L'enorme potere dell'autosuggestione nei primitivi

Riferiscono Spencer e Gillen: «Non c'è dubbio che un Arunta morirà per una ferita, anche superficialissima, se crederà che l'arma che ha causato la ferita sia stata affatturata (sung), e dotata di arungquilta. Egli si accascia, rifiuta il cibo, e deperisce. Non molto tempo fa un uomo di Borrow Creek fu leggermente ferito all'inguine. Sebbene il caso non fosse per nulla grave, tuttavia egli insisteva nel dire che la freccia era stata affatturata (charmed), e che egli doveva morire, come infatti morì di lì a qualche giorno. Un altro uomo mentre veniva da Tennant Creek ad Alice Springs si prese un leggero raffreddore, ma lo stregone del luogo gli disse che i membri di un gruppo a circa venti miglia a est gli avevano portato via il cuore: la qual cosa credendo, l'uomo si accasciò e andò in consunzione. Analogamente a Charlotte Waters venne da noi un uomo con una leggera ferita alla schiena. Gli fu assicurato che la ferita non era grave, e fu curato come si suole in casi simili. Ma l'uomo persisteva nel dire che la freccia era stata affatturata, e che essendo la sua schiena rotta, sebbene in modo invisibile, egli doveva morire: come infatti morì. Esempi del genere potrebbero essere moltiplicati, e sebbene non è possibile provare che la morte non sarebbe sopravvenuta in ogni caso (cioè sia che l'indigeno avesse sia che non avesse creduto l'arma affatturata), tuttavia ove si tenga presente la gravità delle ferite e delle lesioni a cui l'indigeno sopravvive quando non ha il sospetto di un intervento magico, non è possibile spiegare la morte in tali circostanze se non associandole senz'altro alla ferma credenza che l'arungquilta è entrato nel suo corpo, e che quindi egli deve morire».¹

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1. Spencer e Gillen, The Arunta cit. II, pp. 403 sgg. Il rischio reale della vittima affatturata è da porsi in stretto rapporto con il rischio reale di chi viola il tabu. In Old New Zealand by a Pakeha Maori, London 1884, pp. 96 sgg. si legge che una volta uno schiavo venuto a conoscenza di aver mangiato resti del pasto di un capo, sebbene fosse uomo famoso per il suo coraggio e guerriero apprezzato dalla tribù, fu assalito da convulsioni violentissime e da crampi allo stomaco che non cessarono se non con la morte, che avvenne al tramonto dello stesso giorno. W. Brown, in New Zealand and its aborigines, London 1845, p. 76, riferisce che una donna maori morì per aver mangiato un frutto tabu. Dichiara E. Tregear, in The Maori of New Zealand («Journal of the Anthropological Institute», 1890, p. 100): «Il tabu è un'arma terribile. Ho visto un uomo forte, giovane, morire lo stesso giorno nel quale aveva commesso la violazione di tabu: le vittime per tabu violato muoiono come se la loro vigoria fluisse via al pari dell'acqua». Per questi e altri esempi del genere vedi Frazer, Taboo and the perils of the soul, 1911³, pp. 314 sgg. [...]

Ernesto De Martino, Il mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, Bollati Boringhieri, 2010 (ed. or. 1948), pp. 105-106.

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