La ricchezza finalizzata allo sperpero del signore medievale

Analizzando la concezione della ricchezza e della proprietà che definiva gli orientamenti di valore della classe dominante della società feudale, c'imbattiamo in un fenomeno che a prima vista sembra paradossale. Gli orientamenti etici della cavalleria rivelano una considerevole somiglianza con le idee di ricchezza proprie dei barbari. E non solo. La somiglianza si estende anche alla più ampia cerchia degli orientamenti ideologici e psicologico-sociali dei feudatari. I concetti di «onore», di «gloria», di «alto lignaggio» fatti propri in tale ambiente sembrano anch'essi direttamente mutuati dall'epoca che precede la nascita della struttura di classe.

Tra le virtù che caratterizzavano il signore feudale al primo posto stava la generosità. Il signore è un uomo circondato dai suoi familiari, dai membri della sua guardia, dai vassalli, da coloro che lo servono, da coloro che lo appoggiano ed eseguono i suoi ordini. La potenza del signore nobile è definita dal numero dei subordinati e dei fedeli. Senza questo egli non è senior, non è l'«anziano», il «superiore», non è il sovrano e capo. Naturalmente, il signore è il proprietario terriero che domina sui contadini e da loro riceve i suoi redditi. Se non avesse gli introiti che gli provengono dai possessori dipendenti delle terre non sarebbe in grado di mantenere il suo seguito e di alimentare una massa di parassiti. La rendita che egli riceve dai suoi possessi gli dà la possibilità di organizzare banchetti e feste, di ricevere ospiti, di distribuire doni, in una parola di condurre una vita sfarzosa. Assume valore di norma la condotta del signore che generosamente, senza calcolo, distribuisce e sperpera la ricchezza, non badando se le spese superano le entrate. La differenza tra le entrate e le uscite può essere coperta con esazioni supplementari imposte ai contadini, estorsioni, ammende, rapine, prede di guerra. La parsimonia e l'economia sono qualità che l'etica di ceto caratterizza come controindicate. Dei suoi redditi si preoccupano il balivo e il sovrintendente; suo compito è invece quello di mangiare e bere quanto riscosso, di distribuire ed elargire il patrimonio, e con quanta maggiore larghezza e pompa saprà farlo, tanto più sarà la sua gloria e tanto più alta la sua posizione sociale, di tanto maggiore considerazione e prestigio egli godrà.

Secondo le norme accettate in questo ambiente, per il feudatario la ricchezza non è uno scopo per sé, né un mezzo d'accumulazione o di sviluppo e miglioramento dell'economia. Aspirando ad aumentare i suoi redditi, egli non si propone scopi produttivi; il loro aumento crea la possibilità di ampliare la cerchia di amici e familiari, di alleati e vassalli, tra i quali egli sperpera denaro e ogni tipo di prodotti. Il cavaliere avaro di Puškin, che gode in segreto e in solitudine della vista e del suono del denaro custodito nelle cantine in forzieri di ferro, è una figura caratteristica dell'epoca del Rinascimento, ma che non ha nulla in comune con il cavaliere del Medioevo. La prodigalità feudale costituisce una delle vie attraverso le quali avviene la ridistribuzione nell'ambito della classe dominante dei beni ottenuti dallo sfruttamento della popolazione asservita. Ma tale modo di ripartizione feudale non poteva ricevere alcuna soddisfazione dalla consapevolezza di possedere dei tesori se non era in grado di sperperarli e ostentarli o, più esattamente, di sperperarli con ostentazione. Poiché non si tratta semplicemente di «bersi» e «dilapidare» la ricchezza, ma della pubblicità e risonanza di tali banchetti e distribuzioni di doni.

L'uso della ricchezza che caratterizza il mondo feudale ricorda fortemente il potlatch degli indiani nordamericani, che dinanzi agli occhi dei membri della tribù invitati a banchetto distruggevano tutte le scorte alimentari, facevano a pezzi le barche da pesca e si sforzavano con ogni altro mezzo di schiacciare gli ospiti con la loro generosità e prodigalità. Marc Bloch riporta alcuni esempi consimili della prassi feudale medievale. Un cavaliere ordinava di seminare il campo con pezzi d'argento; un altro usava per preparare il cibo costose candele di cera al posto della legna; un terzo signore «per vanità», come scrive il cronista, bruciò vivi trenta dei suoi cavalli. Tutti questi atti di sperpero, naturalmente, venivano compiuti in pubblico, alla presenza di altri feudatari e vassalli, ed erano destinati a strabiliarli. In caso contrario simili stravaganze non avrebbero avuto alcun senso.

Nelle gare di prodigalità sul tipo del potlatch, proprie delle società arcaiche, e nei banchetti «alla maniera di Gargantua», organizzati dai feudatari medievali, v'è qualcosa di comune: sia in un caso sia nell'altro non è difficile scorgere una generosità aggressiva, un'aspirazione a schiacciare gli invitati con la propria prodigalità e a riportare la vittoria in un singolare gioco «sociale» la cui posta erano il prestigio e l'influenza. Naturalmente in questa condotta dei feudatari si rivela piuttosto la fedeltà alla tradizione che una mentalità dominante, e nella «vanità» dei signori stravaganti i contemporanei vedevano qualcosa d'inconsueto, che si allontanava dalla norma. Ma qui si manifesta in forma ipertrofica un lato essenziale della psicologia nobiliare. Per il feudatario la ricchezza è l'arma che gli permette di mantenere la propria influenza sociale, di affermare il proprio onore. In sé, il possesso della ricchezza non assicura nessuna considerazione; al contrario, il mercante che possiede beni innumerevoli e si lascia sfuggire di mano il denaro solo per moltiplicarlo come risultato di operazioni commerciali e usurarie, suscita nella società medievale ogni tipo di emozione - invidia, odio, disprezzo, paura - all'infuori della considerazione. Viceversa, il signore che dissipa senza preoccuparsi il bottino e i propri redditi, anche se non vive secondo le proprie disponibilità, ma organizza banchetti e distribuisce doni, merita considerazione e gloria. La ricchezza è concepita dal feudatario come un mezzo per raggiungere scopi che si trovano ben al di là dei limiti della sua economia. La ricchezza è un segno che testimonia la virtù, la generosità, la prodigalità del signore. Questo segno può essere realizzato solo attraverso l'ostentazione di tali qualità. Così, il momento culminante del godimento della ricchezza è la sua dissipazione in presenza del maggior numero possibile di persone che partecipano al suo consumo, che ricevono una parte dei doni del signore.


Aron Jakovlevič Gurevič, Le categorie della cultura medievale, Einaudi, 1983 (ed. or. russa 1972), pp. 258-260 [ho omesso le note].

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