La posizione della chiesa medievale nei confronti dell'usura

Il divieto della Chiesa nei riguardi dell'interesse usurario era motivato dalle parole di Cristo «e date a prestito senza sperare nulla» (Luca, 6, 35). La transazione monetaria poteva avere, di conseguenza, solo il carattere di favore gratuito, di interesse amichevole. Ogni incremento della somma data in prestito (salvo il dono volontario in segno di riconoscenza) veniva condannato come illecito profitto. Se il mercante, nel vendere la merce più cara di quanto l'aveva acquistata, poteva ancora trovare giustificazione nelle spese legate alla sua conservazione e al suo trasporto, nella necessità di ricevere una ricompensa per i servizi prestati, l'usuraio invece non aveva, per i teologi medievali, alcuna giustificazione. La rendita degli usurai è amorale e iniqua, poiché essi la ricevono senza faticare e «guadagnano il denaro persino durante il sonno», nei giorni di festa e di mercato. L'usura era considerata vendita di denaro, dunque trasferimento del diritto di proprietà su di esso; da qui la peculiare etimologia, nota già agli antichi, del termine mutuum, «prestito»: mutuum perché il «mio» (meum) diventa «tuo» (tuum): «quasi de meo tuum». Ma è iniquo esigere, oltre al compenso per la cosa venduta, anche un pagamento per il suo uso; sarebbe come se oltre al prezzo del vino si riscuotesse anche il pagamento per averlo bevuto. Il denaro era considerato nel Medioevo come qualcosa che doveva essere usato; seguendo Aristotele, i pensatori medievali ritenevano il denaro infruttuoso («nummus non parit nummos»), la sua unica destinazione essendo quella di servire come mezzo di scambio. Già si è detto di un altro argomento razionale contro l'usura: l'usuraio essenzialmente lucra sul tempo; prestando denaro, egli dopo un determinato periodo lo riottiene e ne esige l'interesse. Ma nessuno può fare commercio del tempo, creazione divina concessa come patrimonio universale. Il commercio del tempo è una «deformazione delle'ordine delle cose» (Bonaventura).

Il divieto dell'attività usuraria, che vigeva inizialmente solo per gli ecclesiastici, venne presto esteso a tutti i cristiani. Sotto i Carolingi essa era condannata non più solo dalla Chiesa, ma anche dal potere statale. Nel corso di tutto il Medioevo i concili ecclesiastici, i decreti papali, i predicatori e i teologi denunciarono il peccato di usura. Dante paragona Caorsa (Cahors), città i cui ricchi erano celebri per l'usura, a Sodoma, e condanna gli usurai - accanto ai simoniaci, i maestri di frodi, i ruffiani - ai tormenti del sesto cerchio dell'Inferno: «...là dove di' ch'usura offende la divina bontade...», «e perché l'usuriere altra via tene, per sé natura e per la sua seguace dispregia, poi ch'in alto pon la spene».

Tuttavia solo i teologi si attenevano a un'incondizionata condanna dell'usura. I giuristi medievali - i legisti che studiavano il diritto romano, i canonisti, gli esperti di diritto ecclesiastico - adottarono, su tutta una serie di punti, un'ottica diversa, meno rigoristica. Il diritto romano ammetteva la libertà del commercio e dell'attività usuraria, in base al principio della sovranità della volontà di coloro che partecipavano alle operazioni commerciali. Nel XII e XIII secolo i giuristi e i canonisti di Bologna affermavano che «i contraenti naturalmente possono raggirarsi l'un l'altro» e sbagliarsi» nel fissare il prezzo pur rispettando la «buona coscienza», cioè agendo senza intenzione d'ingannare. Neanche fra i teologi vi era unanimità, per quanto concerneva sia gli argomenti contro il lucro, sia il rigore della sua condanna. I teorici che si occupavano di questi problemi si trovavano a dover affrontare due diversi approcci, quello del «diritto divino» (lex divina) e quello del «diritto umano» (lex humana): alla luce del primo l'usura era null'altro che un peccato e un male, mentre il secondo considerava le attività finanziarie con maggiore flessibilità, tenendo conto delle reali esigenze dell'economia mercantile in sviluppo. Il diritto umano non è in grado di vietare tutto ciò che viola la perfetta virtù, mentre la legge divina nulla lascia impunito ed esige una giustizia assoluta.

Particolare importanza veniva attribuita alle intenzioni: un errore nella fissazione del prezzo non era ancora di per sé un peccato; essenziale, nella transazione, era la coscienza delle parti. L'usura nasce alla speranza del profitto e tutti gli espedienti e i sotterfugi diretti a occultare gli interessi ricevuti non possono salvare l'anima dell'usuraio. La Chiesa non veniva a compromessi con gli usurai, vietando loro persino di destinare per testamento alla beneficenza il denaro guadagnato ingiustamente. Da loro e dai loro eredi si pretendeva che tutto quanto ricevuto sotto forma di interesse venisse restituito ai debitori derubati. Nel XV secolo, allorché l'usura raggiunse a Firenze una dimensione senza precedenti, l'arcivescovo Antonino si scagliò contro di essa con un fervore e un'intransigenza molto maggiore di quanto non avessero fatto i suoi predecessori, i teologi dei secoli XIII e XIV. La moltiplicazione del denaro attraverso l'usura sembra qualcosa di fantastico - scriveva - mentre in realtà è opera della mano del diavolo. Di una famiglia di usurai egli diceva che quattro generazioni di suoi membri erano state condannate alle pene dell'inferno per non aver restituito le ricchezze che il loro disonesto antenato aveva guadagnato. La Chiesa non si limitava alle proprie condanne e scomuniche degli usurai; nel XIII secolo anche le autorità talvolta ponevano sotto accusa i prestatori a interesse, organizzando nei loro confronti processi giudiziari. Molti usurai si trovavano in condizioni di isolamento sociale.

Naturalmente le condanne e i divieti della Chiesa erano impotenti ad arrestare lo sviluppo dell'usura e tanto meno a porvi fine. Il fatto stesso che coll'andar del tempo il tono delle condanne si faccia sempre più duro, non attesta forse l'inestirpabilità del peccato contro cui erano dirette? Ciò nondimeno gli attacchi contro i prestatori ad interesse esercitarono un'influenza frenante sull'attività bancaria. Secondo l'opinione di un eminente specialista di storia delle operazioni finanziarie, R. de Roover, non si può in generale comprendere l'attività bancaria medievale senza prendere in considerazione la dottrina della Chiesa che condannava il lucro. I banchieri e gli usurai non potevano ignorare questi divieti. Pur non rinunciando alla loro attività, erano costretti a trovare vie indirette per ottenere denaro senza attirare su di sé l'ira del clero, principale portavoce della morale ufficiale. Come risultato, tutta la struttura delle operazioni bancarie acquistava un carattere molto specifico.

Poiché ogni sovrappiù richiesto oltre la somma prestata era considerato lucro («quidquid sorti accedit, usura est»), bisognava ricorrere a ogni genere di sotterfugi con cui celare l'interesse usurario. Uno dei metodi più diffusi per ottenere il proprio profitto senza un'aperta riscossione degli interessi, era il cambio dei mandati di pagamento, riscossi in una città o in un paese diversi da quelli in cui era stato contratto il debito. Il senso di queste transazioni consisteva nel fatto che l'operazione di cambio non era un prestito, e il cambio di denaro o la compravendita di valuta estera non ricadevano sotto la condanna della Chiesa Nei libri di conto dei Medici e degli altri cambiavalute-banchieri italiani si fa riferimento a molte migliaia di lettere di cambio ma non vi è nessuna indicazione attestante la riscossione del profitto. Venivano registrate solo «le entrate e le perdite di cambio». Questo modo di condurre gli affari era estremamente scomodo: esso rendeva più complesse le operazioni e la loro formalizzazione, aumentava le spese e richiedeva tempo e complicazioni supplementari nel fare i conti. Il problema principale era che aumentava il rischio collegato alla transazione finanziaria, nella quale, accanto al creditore e al debitore, si richiedeva anche la partecipazione di un corrispondente; attraverso di lui le parti operavano i trasferimenti. Il creditore si trovava a dover dipendere dal debitore, il quale sapeva che in caso di una sua mancata restituzione del debito, si avrebbe avuto timore a tradurlo in giudizio. Di conseguenza, il prezzo del prestito aumentava, poiché gli usurai cercavano di salvaguardarsi da possibili perdite. L'attività bancaria si svolgeva in condizioni malsane, e il fallimento di una grossa banca non più in grado di recuperare i prestiti concessi era fenomeno frequente. Talvolta erano gli stessi sovrani a dichiarare la propria insolvibilità. Pubblicamente i grandi banchieri non erano considerati usurai. Gli espedienti ai quali ricorrevano nel concedere prestiti a interesse erano alla portata solo dei detentori di grandi capitali e dei loro rappresentanti in altre città e paesi. Mentre i grandi uomini d'affari eludevano l'accusa di prestare denaro a interesse, tale possibilità era preclusa ai piccoli usurai, e principalmente contro di loro si appuntavano dunque le maledizioni della Chiesa e il pubblico disprezzo. Tuttavia anche molti ricchi detentori di capitali erano oppressi da problemi di coscienza; si sono conservati numerosissimi testamenti nei quali i loro autori ordinavano di risarcire ai debitori il danno causato dalle loro operazioni. Il numero di questi testamenti diminuisce in Italia a partire dalla metà del XIV secolo; evidentemente i banchieri, senza rinunciare alla loro attività, sempre più raramente si autocensuravano per la propria disonestà.

In Francia e in Spagna i mercanti subivano con maggiore disagio i divieti della Chiesa; spesso si consultavano con il clero sulla liceità delle loro diverse operazioni, e alcuni - come il mercante spagnolo del XVI secolo Simon Ruiz - rinunciavano a partecipare a ogni transazione dubbia. Nell'aspirazione a conciliare il commercio con la devozione gli spagnoli rivelavano maggiore scrupolo degli italiani. Questi ultimi erano meno propensi a vedere nel commercio di denaro un dilemma pericoloso per l'anima, e spesso iniziavano i loro registri di commercio e le loro annotazioni personali con queste parole: «Nel nome del Signore nostro Gesù Cristo e della sua santa Madre Vergine Maria e di tutti i Santi in paradiso, essi ci diano per la loro grazia e bontà salute e successo, moltiplichino le nostre ricchezze, e i nostri figli, le nostre anime e i nostri corpi saranno salvi». Il fatto che gli autori di simili preamboli ai documenti d'affari non sentissero il divario tra la loro pratica di incremento delle ricchezze e le preoccupazioni per la salvezza dell'anima doveva indubbiamente favorire i loro affari.

Ma in quale misura la relativa serenità dei mercanti italiani dell'epoca del Rinascimento può dare l'idea dello stato d'animo del cittadino medievale occupato in operazioni finanziarie? L'etica degli affari doveva subire la fortissima influenza delle maledizioni della Chiesa all'indirizzo dei prestatori a interesse, e non poteva non fare i conti con un'opinione pubblica fortemente orientata contro l'usura. L'atmosfera spirituale della società medievale, con il suo congenito scarso apprezzamento della ricchezza e con il suo orientamento verso il consumo, non favoriva il libero sviluppo dell'attività finanziaria.

Sarebbe errato ritenere che la politica della Chiesa nei confronti dell'usura riflettesse direttamente gli interessi dei piccoli produttori o di qualsiasi altra classe della società medievale. I teologi erano guidati innanzitutto dai principî generali della giustizia e della dottrina evangelica del male inevitabilmente legato alla ricchezza pecuniaria. Non a caso, tuttavia, proprio dal XIII secolo aumenta l'attenzione dei teologi per questi problemi. Tra la popolazione si diffuse largamente il malcontento verso l'usura, in connessione con il suo sviluppo; delle operazioni finanziarie venivano a soffrire soprattutto i piccoli proprietari, gli artigiani, i contadini, la bassa nobiltà. In questo senso v'è ragione di ritenere che la condanna dell'usura da parte della Chiesa riflettesse obiettivamente gli umori di questi gruppi sociali. Tuttavia, come abbiamo visto, in realtà i castighi della Chiesa toccavano piuttosto i piccoli usurai, lasciando ai grandi banchieri sufficienti scappatoie per sfuggire alle condanne. Essi godevano della protezione dei forti di questo mondo, che erano ricorsi ai loro prestiti, e degli stessi pontefici, le cui operazioni finanziarie erano spesso di grande portata. È importante tuttavia non dimenticare che l'atteggiamento negativo verso il prestito del denaro a interesse aumentava grandemente il rischio collegato a simili operazioni e rendeva la professione del banchiere impopolare e odiosa. Solo l'epoca moderna capovolse questo orientamento medievale, che impediva la libera accumulazione e l'arricchimento, e riabilitò ogni forma di attività economica. «Il denaro non puzza», ma non in ogni società.


Aron Jakovlevič Gurevič, Le categorie della cultura medievale, Einaudi, 1983 (ed. or. russa 1972), pp. 291-296 [ho omesso le note].

Commenti

  1. Con la globalizzazione, il prestito a interesse rientra nuovamente nelle categorie dell'usura. Se prima era una necessità ora non lo è più. Il flusso del denaro grazie alla rivoluzione telematica è talmente veloce che una banca può sopravvivere e svilupparsi anche solo ed esclusivamente tramite l'uso dei propri depositi clienterali.
    L'unica giustificazione che ancora autorizza eticamente pur non moralmente il prestito a interesse è la naturale tendenza dell'inflazione ad aumentare così che la stessa somma di denaro prestata, pur conservando lo stesso valore nominale, restituita tempo dopo vale di meno in termini d'acquisto.
    Ad ogni modo anche questa giustificazione sarà prima o poi bandita poiché la cristianità terrena tende verso l'essere l'immagine in terra del Regno di Dio, dove il Logos, La Ragione è L'Amore.
    Il denaro tende naturalmente a perdere valore perché la sua natura e il suo naturale destino è quello di finire sia nel grande che nel piccolo.
    Prima o poi il denaro dovrà finire come segno e ciò coinciderà con l'avvento di una nuova società dove le persone lavorano per amore, perché c'è bisogno, laddove c'è bisogno o secondo la propria naturale vocazione e aspirazione e i consumatori prenderanno senza abusare della neo-gratuità delle cose.

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    1. Lei è piuttosto ottimista nei confronti della natura umana. Io lo sono un po' meno.

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    2. Beh se si configura che prima della moneta vi era il baratto, possiamo allora immaginare una identica sua risposta qualora io o un altro avesse detto che in un futuro ci scambieremo dei fogli di carta e con essi potremo comprare quello che vogliamo.
      Poiché il valore della moneta non è intrinseco ma attribuito, non è questione di ottimismo ma di area delle possibilità figurare una maturazione antropologica grazie a cui l'uomo ha perfettamente introiettato e integrato dentro di sé il valore del denaro.
      Si pensi all'esperienza islamica dove il denaro materiale e sostituito da una forma di moneta spirituale, l'hassanat, con la quale il mussulmano commercia con Allah, configurando questo come il miglior commercio.

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    3. Ecco, appunto, lei parla di "maturazione antropologica", ma il passaggio dall'economia del baratto alla cartamoneta non ha affatto presupposto una "maturazione antropologia": ci si è arrivati come si è arrivati alla lettera di cambio perché erano cose comode, razionali, le quali non implicavano minimamente una rivoluzione antropologica, un salto verso la santità. Lei guardandosi in giro vede indizi di maturazioni antropologiche nell'umanità attuale che vanno nella direzione in cui si auspica?

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  2. Difficile stabilire a posteriori quali siano stati paradigmi reali alla base di ogni evento e rivoluzione umana: ho utilizzato il termine generico "maturazione antropologica" per questo, forse lei è più addentro nella materia per tanto tale termine non le risulta affatto generale, chiedo venie di ciò.
    E' sempre difficile se non impossibile accorgersi al presente delle cose, cambiamenti, rivoluzioni e scoperte a venire, serve maturazione antropologica appunto, determinata anche dall'esperienza, dall'uso e dai reami reali e complessi dell'interiorità. Se così non fosse, se il cambiamento e l'azione dipendessero soltanto dalla razionalità, saremmo passati dal baratto alla carta-moneta a livello meramente speculativo in sede ragionamento mentale. Invece è stato antropologicamente necessario per l'uomo passare attraverso l'esperienza, della realtà del baratto, vivere il baratto.
    Dall'esperienza del baratto poi sono maturate tutte quelle sintesi gnoseologice la cui somma convergerà progressivamente a un nuovo stato di cose da cui emergerà naturalmente come soluzione più razionale l'uso della carta moneta.

    Lei mi chiede se vedo indizi di maturazione antropologica. Se fossi un alieno esterno al sistema in esame forse potrei risponderle più facilmente, ma poiché mi sta interrogando su un processo in atto di cui io stesso faccio parte indissolubile, la mia risposta sarebbe come quella di un pesce che tenta di giudicare gli altri pesci di un acquario. Per rispondere mi servirebbe un distacco che non credo di avere.

    Quello che però posso dirle che io ho Fede in questo e questa mia fede non è campata in aria, cioè non si fonda su congetture, ma è un esperienza, una realtà, uno spazio, un'apertura che provo al livello del cuore, e che mi fa dire, aver fiducia e sperare questo.
    La razionalità non è esclusa da questo mio sentire poiché vede nel mondo un uomo inserito in un cammino storico all'interno del quale pur sempre imperfetto cresce tra errori e orrori, successi e fallimenti.
    Quello che non so e che temo è che l'uomo debba necessariamente passare per eventi tragici e traumatici per darsi una sistemata. Temo che l'uomo debba sempre aspettare che il vaso si pieno fino all'orlo e debordi in catastrofe.

    Tuttavia c'è anche chi vive la crisi perenne dell'uomo nel momento stesso in cui essa accade.
    Pertanto non posso dire se vedo indizi di maturazione antropologica nell'umanità attuale se non come atto visivo e semi-volontario di fede. Tuttavia quello che posso dirle con certezza razionale è che Noi possiamo essere quegli stessi indizi che cerchiamo.

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