La scienza occidentale e il concetto di "natura culturalmente condizionata"

[In questi passaggi c'è in essenza la visione demartiniana del problema della realtà dei poteri magici. Visione che ha le sue debolezze, come aveva ben mostrato Mircea Eliade nella sua recensione al libro di De Martino.]

L'applicazione del metodo naturalistico ai fenomeni paranormali, e il tentativo di provarli sul piano in cui si muove la scienza sperimentale della natura, svela [...] a un certo punto il suo limite, e più esattamente una interna contraddizione: per provarli occorre considerarli come se fossero fenomeni dati, mentre il loro carattere è appunto questo, di essere ancora immediatamente inclusi nella sfera della decisione umana e quindi alegali o plurilegali in virtù della libera demiurgia di rappresentazioni, di affetti e di intenzioni umane. La scienza sperimentale della natura si è costituita togliendo a proprio ideale una natura purificata da tutte le «proiezioni» psichiche della magia: ora i fenomeni paranormali accennano proprio a una natura ancora contesta di queste «proiezioni», e non solo nella mera credenza, sibbene proprio nella realtà. Da ciò risulta che la semplice possibilità di fenomeni paranormali ripugna intimamente alla storia interna del moto scientifico moderno: per accettare tale possibilità esso o deve negare le proprie origini storiche, istituendo una sorta di crittogamia con la magia, ovvero deve superare la sua propria storia, attingendo un punto di vista più alto, una visione prospettica più comprensiva. La scienza è nata ritirando gradualmente e in modo sempre più consapevole la psichicità dalla naturalità: la possibilità di fenomeni paranormali significa per essa un vero e proprio «segno di contraddizione», uno «scandalo», in quanto la paranormalità è, in generale, di nuovo psichicità che torna alla natura, e natura che si carica di psichicità. Lo scandalo aumenta quando, effettuato il passaggio dal «piccolo mondo di medi isterici» al mondo storico del magismo etnologico, ci si imbatte nella paradossia della «natura culturalmente condizionata», cioè ancora valutabile come istituto, sorretto da istituzioni umane, e nel quale vive e si esprime un dramma culturale definito. In tal guisa noi tocchiamo un momento decisivo della nostra ricerca. Lo scandalo che suscita la semplice posizione del problema della realtà dei poteri magici, la resistenza ad accettare una soluzione positiva del problema, la protesta del «buon senso» come dello «spirito scientifico», il continuo rigerminare del dubbio in coloro che tentano l'accertamento sistematico dei fatti, tutto ciò accenna alla perdurante efficacia della polemica antimagica attraverso la quale si è costituita per una parte assai notevole la nostra Einstellung culturale, e più ancora testimonia a favore della necessità di attingere un punto di vista più alto, in cui il momento polemico sia superato, e il segno di contraddizione sia soppresso. Fin quando si assume il piano della datità naturalistica come l'unico possibile, la contraddizione scoppia prima o poi inevitabile: ma proprio quest'assunzione dogmatica si rivela in sostanza come boria culturale. Con singolare candore Wundt mette a nudo il motivo passionale che blocca, per così dire, il libero discorso della mente in cospetto del problema dei poteri magici: egli parla infatti di preferenza da parte dell'uomo occidentale a favore del «meraviglioso universo di Galileo e Newton», cioè dell'universo dato all'osservazione, controllabile con l'esperienza, risolubile razionalmente nella legalità scientifica. Ora proprio l'Einstellung* culturale connessa con questa preferenza, si costituisce per noi come problema, e ciò in virtù del potente reattivo del problema della realtà dei poteri magici. Secondo quanto fu detto all'inizio del presente capitolo, il problema dei poteri magici coinvolge non soltanto il soggetto del giudizio ma anche la stessa categoria giudicante, la categoria di realtà: noi ora già cominciamo ad intravvedere la nuova via che la ricerca è costretta a imboccare, sotto la spinta di una interna necessità del discorso. Ma prima di percorrere decisamente la «nuova via» della ricerca, è opportuno soffermarci ulteriormente sulla paradossia della «natura culturalmente condizionata», e mostrare, sulla base del documento etnologico, l'organica inserzione dei poteri magici nel mondo culturale correlativo. [pp. 52 - 53]

[...]

Si consideri, p. es., la domanda: «Ci sono gli spiriti?» La risposta tradizionale è: «Gli spiriti non ci sono, non ci sono mai stati. Sono frutto della superstizione, di credenze arbitrarie di mondi storici sepolti, o anche di stati psichici morbosi». Ma si tratta di una risposta semplicistica, e, più esattamente, di una negazione polemica, in cui la passione fa velo. Senza dubbio gli spiriti non ci sono, se assumiamo come unica forma di realtà quella correlativa alla presenza decisa e garantita e al mondo dato della nostra civiltà. Ma per poco che togliamo a problema non solo gli «spiriti», ma anche il nostro concetto di «realtà», ecco che gli spiriti possono anche esserci. In un ordine culturale in cui la presenza è in rischio, e in cui il riscatto si compie mercé p. es. l'istituto dello spirito adiutore fermato, raggiunto e controllato mediante la trance medianica, gli spiriti non sono affatto una idea o una immaginazione, ma proprio una realtà che partecipa attivamente al dramma culturale nel suo complesso (anche se il regista di questo dramma è in sostanza lo stregone). In un ordine culturale in cui l'unità del mondo e dei suoi oggetti è problematica e condenda, vi può essere realmente un oltre sistemato in «forze», «energie», «demoni» e «spiriti». Noi possiamo anche tradurre questa vicenda nel nostro linguaggio culturale e dire p. es., che gli spiriti sono esistenze seconde o proiezioni e personificazioni di affetti: ma nel mondo storico che è loro proprio gli spiriti sono reali così proprio come vengono figurati e sperimentati dalla «credenza», e solo un nostro malinteso polemico li può abbassare a «immaginazioni arbitrarie». Alla domanda: «Gli spiriti ci sono?», la risposta sarà dunque la seguente: «Se per realtà si intende il dato deciso e garantito del nostro mondo culturale, gli spiriti non ci sono. Ma se riconosciamo una forma di realtà che nel corso del dramma esistenziale magico storicamente determinato emerge come riscatto di una presenza in rischio in un mondo in rischio, dobbiamo altresì accogliere la realtà degli spiriti per entro la civiltà magica. In questo senso, gli spiriti non ci sono, ma ci sono stati, e possono tornare nella misura in cui abdichiamo al carattere della nostra civiltà, e ridiscendiamo sul piano arcaico dell'esperienza magica». [pp. 166-167]

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due sono gli atteggiamenti fondamentali rispetto al problema dei poteri magici: o tali poteri sono negati o addirittura non presi neppure in considerazione, ovvero essi sono più o meno ammessi, ma a patto di poterli ridurre integralmente nel quadro della nostra natura, e di poterli considerare in via assoluta come fenomeni dati, ricompresi pleno jure nell'ordine della legalità scientifica. Nel primo caso la indagine etnologica si orienta nel senso di una spiegazione psicologica degli errori, delle illusioni e delle allucinazioni della magia, ovvero, secondo la via battuta dal prelogismo, cerca di scoprire una «struttura mentale» tale da giustificare la pretesa impermeabilità magica all'esperienza. Nel secondo caso la indagine etnologica mette capo a una teoria sperimentale della magia e a un esame delle illazioni più o meno legittime che la magia ha tratto dalla «osservazione» dei fenomeni paranormali. Nel primo caso la nostra impermeabilità polemica all'esperienza magica e alle sue forme storiche di realtà viene ipostatata nella impermeabilità magica all'esperienza rispetto alla realtà del nostro mondo, assunta come paradigmatica; nel secondo caso la datità della nostra natura viene dogmaticamente attribuita anche ai poteri magici, e il nostro modo storico di essere presenti al mondo e di poterlo osservare viene senz'altro trasferito alla civiltà magica. Vi è dunque una sostanziale violenza che noi compiamo nel primo come nel secondo caso, poiché in entrambi immaginiamo antistoricamente come già realizzata una situazione che in effetti non lo è ancora, e imponiamo assolutizzando la datità a un'epoca storica che ancora non la possiede. Questa violenza dipende appunto dal presupposto di un mondo deciso e garantito come unico possibile, di una presenza senza rischio come unica reale, di una datità come unica forma di realtà che la presenza possa sperimentare: ma proprio questo presupposto deve diventare un problema, se vogliamo superare radicalmente le istanze polemiche che limitano il nostro orizzonte storiografico e che ci impediscono di «comprendere» il mondo magico. [pp. 212-213]

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* Atteggiamento, mentalità (nota mia)



Ernesto De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, 2010 (ed. or. 1948), pp. 52-53; 166-167 e 212-213.

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