Perché le economie pianificate socialiste non sono state in grado di competere con i paesi capitalisti in epoca post-industriale

L'innovazione tecnologica e la divisione molto complessa del lavoro hanno dato luogo ad un enorme aumento della domanda di cognizioni tecniche a tutti i livelli dell'economia, e conseguentemente anche di gente che pensa. Questa comprende non solo scienziati ed ingegneri, ma anche tutte le strutture che li supportano, come scuole pubbliche, università e industria delle comunicazioni. Il maggior contenuto di «informazione» della produzione economica moderna si può rilevare dall'aumento del settore dei servizi - professionisti, managers, impiegati, gente che opera nel commercio, nel marketing e nella finanza, nonché i dipendenti statali e quelli della sanità - aumento che è andato a tutto svantaggio del «tradizionale» lavoro di fabbrica.

L'evoluzione del decision-making e dei mercati decentrati diventa praticamente inevitabile per tutte le economie industriali che sperano di diventare «postindustriali». Mentre nell'era del carbone, dell'acciaio e dell'industria pesante le economie pianificate centralmente potevano star dietro alle loro controparti capitaliste1, esse si sono rivelate invece molto meno capaci di tener testa alle esigenze dell'era dell'informazione. In effetti si può dire che proprio nel dinamico ed altamente complesso mondo economico «postindustriale» il marxismo-leninismo quale sistema economico abbia conosciuto la sua Waterloo.

In definitiva il fallimento della pianificazione centralizzata è collegato al problema dell'innovazione tecnologica. La ricerca scientifica procede meglio in un'atmosfera di libertà, dove la gente può pensare e comunicare liberamente e, cosa ancora più importante, dove essa viene ricompensata per le innovazioni. Anche l'Unione Sovietica e la Cina hanno promosso l'indagine scientifica, specialmente in aree «sicure» della ricerca di base o teoretica, ed hanno creato incentivi materiali per stimolare l'innovazione in settori come quello aerospaziale e della progettazione delle armi. Ma le economie moderne devono innovare in tutti i campi, non solo in quello dell'alta tecnologia; perciò anche in aree più prosaiche, quali il marketing degli hamburgers e la creazione di nuovi tipi di assicurazione. Ed invece lo stato sovietico ha coccolato i suoi fisici nucleari ma non si è preoccupato molto dei progettisti di televisori, tanto che questi ultimi scoppiavano con una certa regolarità; né di coloro che avrebbero aspirato a mettere sul mercato prodotti nuovi per nuovi consumatori, un settore del tutto inesistente sia in URSS che in Cina.

Le economie centralizzate non sono riuscite a prendere decisioni razionali in fatto di investimenti, né ad incorporare nuove tecnologie nei processi produttivi. Questo può verificarsi solo quando i managers ricevono informazioni adeguate sugli effetti delle loro decisioni, in forma di prezzi di mercato. In definitiva, è stata la concorrenza che ha garantito l'esattezza del feedback ricevuto attraverso il sistema della fissazione dei prezzi. Le riforme varate in Ungheria, in Iugoslavia, ed in misura minore anche nell'Unione Sovietica, miravano a dare ai managers un'autonomia in un certo qual senso maggiore, ma, in mancanza di un sistema razionale di fissazione dei prezzi, l'autonomia manageriale è servita a ben poco.

La complessità delle economie moderne ha dimostrato di essere semplicemente al di là della capacità delle burocrazie centralizzate, non importa quanto avanzate, di sfruttare le loro capacità tecniche. Al posto di un sistema di fissazione dei prezzi azionato dalla domanda, i pianificatori sovietici hanno cercato di decretare dall'alto una distribuzione delle risorse «socialmente giusta». Essi hanno creduto per molti anni che computers più grossi ed una migliore programmazione lineare avrebbero reso possibile un'efficiente distribuzione centralizzata delle risorse. Si rivelò un'illusione. Il Goskomtsen, l'ex commissione statale sovietica dei prezzi, era costretto a rivedere ogni anno circa 2000.000 prezzi, ovvero tre o quattro prezzi al giorno per ogni funzionario addetto a questo ufficio. Ma questo rappresentava solo il 42 per cento del numero totale delle decisioni sui prezzi prese ogni anno dai funzionari sovietici, che a sua volta costituiva solo una frazione del numero delle decisioni sui prezzi che avrebbero dovuto essere prese se l'economia sovietica fosse stata in grado di offrire la stessa diversità di prodotti e di servizi di un'economia capitalistica occidentale. I burocrati di Mosca o di Pechino avrebbero potuto avere la possibilità di stabilire una sembianza di prezzi efficienti se avessero dovuto sovrintendere ad economie tese a produrre centinaia di manufatti o al massimo qualche migliaio; ma un compito come il loro diventa impossibile in un'epoca in cui solo un aereo è fatto di centinaia di migliaia di pezzi. Inoltre nelle economie moderne la fissazione dei prezzi riflette sempre più le differenze qualitative: una Chrysler Le Baron ed una BMW sono entrambe automobili, dal punto di vista tecnico generale: tuttavia gli acquirenti hanno dimostrato una sostanziale preferenza per la seconda a causa di un certo «feel» della medesima. Ora la capacità dei burocrati di rendere attendibili caratteristiche del genere è, a dir poco, problematica.

Le necessità che i pianificatori centrali hanno di mantenere il controllo sui prezzi e la distribuzione dei beni impedisce loro di partecipare alla divisione internazionale del lavoro, e perciò di realizzare le economie di scala che essa rende possibili. La Germania comunista, con 17 milioni di abitanti, tentò coraggiosamente di realizzare entro i propri confini un duplicato dell'economia mondiale, ma in realtà riuscì a riprodurre solo delle cattive versioni di un gran numero di prodotti che essa avrebbe potuto acquistare all'estero a prezzi molto inferiori, dalle inquinanti automobili Trabant ai pregiati microprocessori di Erich Honecker.

Infine la pianificazione centralizzata mina un importantissimo aspetto del capitale umano: l'etica del lavoro. Anche un'etica del lavoro molto forte può essere distrutta da politiche economiche e sociali che negano alla gente gli incentivi al lavoro, e ricrearla può rivelarsi molto difficile. [...] ci sono buone ragioni per credere che la forte etica del lavoro di molte società non sia il risultato del processo di modernizzazione ma derivi dalle tradizioni e dalla cultura pre-moderna di queste società. Il possesso di una forte etica del lavoro può anche non essere la condizione indispensabile per il successo di un'economia «postindustriale», ma certamente è un elemento che aiuta, e può diventare un contrappeso cruciale alla tendenza di queste economie ad enfatizzare più i consumi che la produzione.

Tutti ci aspettavamo che gli imperativi tecnocratici della maturità industriale finissero per portare ad un ammorbidimento del controllo centrale comunista ed alla sua sostituzione con una prassi più liberale, orientata verso l'economia di mercato. L'affermazione di Raymond Aron che «la complessità tecnologica avrebbe rafforzato la classe manageriale a spese degli ideologi e dei militanti» ne riecheggiava una precedente, secondo la quale i tecnocrati sarebbero stati i «becchini del comunismo». Queste predizioni alla fine si sono dimostrate esatte; quello che in Occidente la gente non poteva prevedere era quando si sarebbero avverate. Lo stato sovietico e quello cinese hanno dimostrato di essere perfettamente capaci di portare le loro società fino all'età del carbone e dell'acciaio perché la tecnologia richiesta non era eccessivamente complessa e poteva essere padroneggiata anche da contadini in massima parte analfabeti, strappati con la forza alla campagna e messi a catene di montaggio semplificate. Non solo: gli specialisti con i requisiti tecnici richiesti per mandare avanti questa economia si sottomisero con facilità e docilità al controllo politico. Una volta Stalin mise in un gulag il noto progettista aeronautico Tupolev, e fu proprio là che egli progettò uno dei suoi migliori aerei. I successori di Stalin riuscirono a cooptare managers e tecnocrati offrendo loro status e compensi particolari in cambio della fedeltà al sistema. In Cina invece Mao seguì un metodo diverso: non volendo che crescesse, come nell'Unione Sovietica, un'intellighenzia tecnica privilegiata, dichiarò guerra ai tecnocrati: una prima volta durante il Grande balzo in avanti della fine degli anni '50; e poi di nuovo durante la Rivoluzione culturale della fine degli anni '60. Ingegneri e scienziati furono costretti a lavorare nei campi o a fare altri lavori manuali massacranti, mentre i posti che richiedevano competenza tecnica andarono a ideologi politicamenete ortodossi.

Queste esperienze dovrebbero insegnarci a non sottovalutare la capacità degli stati totalitari o autoritari di resistere agli imperativi della razionalità economica per un considerevole periodo di tempo - nei casi dell'Unione Sovietica e delle Cina, per una generazione e anche oltre. Ma alla fine questa resistenza è stata pagata con la stagnazione economica. La totale incapacità delle economie sovietica e cinese, pianificate centralmente com'erano, di superare il livello di industrializzazione degli anni '50 tolse a questi paesi la possibilità di svolgere ruoli importanti sulla scena internazionale, se non addirittura di salvaguardare la loro sicurezza nazionale. La persecuzione dei tecnocrati voluta da Mao durante la Rivoluzione culturale si rivelò un disastro economico enorme, che fece arretrare la Cina di un'intera generazione. Per questo uno dei primi atti di Deng Xiaoping, quando a metà degli anni '70 giunse al potere, fu di ripristinare il prestigio e la dignità dell'intellighenzia tecnica e di difenderla dalle bizzarrie della politica ideologica, scegliendo la strada della cooptazione imboccata dai sovietici una generazione prima. Solo che il tentativo di cooptare élite tecnologiche al servizio dell'ideologia finì col produrre il risultato meno desiderato. Queste élite, infatti, dato il grado relativamente maggiore di libertà per pensare e per recarsi a studiare all'estero, cominciarono a conoscere e ad adottare le idee che vi circolavano, per cui, proprio come aveva temuto Mao, l'intellighenzia tecnologica divenne il principale canale conduttore del «liberalismo borghese» ed ebbe un ruolo chiave nel successivo processo di riforme.

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1. Anche nel caso di queste industrie più antiche però le economie socialiste sono rimaste notevolmente più indietro delle controparti capitaliste nella modernizzazione delle lavorazioni manifatturiere.


Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, 1992, pp. 112-116. [ho omesso le note di semplici rimandi bibliografici].

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