L'inadeguatezza della religione indù allo sviluppo di una mentalità capitalistica

[...] ci sono anche casi a non finire in cui la religione e la cultura hanno costituito degli ostacoli. Ad esempio, l'induismo è una delle poche grandi religioni la cui dottrina non contempla l'eguaglianza di tutti gli esseri umani: non solo, ma esso li divide addirittura in una complessa serie di caste, ognuna con propri diritti, privilegi e modi di vivere. Tuttavia, per quanto curioso e paradossale possa sembrare, l'induismo non ha posto molti ostacoli alla pratica della politica liberale in India, anche se la crescente intolleranza fa pensare che questo possa finire: invece, a quel che sembra, esso ha costituito una barriera alla crescita economica. Di solito questo viene attribuito al fatto che l'induismo santifica la povertà e l'immobilità delle classi sociali più povere, alle quali fa intravedere la possibilità di una rinascita ad un livello più alto nelle vite successive ma che induce a rassegnarsi alla condizone in cui sono nati nella vita attuale. A questa santificazione tradizionale della povertà, Gandhi, il padre dell'India moderna, cercò di dare una forma un po' più moderna, ma sostanzialmente la incoraggiò predicando le virtù della vita semplice del contadino come il massimo della perfezione spirituale. È possibile che l'induismo abbia aiutato gli indiani che vivono nella miseria a sopportare un po' meglio la loro condizione, e d'altro canto la «spiritualità» di questa religione esercita un fascino enorme sui giovani occidentali della classe media; ma essa infonde nei suoi credenti un torpore ed un'inerzia tutti «terreni», che sotto molti aspetti sono l'opposto dello spirito del capitalismo. Ci sono molti imprenditori indiani di successo, ma sembra che le loro fortune le abbiano costruite soprattutto fuori dei confini della cultura indiana - un po' come i cinesi d'oltremare. Osservando che molti grandi scienziati indiani avevano lavorato all'estero, il narratore V.S. Naipaul ha scritto quanto segue:

La povertà indiana è più disumanizzante di ogni macchina, ed in India gli uomini, vincolati alla più stretta obbedienza dalla loro idea del dharma, sono dei numeri più che in ogni civiltà delle macchine. Ritornando in India, lo scienziato si spoglia dell'individualità acquistata nel periodo passato all'estero, riconquista la sicurezza della sua identità di casta, ed ecco che il mondo è di nuovo più semplice. Ci sono regole minuziose, soffici come bende, e l'intuito ed il giudizio dal quale un tempo veniva fuori la sua creatività vengono lasciati perdere come fardelli... Il cancro delle caste non è costituito solamente dall'intoccabilità e dalla conseguente deificazione, in India, della sporcizia: esso è costituito anche dall'obbedienza totale che questo sistema impone, dalle sue soddisfazioni readymade, dalla perdita del gusto dell'avventura e dal fatto che esso toglie alla gente l'individualità e la possibilità di eccellere.1

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1. V.S. Naipaul, India: A Wounded Civilisation. New York, Vintage Books, 1978, pp. 187-188.


Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, 1992, pp. 243-244

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