo mondo per la semplice ragione che non si è mai cercato seriamente di instaurarlo. In altre parole, la maggior parte delle economie dell’America Latina, che pretendono di essere “capitalistiche”, sono gravemente handicappate dalle loro tradizioni mercantilistiche e da settori statali che in nome della giustizia economica sono penetrati dappertutto. Si tratta di un’argomentazione piuttosto consistente, e dato che gli indirizzi politici possono essere cambiati più facilmente delle culture, è bene che ce ne occupiamo subito.

Mentre il Nord America ha ereditato la filosofia, le tradizioni e la cultura dell’Inghilterra emersa dalla Gloriosa Rivoluzione, l’America Latina ha ereditato molte delle istituzioni feudali della Spagna e del Portogallo dei secoli XVII e XVIII. Tra queste, la forte tendenza delle corone spagnola e portoghese a controllare, a loro maggior gloria, l’attività economica, una prassi nota come mercantilismo. Secondo uno specialista, «Dal periodo coloniale a oggi il governo [brasiliano] non è mai stato allontanato dalla sfera economica nella misura in cui questo è avvenuto nell’Europa post-mercantilista […] la corona è stata il supremo protettore economico, e tutte le attività commerciali e produttive dipendevano da licenze speciali, concessioni di monopoli e privilegi commerciali».

Nell’America Latina divenne una prassi comune per le classi più alte servirsi del potere dello stato per aumentare le loro ricchezze, e questo perché esse presero a modello l’oziosa aristocrazia terriera europea anziché le classi medie imprenditoriali venute alla ribalta dopo la conquista spagnola dell’America Latina. Sono stati i governi a proteggere queste élite dalla concorrenza internazionale attraverso la politica della sostituzione delle importazioni, adottata da molti stati latino-americani dagli anni trenta fino alla fine degli anni sessanta. La sostituzione delle importazioni ha condannato i produttori locali ai piccoli mercati interni nei quali essi non hanno potuto realizzare le economie di scala: per esempio, in Brasile, in Argentina o nel Messico, il costo di produzione di un’automobile è dal 60 al 120 per cento più alto di quello degli Stati Uniti.

La secolare predisposizione al mercantilismo si è combinata nel secolo XX col desiderio delle forze progressiste dell’America Latina di servirsi dello stato come mezzo per la redistribuzione della ricchezza dai ricchi ai poveri in nome della «giustizia sociale». Questo fenomeno ha assunto tutta una varietà di forme, tra cui la legislazione sul lavoro, introdotta in paesi come l’Argentina, il Brasile e il Cile negli anni trenta e quaranta, legislazione che ha scoraggiato lo sviluppo di quelle industrie risultate determinanti per la crescita economica asiatica. Le credenze della sinistra e della destra nella necessità di un esteso intervento statale nell’economia hanno finito così per convergere. Il risultato di questa convergenza è che molte economie dell’America Latina sono dominate da settori statali rigonfi e inefficienti che o cercano di dirigere l’attività economica direttamente o l’appesantiscono con farraginose regolamentazioni. In Brasile lo stato non solo gestisce le poste e le comunicazioni, ma fabbrica acciaio, scava ferro e potassa, conduce ricerche petrolifere, gestisce banche commerciali e investment bank, genera elettricità e costruisce aerei. Queste aziende statali non possono fallire e l’assunzione del personale è del tutto clientelare. In tutta l’economia brasiliana, e in modo particolare nel suo settore pubblico, i prezzi vengono stabiliti non tanto dal mercato quanto da un processo di negoziazione politica con i potenti sindacati.

E vediamo che cosa succede in Perù. Nel suo libro The Other Path, Hernando de Soto documenta il tentativo fatto dal suo istituto di Lima di creare una fabbrica fittizia seguendo le disposizioni di legge stabilite dal governo peruviano. Per espletare le undici procedure richieste ci vollero 289 giorni, e il costo dell’intera operazione, tra diritti e paghe perse (incluse due bustarelle), ammontò a 1231 $, pari a trentadue volte il salario minimo di un mese. Secondo de Soto la farraginosa normativa che regola la creazione di nuove attività commerciali è il maggiore ostacolo che gli imprenditori peruviani si trovano davanti, specialmente quelli poveri, e questo spiega il fiorire di un’enorme economia “informale”, cioè illegale o extralegale, attivata da gente che non vuole o non può superare le barriere che lo stato frappone al commercio. Tutte le grandi economie latino-americane hanno ampi settori “informali” che producono da un quarto a un terzo del PIL totale. Non c’è bisogno di dire che costringere l’attività economica all’illegalità difficilmente può portare a un’economia efficiente. Secondo il romanziere Mario Vargas Llosa, «uno dei miti più diffusi nell’America Latina è che la sua arretratezza sia causata dall’erronea filosofia del liberalismo economico». Ma in effetti, continua Vargas, questo liberalismo non è mai esistito; quello che è esistito al suo posto è una forma di mercantilismo, cioè «uno stato burocratico e infarcito di leggi che considera la redistribuzione della ricchezza nazionale più importante della produzione della ricchezza stessa», e una redistribuzione che prende la forma della «concessione di monopoli o di status privilegiati a un’élite ristretta che dipende dallo stato e dalla quale lo stesso stato è dipendente».

Nell’America Latina i casi di disastrosi interventi statali nell’economia non si contano. Il più noto è quello dell’Argentina, che nel 1913 aveva un PIL pro capite paragonabile a quello della Svizzera, due volte quello dell’Italia e metà di quello del Canada. Oggi le cifre parlano rispettivamente di meno di un sesto, meno di un terzo e meno di un quinto. Il lungo cammino dell’Argentina dallo sviluppo al sottosviluppo può essere fatto risalire direttamente alla sua adozione, come reazione alla crisi mondiale degli anni trenta, delle politiche basate sulla sostituzione delle importazioni. Queste politiche furono rafforzate e istituzionalizzate negli anni cinquanta sotto la leadership di Juan Perón, che si servì inoltre dello stato per cementare il proprio potere personale attraverso la redistribuzione della ricchezza alla classe operaia. Forse niente come questa lettera, che Perón scrisse nel 1953 al presidente del Cile Carlos Ibáñez, dimostra la caparbietà di cui sono capaci i leader politici nel respingere gli imperativi della realtà economica. Eccola:

Dai al popolo, e specialmente ai lavoratori, tutto quello che puoi. E quando ti sembra di aver già dato troppo, dai ancora di più. Ne vedrai i risultati. Tutti cercheranno di spaventarti con lo spettro di un collasso economico. Ma è tutta una menzogna. Non c’è niente di più elastico dell’economia, e tutti ne hanno tanta paura perché nessuno ci capisce niente.

Si deve riconoscere che i tecnocrati dell’Argentina di oggi comprendono la natura economica del loro paese meglio di quanto non l’abbia compresa Perón. L’Argentina si trova oggi ad affrontare lo spaventoso problema di smontare questa economia di stato: compito che, ironia della sorte, tocca proprio a un seguace di Perón, il presidente Carlos Menem.

Più audacemente di quest’ultimo, il presidente del Messico Carlos Salinas de Gortari ha intrapreso tutta una serie di riforme economiche di tipo liberale, tra cui la riduzione delle aliquote d’imposta e del deficit del bilancio, la privatizzazione delle aziende di stato (delle 1155 esistenti ne sono state vendute, dal 1982 al 1991, ben 875), la lotta all’evasione fiscale e alle altre forme di corruzione messe in atto da società, burocrati e sindacati, e l’apertura di colloqui con gli Stati Uniti per un patto di libero scambio. I risultati, alla fine degli anni ottanta, sono stati un triennio di crescita del 3-4 per cento del PIL a un tasso d’inflazione inferiore al 20 per cento, cioè molto basso rispetto ai livelli storici e regionali.

Perciò, come modello economico il socialismo non ha più attrattive, per i paesi in via di sviluppo, di quante non ne abbia per le società industriali avanzate. Trenta o quarant’anni fa l’alternativa socialista appariva più convincente. I leader dei paesi del Terzo mondo, nei casi in cui erano abbastanza onesti da ammettere gli enormi costi umani della modernizzazione in stile sovietico o cinese, potevano ancora affermare di sentirsi giustificati dall’obiettivo dell’industrializzazione. Le loro società erano incolte, violente, arretrate e in uno stato di estrema povertà. Essi sostenevano che nemmeno la modernizzazione economica di tipo capitalistico sarebbe stato un processo senza costi, e in ogni caso le loro società non potevano aspettare i decenni occorsi all’Europa e al Nord America per portare a compimento questo processo.

Attualmente questo argomento regge sempre meno. Le NIE asiatiche, ripetendo l’esperienza fatta dalla Germania e dal Giappone alla fine del secolo XIX e agli inizi del XX, hanno dimostrato che il liberalismo economico permette ai tardi modernizzatori di raggiungere e perfino di sorpassare quelli che hanno cominciato prima, e che questo obiettivo può essere centrato nel giro di una o due generazioni. E anche se questo non è stato un processo del tutto senza costi, il genere di privazioni e di sofferenze sopportate dalla classe operaia di paesi come il Giappone, la Corea del Sud, Taiwan e Hong Kong è stato benigno e positivo rispetto al terrore indiscriminato sofferto dalle popolazioni dell’Unione Sovietica e della Cina.

Quello che di recente è stato fatto nell’Unione Sovietica, in Cina e negli stati dell’Europa orientale per convertire le loro economie a direzione centralizzata in economie di mercato dà adito a un genere di considerazioni del tutto nuove, che dovrebbero dissuadere i paesi in via di sviluppo dallo scegliere la via socialista per raggiungere questo obiettivo. Facciamo l’ipotesi di un capo guerrigliero della giungla del Perù o di un distretto del Sud Africa che voglia preparare una rivoluzione marxista-leninista o maoista contro il governo del proprio paese. Come nel 1917 o nel 1949, egli dovrà programmare la presa del potere e l’impiego della macchina coercitiva dello stato per rompere il vecchio ordine sociale e creare istituzioni economiche nuove e centralizzate. Ma oltre a questo egli dovrà anche prevedere (ammesso di nuovo che si tratti di un guerrigliero intellettualmente onesto) che i frutti di questa prima rivoluzione non potranno essere che limitati: forse potrà sperare che nel giro di una generazione il suo paese possa raggiungere il livello della Germania Est degli anni sessanta e settanta. Questo sarebbe un risultato tutt’altro che mediocre, ma egli dovrà prevedere anche che potrebbe rimanere inchiodato a questo livello per un bel po’ di tempo. Se poi il nostro capo guerrigliero volesse andare oltre il livello di sviluppo della Germania Est, uno sviluppo raggiunto con i noti costi in termini di demoralizzazione sociale e di degrado ambientale, egli dovrebbe programmare un’altra rivoluzione, che a sua volta porterebbe alla distruzione del meccanismo della pianificazione centralizzata socialista e alla restaurazione delle istituzioni capitalistiche. Questa però sarebbe un’impresa tutt’altro che facile, perché a quel punto la sua società si ritroverebbe con un sistema di fissazione dei prezzi del tutto irrazionale, con manager senza più contatti con le tecniche aggiornate del mondo esterno e con una classe operaia senza più un briciolo dell’etica del lavoro che aveva un tempo. Di fronte a questi problemi potrebbe pensare solo che la cosa più facile per lui sarebbe quella di fare il guerrigliero del libero scambio e passare direttamente alla seconda rivoluzione, cioè quella capitalistica, senza passare attraverso la fase socialista. Il che vorrebbe dire abbattere le strutture della regulation e della burocrazia del vecchio stato, esporre le vecchie classi sociali alla competizione internazionale in modo da far loro perdere ricchezze, privilegi e status, e liberare le energie creative della propria società civile.

La logica di una scienza moderna progressista predispone le società umane al capitalismo solo nella misura in cui gli uomini riescono a vedere chiaramente il loro profitto. Il mercantilismo, la teoria della dependencia e tutta la serie degli altri miraggi intellettuali non hanno fatto altro che impedire alla gente di raggiungere questa chiarezza di visuale. Ma oggi le esperienze dell’Asia e dell’Europa orientale ci forniscono importanti prove empiriche per misurare con esattezza le pretese dei sistemi economici in competizione.

Il nostro meccanismo è ora in grado di spiegare la creazione di una cultura universale dei consumi basata sui princìpi liberali sia per il Terzo mondo che per il Primo e il Secondo. Il mondo economico enormemente produttivo e dinamico creato dal progresso della tecnologia e dall’organizzazione razionale del lavoro ha un potere omogeneizzante tremendo. Esso è capace, attraverso la creazione di mercati mondiali, di legare fisicamente tra loro società diverse di ogni parte del pianeta, e di creare aspirazioni e prassi economiche parallele in una serie di società differenti. La forza di attrazione di questo mondo crea in tutte le società umane una forte predisposizione a inserirvisi, ma l’inserimento riesce solo se vengono adottati i princìpi del liberalismo economico. E questa è la vittoria finale del VCR.


Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, 1992, pp. 117-127 [sottolineature mie; ho omesso tutte le note].

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