La falsificazione del documento come esigenza dell'aderenza ad una verità ideale

Nell'aspirazione a ristabilire il diritto nella sua purezza originale gli uomini del Medioevo erano guidati dall'idea del diritto ideale quale doveva essere in corrispondenza alle loro idee di giustizia. Per realizzare questa aspirazione, ricorrevano talvolta a delle falsificazioni. Ma la falsificazione di un atto giuridico non sempre era allora una falsificazione sfacciata e cosciente, mirante a puri scopi egoistici. La cosa era molto più complessa. Il «pio inganno» (pia fraus) confinava con l'autoinganno. Emendando nella trascrizione il testo dell'atto di dotazione, il monaco partiva dalla convinzione che la terra di cui si trattava nel documento non poteva non essere donata al luogo santo, al monastero, perché sarebbe stato ingiusto e, quindi, impossibile che essa fosse posseduta da un laico empio. Ai suoi occhi ciò non costituiva un falso, ma il trionfo della giustizia sulla menzogna. Nello stendere un falso documento, che attribuiva al sovrano di un'epoca precedente la concessione a un luogo santo di una proprietà fondiaria, si dava solo il dovuto a questo pio re che «doveva» aver agito così, e nel contempo si constatava la circostanza evidente per gli uomini del Medioevo che, quando esiste un diritto di proprietà, esso non può non essere antico. Allo stesso modo anche nella falsa testimonianza spesso si era guidati dalla coscienza della giustizia che esigeva la rettifica dell'errore giuridico.

I documenti dovevano esprimere la verità superiore, cioè la giustizia, e non sancire fatti puramente casuali, poiché la verità è contenuta non nei rozzi fatti della quotidianità, ma nella coscienza giuridica, di cui era dotato in primo luogo il clero. Le decretali pseudoisidoriane che motivavano il potere supremo della Chiesa di Roma sull'Europa occidentale e attribuivano all'imperatore Costantino la relativa donazione a favore del vescovo di Roma, erano un falso, ma tale da esprimere la «realtà ideale», l'egemonia papale nel mondo medievale. Si può condividere l'opinione secondo cui è difficile trovare un miglior rappresentante dello «spirito del tempo» medievale del falsificatore.

Parlando delle falsificazioni medievali dei documenti, M. Bloch rileva il paradosso consistente nel fatto che, a causa dell'alta considerazione verso il passato, nel Medioevo si tendeva a rappresentarlo non come era ma come avrebbe dovuto essere. Ricorrevano ai falsi tanto i singoli quanto le istituzioni religiose e laiche, che cercavano in ogni modo di dimostrare la propria antica origine, e di conseguenza la propria rispettabilità e legittimità. L'università di Parigi veniva fatta risalire ai tempi di Carlo Magno, quella di Oxford risultava istituita sotto il re Alfredo, mentre Cambridge vedeva il proprio fondatore addirittura nel leggendario Artù. La astoricità del pensiero faceva poi sì che i documenti venissero alterati non nello stile del tempo al quale essi si sarebbero dovuti riferire, ma nello stile della propria epoca.

I cronisti medievali proclamavano immancabilmente la verità del proprio obiettivo principale ed elemento imprescindibile della propria esposizione. Intanto però riempivano le loro opere di notizie fantastiche e di invenzioni, per non parlare del molto che passavano sotto silenzio. Evidentemente la verità del loro tempo rappresentava qualcosa di diverso dalla verità scientifica dell'epoca moderna: essa doveva corrispondere a norme ideali, essere anzitutto conforme non all'effettivo corso delle vicende terrene, ma alle superiori predestinazioni del disegno divino.

Inoltre, in una società costruita sul principio della fedeltà alla famiglia, all'etnia, al signore, la verità non poteva essere un valore indipendente dagli interessi concreti del gruppo. La fedeltà alla verità era sostituita dalla fedeltà al signore o dalla fede nel Signore. La verità era per così dire «antropomorfa».

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Gli uomini vivevano in un'atmosfera miracolosa, che veniva ritenuta la realtà quotidiana. La personalità intellettualmente autonoma costituiva una realtà relativamente poco diffusa. La coscienza collettiva dominava su quella individuale. La fede nella parola, nelle immagini, nei simboli era illimitata e non incontrava critica alcuna; in queste condizioni la falsificazione aveva inevitabilmente un notevole successo. L'idea e la realtà non erano nettamente distinte e non era difficile accettare come vero ciò che era necessario, non ciò che era reale.


Aron Jakovlevič Gurevič, Le categorie della cultura medievale, Einaudi, 1983 (ed. or. russa 1972), pp. 185-187 [ho omesso le note].

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