I sadhu (anacoreti) e il loro rapporto con chi vive nel mondo

Più un sadhu vive ritirato, più la sua personalità segna profondamente l'India - paese del drago incantato. Per un indù che vive in seno alla famiglia, nella società, coloro che vi hanno rinunciato e si sono rifugiati in posti desertici sono simili agli dèi solo per il fatto della rinuncia. Anche se l'eremita è un personaggio mediocre in preda alle tentazioni di questo mondo, il suo valore rimane intatto. Un giorno raggiungerà la liberazione alla quale aspira tanto l'anima indiana. Mentre coloro che partecipano alla vita sociale sono condannati a rinascere e ancora a rinascere, nella ruota dolorosa delle trasmigrazioni, il samsara...

E quando è un bianco, un europeo cristiano, a consacrarsi alla rinuncia monastica, anche solo per qualche tempo, allora la sua vita diviene mitica e il suo nome è adorato come quello di un rishi [veggente]. La notizia si diffonde, attraverso i primi pellegrini, nei bazar, nei treni, durante le veglie attorno al fuoco - ed ecco l'immagine di questo bianco trasfigurarsi, assumere proporzioni leggendarie: le sue parole sono mandate a memoria e ripetute, i suoi scritti tradotti nelle cento lingue dell'India. Da semplice europeo qualunque venuto a imparare qualcosa dagli asceti himalayani, si ritrova improvvisamente idealizzato, in una strana e inverosimile apoteosi. Sentendo parlare di lui, la gente arriva, non smette di venire per il darshana (visita). La sua kutiya [capanna, romitaggio] è invasa da gruppi di devoti: vegliardi che gli chiedono spiegazioni sulla Bhagavadgita, uomini che gli offrono migliaia di rupie per fondare asili o scuole religiose, donne che lo coprono di regali - tele tessute in casa, dolci, melagrane, sacchetti di zucchero e di tè, banane e mandorle - vergini che si prosternano nella sabbia per toccargli i sandali con la fronte, bambini che reclamano la sua benedizione in sanscrito, malati che lo supplicano di guarirli, ignoranti che vogliono essere illuminati.

Egli si vede spossessato della sua personalità per essere trasformato in benefattore, in taumaturgo. Le sue penose confessioni - non è niente, non sa niente, è venuto in India per imparare e non per insegnare - passano per santa umiltà. Se parla, è considerato una grande anima, un magnanimo che perde il suo tempo per aiutare gli ignoranti. Se tace, è considerato un autentico santo, che ha superato le ciarle dei semplici mortali. Allora gli uomini gli si inginocchiano davanti, le donne gli accarezzano i piedi, piegandosi fino a toccargli gli abiti con la fronte. Una sua sola parola li rende felici per una stagione. Si aspettano tutto da questo bianco che ha accettato di vivere alla maniera dei rishi; ne aspettano un sorriso, uno sguardo, un verso sanscrito o soltanto l'invocazione: «Shanti! Shanti!» (pace). L'India è assetata d'amore, di simpatia sincera e disinteressata da parte di coloro che l'hanno asservita. Una parola gentile del padrone, e il domestico sarà suo schiavo a vita. Persone che hanno conosciuto soltanto l'odio e il disprezzo degli europei sono soggiogate da ogni eccezione, e più ignorano ciò che è l'Europa, più la loro devozione è sincera e profonda...


Mircea Eliade, India, Bollati Boringhieri, 1991 (ed. or. romena 1934, 1935), pp. 124-125.

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