La "perdita dell'anima" (crisi della presenza) e il ruolo della magia

Nel mondo magico l'individuazione non è un fatto, ma un compito storico, e l'esserci è una realtà condenda. Di qui un complesso di esperienze e di rappresentazioni, di misure protettive e di pratiche, che esprimono ora il momento del rischio esistenziale magico, ora il riscatto culturale, e che formano, nella loro drammatica polarità, il mondo storico della magia. La propria presenza personale, l'esserci, l'anima, «fugge» dalla sua sede, può essere «rapita», «rubata», «mangiata» e simili; è un uccello, una farfalla, un soffio, ovvero deve essere «riparata», «recuperata»; ovvero ancora deve essere «trattenuta», «fissata», «localizzata».¹ Il Turik che crede di poter trattenere la sua anima mediante pietre unciniformi non è affatto un superstizioso in preda a falsi timori: in un mondo storico in cui il «ci sono» è esposto al rischio di non esserci, si può effettivamente non esserci sul serio, come nel caso del latah in preda alla imitazione speculare dello stormir delle fronde. E può anche darsi che la propria «anima», cioè l'esistenza come presenza, venga ghermita da altri e cada in soggezione, come nel caso della vecchia jukaghira costretta a correre dietro al cosacco. In virtù delle sue pietre unciniformi, e delle immagini e dei sentimenti che esse risvegliano (p. es., l'immagine dell'uncino), il Turik si libera dalla sua angoscia, o almeno la combatte e la riduce, conseguendo in tal guisa un riscatto reale non meno del rischio. Se la credenza e la pratica del Turik ci appaiono «superstiziose», ciò accade perché indebitamente (antistoricamente) le commisuriamo al «ci sono» deciso e garantito del nostro mondo culturale: facciamo dogmaticamente assurgere a modello valido per tutte le forme culturali il nostro modo storico di esistere come presenze unitarie, la nostra esperienza occidentale (relativamente recente) del trovarci saldamente identici nel variare dei contenuti. E poiché, effettivamente, rispetto a questo modo storico di esistere, la credenza e la pratica del Turik non ha fondamento reale, e si dispone come una sovrastruttura arbitraria, decretiamo che si tratta di una «superstizione». In realtà la nostra boria culturale ci chiude qui al dramma esistenziale magico, e ci impedisce la comprensione dei suoi temi culturali caratteristici.²

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In generale il dramma magico, cioè la lotta dell'esserci attentato e minacciato, e il relativo riscatto, insorge in determinati momenti critici dell'esistenza, quando la presenza è chiamata a uno sforzo più alto del consueto. Basta talora una semplice rottura dell'ordine abituale per impegnare la presenza nell'agone che caratterizza la magia. Di qui la «neofobia magica», il bisogno di compenso per ogni violazione della tradizione. Una capra che mangi i suoi escrementi, un bove che batta il suolo con la coda, la prima apparizione dei bianchi o della sottana dei missionari, il suono della campana della cappella missionaria, una pianta che dà frutti fuori stagione, un frutto che non è alla sommità del gambo ma nel mezzo, un duplice frutto sullo stesso gambo, un'alterazione della configurazione del paesaggio ecc. sono  accadimenti «rischiosi», e che esigono una riparazione equilibratrice. Ma la connessione del mondo magico con determinati momenti critici della presenza si rende palese in molte altre situazioni esistenziali. La lotta dell'esserci attentato e minacciato, e il relativo riscatto, è palese p. es. nella vocazione di Uvavnuk [...] Di fronte all'apparizione inaspettata e terrorizzante della meteora, la fragile Uvavnuk rischia di perdere il suo esserci: e tuttavia, nell'atto in cui la meteora è appresa come uno «spirito» che è entrato in lei, il riscatto è reso possibile. In luogo della possessione incontrollata, del crollo di ogni orizzonte della presenza, si ha qui uno «spirito», appreso come alterità da parte della presenza, ma come un'alterità culturalmente significativa e operosa, che verrà quando sarà chiamata e che farà ciò che la sciamana le chiede di fare. Anche qui, come già nel caso dell'atai, il processo di disgregazione è arrestato in virtù di un compromesso, che è quanto basta per non perdere l'anima (nel significato magico dell'espressione): un contenuto che rischiava di isolarsi, di non essere ricompreso nella energia sintetica della presenza, si tramuta in uno «spirito adiutore», padroneggiato e diretto.

In particolare, l'uomo magico è esposto al rischio della labilità nelle sue solitarie peregrinazioni, allorché la solitudine, la stanchezza connessa al lungo peregrinare, la fame e la sete, l'apparizione improvvisa di animali pericolosi, il prodursi di eventi inaspettati ecc., possono mettere a dura prova le resistenza del «ci sono». L'anima andrebbe facilmente «perduta» se attraverso una creazione culturale e utilizzando una tradizione accreditata non fosse possibile risalire la china che si inabissa nell'annientamento della presenza.

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Davanti a noi sta ora, sia pure nel suo primo abbozzo, l'immagine del mondo magico. La radice di tale mondo storico affonda in una esperienza fondamentale: la presenza in rischio, che insorge a difesa della insidia che la travaglia. La presenza non resiste allo sforzo di esserci: fugge, si scarica, è sottoposta a influenze maligne, è rubata, è mangiata, e simili. Fugge e si scarica per le aperture del corpo, è rubata nelle peregrinazioni solitarie, è attratta dal cadavere, cade in soggezione per l'apparizione di qualche evento nuovo, emozionante, che rompe l'abitudine, che attrae comunque l'attenzione. In date circostanze, la perdita di orizzonte della presenza si spinge sino al punto che si diventa una eco del mondo, ovvero un posseduto, in preda a impulsi incontrollati. Vi è un oltre rischioso della presenza, un angoscioso travaglio del suo orizzonte condendo: e, correlativamente, anche il mondo entra continuamente in crisi di orizzonte, e trapassa continuamente nell'oltre angosciante. Al limite, ogni rapporto della presenza col mondo diventa un rischio, una caduta di orizzonte, un non mantenersi, un abdicare senza compenso: qualcosa di simile alla situazione che costringe lo schizofrenico alla immobilità statuaria dello stupore catatonico, cioè alla volontà sbarrata, spasmodicamente chiusa all'insidia del mondo.  La magia risale questa china e si oppone risolutamente al processo dissolvitore. Essa mette capo a una serie di istituti attraverso i quali il rischio è segnalato e combattuto. Un sistema di compensi, di compromessi, di guarentigie, sorgono a rendere possibile, in forme più o meno mediate, il riscatto della presenza. In virtù di questa plasmazione culturale, di questa creazione di istituti, il dramma esistenziale di ciascuno non resta isolato, irrelativo, ma si inserisce nella tradizione e si avvale delle esperienze che la tradizione conserva e tramanda. La presenza che fugge è agganciata, è trattenuta: mercé l'istituto dell'alter ego essa riprende drammaticamente se stessa nel compromesso dell'oggetto associato nel destino personale. Il morto che succhia l'anima e separato, allontanato, fissato, consolidato. La presenza si concede all'azione, ma muovendosi tra una fitta rete di domini interdetti o accessibili a condizioni determinate. I momenti critici dell'esistenza connessi con il lungo peregrinare, con la solitudine, la notte ecc. sono riplasmati in orizzonti definiti con i quali la presenza entra in rapporti regolati. Il mondo è rialzato dalla sua caduta mercé il novus ordo delle partecipazioni. Le aperture del corpo sono vigilate, e la forza che ne esce è padroneggiata, controllata, diretta, convertendosi in mezzo di potenza. Eppure tutti questi temi del riscatto magico, e gli altri infiniti di cui consta la magia, sarebbero stati ancora poca cosa se non fosse sorto l'eroe della presenza, il Cristo magico, cioè lo stregone. Attraverso lo stregone il rischio della labilità viene deliberatamente riassorbito nella demiurgia umana, diventa un momento del dramma culturale. E attraverso lo stregone tutta la comunità si riapre con rinnovata intensità al dramma del rischio e del riscatto. Si scatena ora, elevato a istituto, l'agone delle presenze nella vicenda delle fatture e delle controfatture. Ed è possibile ora il grande esorcismo dello specialista, la evocazione delle forze nascoste e il loro padroneggiamento. Lo stregone è infatti colui che ha acquistato il potere di regolare la labilità altrui. Infine, in questo agone della presenza che vuole esserci nel mondo emergono forme di realtà che sono impossibili per una civiltà che si fonda sulla presenza decisa e garantita, e che ha ormai distanziato l'epoca in cui l'individuazione stava ancora come un compito, e il proprio orizzonte nel mondo come un problema. Questa immagine del mondo magico che ora ci sta dinanzi implica una radicale riplasmazione della nostra Einstellung culturale, e soprattutto un incremento del nostro stesso concetto di realtà come categoria giudicante.

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1. A riprova dell'aderenza di questa interpretazione della magia, ricorderemo che nelle forme psicopatologiche in cui la sintesi psicologica della persona si indebolisce o si produce una dissociazione della personalità più o meno profonda, il malato reagisce tendendo a ricostituire, sia pure in forma frammentaria e caricaturale, il tema culturale magico della presenza che rischia di perdersi e che si riscatta da questo rischio. [...]

2. Per intendere quanto sia reale il rischio magico di «perdere l'anima», si consideri il seguente episodio, riferito a Sir J. Frazer dal reverendo Lorimer Fison in una lettera del 26 agosto 1898: un fuegino di Mukutu, risvegliato improvvisamente da qualcuno che gli aveva camminato sui piedi, prese a implorare angosciato la sua anima di tornare nella sua sede. Egli stava proprio allora sognando di essere molto lontano, a Tonga, e grande era la sua angoscia di ritrovarsi ora a Mukutu dopo l'improvviso risveglio. La morte era sopra di lui, a meno che gli riuscisse di convincere la sua anima di attraversare in tutta fretta il mare e rianimare la propria dimora abbandonata (Frazer, Taboo and the perils of the soul cit., pp. 39 sg.). Questo esempio, e gli altri analoghi riportati dal Frazer mostrano come il momento del risveglio può costituire nel mondo magico, un momento rischioso. Per comprendere la spontaneità e la reale rischiosità dell'esperienza, che non è necessariamente alimentata da una «idea superstiziosa», si pensi all'angoscia che talora noi stessi abbiamo provato quando, risvegliati dal sonno, ci sentiamo ancora immersi nella realtà di ciò che stavamo sognando, e ci sembra che il vero nostro io sia rimasto prigioniero della coscienza onirica. Questa impressione si accompagna con un senso di perdita o di attenuazione della propria realtà personale, il che costituisce il tratto più angosciante.


Ernesto De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, 2010 (ed. or. 1948), pp. 75-76, 81-82 e 165-166 [non ho riportato tutte le note, ma solo quelle più significative]

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